Adriano - racconti e altro

Vita da fauni

Seduto all’ombra di un albero, nella calura del pomeriggio, Lucio Fauno osservava pigro il gregge di pecore, che pascolava nelle vicinanze. Erano sempre nelle sue vicinanze: non aveva bisogno di impegnarsi o dare ordini. Bastava che ci fosse lui e le pecore gli gravitavano attorno, come pezzi di ferro attratti da una calamita. Era parte dell’essere fauno, dono che la sua gente aveva portato con sé, uscendo dal mito, ed era certo un dono molto utile, per chi come lui lavorava da pastore. Alle volte, però, avrebbe preferito che le pecore rivolgessero quegli ottusi occhi adoranti verso qualcun altro: era stressante, essere un dio per gli ovini.

«Ci riposiamo, Lucio?»

Lucio si girò verso la voce. Un giovane dai capelli ricci, e non proprio puliti, stava scendendo verso di lui a passo di trotto, spingendosi di tanto in tanto col bastone. Entusiasta, pimpante, in apparenza pieno di voglia e di energie: nuovo assunto, senza dubbio. Tito Acilio Libero, forse, ma non avrebbe scommesso la paga: gli umani erano più o meno tutti uguali, per lui, e doveva imparare a notare le differenze di carattere e gestualità, per distinguerli al primo colpo. A ogni modo, quello sembrava proprio Tito, assunto da qualche giorno e ancora precario. Lo salutò con un cenno della mano.

«Non c’è bisogno di muoversi molto, se alle pecore piace questo posto.»

Tito Acilio Libero sorrise. «Buon per te! Oggi mi hanno fatto diventare matto, invece! Non stavano mai ferme e mi è toccato correre tutta mattina. Terribile, davvero!»

A giudicare dalla sua espressione, non doveva essere stato così terribile, per lui, ma lo era stato di sicuro per le pecore. Non erano animali intelligenti, ma sembravano saper captare l’incompetenza di un pastore, sempre. Lucio scrollò le spalle. Aveva ancora molto da imparare, quel ragazzo, ma non toccava certo a lui insegnarglielo.

Tito lo raggiunse, si guardò attorno e si sedette lì accanto, all’ombra. «Ti spiace se mi siedo?» gli chiese, dopo averlo già fatto.

«Fai pure.» Lucio scrollò di nuovo le spalle. Per quanto avesse potuto capire lui, Tito era un bravo ragazzo, grossomodo. Non proprio una cima, non proprio sveglio, ma in fondo a nessun pastore era richiesto di essere un Aristotele o un Archimede: finché era più intelligente di una pecora, poteva bastare. Tito lo era, in media. Era anche discendente di un ex schiavo, come tutti i pastori della zona e come il suo cognome rendeva fin troppo chiaro, ma Lucio aveva imparato che era bene non fare domande in proposito. Gli umani le consideravano offensive.

I fauni vivevano ancora nel mito, quando era stata abolita la schiavitù, ma Lucio aveva raccolto una certa quantità di informazioni in proposito e adesso riteneva di saperne a sufficienza, almeno per evitare incidenti diplomatici. Sapeva che, al momento dell’editto di affrancamento, tutti gli schiavi avevano assunto il nome del proprio ex proprietario, qualunque esso fosse, mentre il cognome era un ricordo del lieto evento: Libero, Liberato, Liberio e così via, per citare i più comuni. Se incontri una persona con un cognome di quel tipo, stai sicuro che suo nonno, suo padre, o persino lui stesso, se è molto vecchio, aveva usufruito di quell’editto. Ed è meglio non chiedere dettagli.

Suo zio, Publio Fauno, aveva idee un poco diverse in proposito. Diceva che quel senatore era stato una volpe, quello che aveva proposto l’affrancamento, perché la sua legge aveva scambiato un tipo di schiavitù con un altro, molto più economico. Tipico degli umani, aveva aggiunto. Lucio Fauno si riservava il beneficio del dubbio, preferendo posizioni più diplomatiche. Erano liberi, buon per loro: il resto era secondario.

Tito intanto fissava le pecore, seduto, e respirava a fondo. Doveva essere sceso dal monte di corsa, o quasi, da bravo ragazzino pieno di energie, nonché dotato di poca previdenza: c’era da farsi saltare una caviglia, a prendere un sasso o una buca. Gli umani sapevano essere così inconsapevoli, che a volte si chiedeva come fossero riusciti a sopravvivere e diventare la specie dominante. Il favore di un dio, forse, oppure del fato.

Lucio Fauno studiò con attenzione la faccia di Tito, mentre diversi piccoli muscoli vi si contraevano e le sopracciglia salivano e scendevano, in modo irregolare. Per quanto aveva potuto appurare, era il segno che un qualche pensiero si stava formando: di lì a poco gli avrebbe probabilmente rivolto una domanda, su un qualche argomento che gli era costato una lunga e articolata riflessione. Di solito accadeva così, con gli altri pastori. Non una professione per nuovi Aristotele, appunto.

«Ascolta,» disse infine Tito. «Tu sei un fauno, vero?»

Lucio Fauno sospirò, ma solo nel segreto della propria mente. No, non sono un fauno. Ho le gambe di una capra, la coda di una capra, le corna di una capra e anche l’odore di una capra, se non mi lavo a dovere, ma non sono un fauno. Sono solo una persona che ama molto le capre. Come avrebbe reagito Tito, se lui gli avesse risposto così?

Non avrebbe colto l’ironia, poco ma sicuro. Anzi, probabilmente gli avrebbe fatto nuove domande, ancora più stupide, per farsi spiegare la spiegazione. Allegria. E poi risposte simili portavano solo a problemi. Per quanto aveva potuto verificare lui, da quando la sua gente era entrata nel mondo, non tutti gli umani erano attrezzati per comprendere certe sfumature del linguaggio e cambiamenti nella intonazione. «Sì, sono un fauno,» si accontentò di rispondere, col tono più neutro possibile.

«Già, già,» disse Tito, annuendo. «Sono le corna, sai. E anche le gambe me lo hanno fatto pensare.»

«Succede spesso,» ammise Lucio, mantenendo un volto serio.

«Non ho niente contro i fauni, per carità.»

«Ottimo.» Era curioso come tutti si affrettassero a specificare di non avere nulla contro i fauni, dopo averlo identificato come un fauno. Forse anche lui avrebbe dovuto specificare di non avere nulla contro gli umani, ogni tanto, ma sapeva che lungo quella strada c’erano soltanto problemi. Sempre per la storia della comprensione, come si diceva. Meglio far finta di niente e annuire.

«Però... pensavo fossero un po’ diversi. Cioè... tu non sembri proprio un fauno, ecco.»

«Ah.» Lucio Fauno non seppe soffocare l’impulso di guardarsi i piedi. Zampe di capra, sì, proprio come dovevano essere. Forse erano le corna a non andare bene? Erano spettinate?

«Voglio dire... i fauni suonano, no? E corrono dietro alle donne.» Tito lo fissava con una faccia seria seria, che appariva ancora più anomala sul volto di un ragazzo che, per almeno un altro paio di anni, non sarebbe riuscito a farsi crescere un pelo di barba, nemmeno col concime.

Lucio respirò a fondo, contò fino a dieci, poi si rilassò, lentamente. Eccola, di nuovo la solita storia. Quante volte lo avrebbe dovuto spiegare, ancora, prima che imparassero la differenza? Fino a che i satiri non si fossero decisi a passare da quelle parti, probabilmente, anche se non sarebbe stato un bel giorno, almeno non per tutti. Per alcuni sì, forse. O per alcune, almeno.

«Quelli non sono i fauni, ma i satiri,» rispose.

«Ma satiri e fauni sono uguali, no?»

«No, non siamo uguali. Siamo molto diversi, soprattutto per come ci comportiamo.»

«Ma siete entrambi mezze capre, cioè...»

Lucio Fauno sapeva che Tito non voleva essere offensivo, o almeno lo sperava. Se lo augurava. Lo voleva credere, in mancanza di alternative. Era molto giovane, in fondo. Era molto stupido, ancora più in fondo. Probabilmente sapeva solo pensare per procura, ripetendo ciò che sentiva dai vecchi o altri adulti. Aveva molte attenuanti a proprio favore. Perché allora avvertiva l’impulso di strozzarlo?

«Fauni e satiri sono creature diverse, che svolgono attività diverse in campi diversi,» spiegò, con tutta la pazienza che riuscì a racimolare. «Vivono anche in posti diversi, se è per questo.»

«Ah, già, questo lo so: i satiri stanno in Grecia, giusto?»

«Ehm... sì, giusto, anche se non era proprio a questo che mi riferivo io. Noi fauni eravamo spiriti delle campagne e delle selve, prima di venire qui, legati alla pastorizia: vivevamo dove pascolavano gli animali, insomma, e proteggevamo i suddetti animali, oltre che i viandanti. È vero, a volte li spaventavamo anche, ma siamo sempre stati un popolo un poco burlone. Non cattivi, solo un popolo che amava giocare. I satiri, invece, sono fatti in modo diverso. Hanno orecchie da cavallo, coda da cavallo, barba folta, naso schiacciato... Non proprio belli, insomma. E poi non hanno niente a che fare coi pascoli, gli animali e altro. Hanno interessi diversi, ecco.»

Tito lo fissava perplesso, a bocca aperta. Aveva esagerato, vero? Era stata la parola selve? Oppure viandanti? Suddetti, magari. Lucio Fauno si era impegnato parecchio, per essere il più civilizzato possibile, ma probabilmente si era impegnato troppo e adesso aveva superato alcuni umani. Diversi umano. Molti umani, almeno tra quelli che doveva frequentare più spesso. Era molto complicato adattarsi a quel mondo, davvero.

«Hai capito quello che ho detto, vero?» chiese, vedendo che il ragazzo non reagiva proprio.

«Sì, sì, ma... e i fauni non suonano?»

«Non abitualmente, anche se nessuna legge lo vieta. Io, ad esempio, sono parecchio stonato, ma ci sono altri che probabilmente si divertono a suonare, proprio come ci sono umani che suonano bene e altri che non suonano proprio.»

Altra pausa di silenzio e bocca aperta, mentre Tito elaborava le nuove informazioni e si preparava a una qualche risposta. «Ma io pensavo che voi suonaste quei cosi con tutte le canne,» disse poi.

«Quelli sono i satiri.»

«Che però sono mezze capre come voi.»

Lucio sospirò. «Hanno orecchie da cavallo e coda da cavallo, e spesso anche altre caratteristiche da cavallo, ma non hanno niente a che fare con le capre. E neanche coi cavalli, in effetti. Sono soltanto umani un poco brutti, molto pelosi, con qualche pezzo da cavallo. Tutto qui. Siamo molto facili da distinguere, in effetti.» E neppure noi saremmo mezze capre, in realtà, ma spiegarlo a te è come spiegarlo a una quercia, con la differenza che magari la quercia ti potrebbe anche ascoltare e di sicuro conosce già la differenza, se è abitata da una querquetulana.

«E voi non fate... quelle cose... di notte... con...» balbettò Tito, arrossendo fino alle orecchie e forse anche oltre, mai i capelli lo coprivano misericordiosamente.

«Anche quelli sono i satiri,» spiegò. «Sono famosi per fare quelle cose, e pare che le ninfe non siano poi contrarie.» E neppure molte delle donne umane, se sono vere le storie, ma questo è un discorso che è meglio evitare. Chissà cosa potrebbe mettersi in testa, quel Tito. E cosa potrebbe chiedere.

«Ah... e voi...»

«Come gli esseri umani, niente di strano.» Non seppe trattenere un sorriso, vedendo la delusione sul volto del ragazzo. Chissà cosa pensa che siamo, noi? Ma era meglio non saperlo, dopotutto. A volte gli umani si facevano delle idee, che avrebbero coperto di vergogna persino un satiro ubriaco.

«Voi state solo con le pecore, insomma.»

«Non solo con le pecore, ma prenderci cura degli animali al pascolo è la nostra specialità, per cui molti di noi lavorano come pastori. Non affiderei mai un gregge a un satiro, perché probabilmente finirebbe arrostito in una delle loro feste.»

«Sono così cattivi?»

«Hanno altri interessi e altre capacità, ma non li definirei cattivi. Difficili da gestire, a volte, e non è saggio fidarsi troppo di quello che fanno e che dicono, ma lo stesso vale anche per gli umani, no?»

L’osservazione volò ben al di sopra della testa di Tito, che sembrava perso in un qualche tipo di riflessione. Lucio lo lasciò bollire, controllando invece le pecore. Tutte ancora impegnate a brucare, tutte nei dintorni: sapeva che le avrebbe trovate così, ma di tanto in tanto bisognava pure guardare, giusto per salvare le apparenze. Nessuna pecora si sarebbe allontanata volontariamente da lui, o dal fauno che le aveva in custodia. Era un loro dono, dopotutto.

«Mi piacerebbe incontrare un satiro,» disse Tito, alla fine.

«Ancora non si sono fatti vedere, ma di certo arriveranno pure loro, prima o poi. Non si perderanno il divertimento, credimi.» Cercava di non pensare ai vari motivi per cui un ragazzo dell’età di Tito potesse desiderare di incontrare un satiro, ma era difficile. I pensieri cercavano di formarsi da soli, nella sua testa, e non erano pensieri di cui sentirsi orgogliosi. A meno di essere un satiro, ovvio.

«Uhm.» Tito Acilio Libero sembrò perdersi in altre riflessioni, su cui Lucio non volle indagare, poi si alzò di scatto e raccolse il proprio bastone. «Devo scendere, adesso. Poi mi insegni come si fa a tenere buone le pecore? Le mie scappano sempre.»

Lucio Fauno sorrise. «Quando sarai più grande, te lo insegnerò,» certo che il ragazzo se lo sarebbe dimenticato in un paio di giorni. «È un trucco per uomini, sai,» e gli strizzò l’occhio.

Tito sorrise e corse via, scendendo la montagna col passo di chi cerca il suicidio, o in alternativa una gamba rotta. Senza salutare e senza ringraziare, osservò Lucio, con un altro sospiro.

Non sembrava un cattivo ragazzo, quel Tito Acilio Libero. Stupido sì, su questo non aveva dubbi, ma non costituzionalmente cattivo. Assomigliava un po’... sì, assomigliava ad Aulo, il ragazzo che aveva fatto tirocinio assieme a lui, ma che poi era stato scartato per manifesta incapacità. Perdere una pecora era un reato da pena capitale, almeno agli occhi di un capo pastore come si deve, e Aulo ne aveva persa una. D’accordo, lui gliela aveva ritrovata, ma ciò non cambiava la situazione, anche perché Aulo stesso aveva ammesso l’errore e se n’era assunto la responsabilità, davanti al capo.

Così era stato scartato. Per quanto ne sapeva Lucio, era poi partito per cercare fortuna nella grande città, ma non aveva idea di come fosse andata a finire. Non molto bene, con ogni probabilità, se non aveva saputo correggere il proprio difetto fondamentale, ossia la superficialità con cui faceva ogni cosa. Lucio Fauno scrollò le spalle, tornando al presente.

I satiri. Non si erano ancora fatti vivi, e questo era strano. Che si fossero già estinti? Difficile, quasi impossibile. Avevano ancora un certo seguito, in Grecia, e forse era per questo che tardavano: non sentivano l’urgenza, non si erano ancora trovati con l’acqua dell’estinzione alla gola, come invece era successo alla sua gente. Sarebbero arrivati. Bastava dar loro tempo, e aspettare forse che pure le ninfe arrivassero. A Lucio era sembrato di vederne qualcuna, tra i boschi della zona, ma era sempre difficile esserne sicuri, con loro. Erano così sfuggenti...

«Baaa.»

Lucio Fauno annuì, al richiamo della pecora, e si alzò, spazzolandosi la tunica. Era rimasto fermo in quel posto anche troppo a lungo ed era tempo di rimettersi in movimento. Il sole gli diceva che il pomeriggio era ormai vicino alla propria metà e presto avrebbe cominciato a declinare verso la sera. Il lavoro davanti era ancora molto, o almeno lo sarebbe stato per un umano, incapace di controllare il gregge come faceva lui. Per un fauno, invece, era poco più di una passeggiata.

A volte gli capitava di sentirsi leggermente in colpa, pensando a quanto era pagato, in rapporto alla poca fatica che faceva. Guadagnava più di un umano e faticava molto meno. Considerato però che anche la qualità del lavoro era molto superiore, riteneva che, nel complesso, lo stipendio fosse più che meritato. Anzi, forse avrebbe avuto diritto a un aumento, se proprio si voleva essere fiscali e fare i conti in tasca al padrone. Per il momento, però, si poteva accontentare.

Fischiettando, Lucio si incamminò lungo l’appennino, con il gregge al seguito, una scena che aveva lasciato tutti gli umani a bocca aperta, quando l’avevano vista per la prima volta. Il pastore segue le pecore, non le precede: così era impresso nei loro cervelli. Il pastore le segue e controlla che siano sulla strada giusta. Lucio non ne aveva bisogno. Lui camminava e le pecore lo seguivano, in fila e in ordine, come legionari in marcia. Anche quella era una dote.

Sì, tutto sommato viveva in un buon mondo. Avevano fatto la scelta giusta, ritornandoci. E anche le altre razze avrebbero fatto la scelta giusta, prima o poi. Il mondo aveva bisogno di miti, per sentirsi vivo, e i miti avevano bisogno di un mondo, in cui vivere. E lui avrebbe avuto bisogno di un bel bagno, caldo e rilassante, ma a quello avrebbero provveduto le terme di Velleia. Quasi nessuno lo guardava male, ormai: erano diventati gente come tutti gli altri, da quelle parti, si erano adattati alla vita locale e ne erano stati accettati. Sì, la vita gli sorrideva.

Accompagnato da belati di adorazione, Lucio Fauno proseguì col proprio lavoro, mentre la calura del pomeriggio sfumava piano nel fresco della sera. Era proprio una bella giornata, per essere un mito.

di Adriano Marchetti