Adriano - racconti e altro

La voce nella tempesta

Era uno schifo di tempo, su questo Agatarco non aveva dubbi. Sarebbe stato uno schifo anche in condizioni normali, col vento che soffiava da ogni direzione sfavorevole, ma la tempesta che si era ritrovato nei denti non era normale, proprio no. La Victoria scricchiolava, sballottata dalle onde, e il timoniere, che Zeus lo avesse in gloria, la controllava come avrebbe controllato un toro, tenendolo per le corna e pregando gli dei. In altri termini, non la controllava, ma cercava solo di tenerla buona, mansueta, per non farsi scrollare tra le onde e morire come un sorcio.

E dire che era quasi arrivato al Pireo. Mancava poco, pochissimo, poteva quasi sentire l’odore di Atene, il sapore del suo vino, i piaceri dei suoi locali. Mancava poco e l’avrebbe potuta raggiungere prima che facesse buio. Ne era certo, ne era convinto. Poi si era alzato il vento. Si erano ammassati nuvoloni, che parevano l’ira di Zeus. La velocità era calata quasi del tutto, mentre il mare cambiava in collina, poi in montagna, sotto lo scafo della sua nave oneraria. E infine, quando era così buio da non vedere neppure dove finissero i tuoi sputi, la tempesta era cominciata.

E continuava, ancora. Agatarco aveva pregato, prima di mettersi in mare. Aveva offerto sacrifici a Poseidone, perché gli concedesse un viaggio tranquillo. Perché il mare restasse calmo, soprattutto. I romani avevano fatto tante cose, più o meno gradevoli, ma per una di queste si erano guadagnate la gratitudine imperitura di tutti i mercanti come lui: avevano spazzato via i pirati. Nel mare nostro, o più precisamente mare loro, gli unici pericoli che restassero erano quelli naturali. Agatarco si era illuso di poter evitare persino quelli, nel suo viaggio. A poche ore dall’arrivo, l’illusione era caduta.

Una tempesta violenta, una tempesta fuori stagione, una tempesta così anomala che pareva davvero l’ira di un nume, almeno secondo quasi tutti i marinai. E lui c’era in mezzo. Tra un fulmine e l’altro, con uno sforzo degli occhi si potevano intuire le luci del Pireo, laggiù da qualche parte, ma c’erano troppe cose nel mezzo: scogli, isolette, secche, e altro ancora. E se davvero gli dei erano irati con loro, chissà cos’altro avrebbero potuto mettere sulla rotta. Meglio non pensarci.

Sì, era davvero uno schifo di tempo.

Eumelia sarebbe stata d’accordo con lui, se lo avesse potuto sentire. Appollaiata su uno scoglio, con le onde che le innaffiavano le penne, era felice come un galletto davanti a un altare di Esculapio. Sospirò, spostandosi un poco in cerca di una posizione più comoda. Non che fosse possibile trovare una posizione più comoda, quando sei appollaiata su un pezzo di roccia, ma almeno si illudeva di poterne trovare una migliore. Sentiva la nave in avvicinamento, capacità che le era stata tramandata dalle antenate, e sapeva anche cosa avrebbe dovuto fare. Lo sapeva per istinto, ma lo corresse per addestramento. Farsi prendere la mano, o l’ala, sarebbe stata la mossa peggiore, al momento.

Beh, quasi la mossa peggiore. La mossa peggiore, in effetti, sarebbe stata farsi prendere da un’onda e sballottare chissà dove, per finire cadavere su qualche spiaggia, ma anche abbandonarsi all’istinto e dimenticare l’addestramento non sarebbe stato un bene. No per niente. Quindi, meglio attenersi al regolamento e fare ciò per cui era pagata. E stringersi più forte allo scoglio.

Agatarco non sapeva più che dio pregare, quando sentì la voce. Era una voce musicale, affascinante, una voce che lo catturava e lo attirava a sé, quasi stordendolo, addormentandolo. Era una voce di... Il panico fu la prima reazione, istintiva e grande, ma un attimo dopo fu il cervello a intromettersi e a dargli una pacca sulle spalle. Stai calmo, gli disse il cervello, non c’è niente da temere. Non ricordi i consigli, prima della partenza?

Non li ricordava, in effetti, ma adesso stava a poco a poco tornando tutto a galla. Ed era meglio che stesse a galla, sia in senso figurato che letterale, data l’agitazione del mare. È solo una sirena, già, e non c’è niente da temere. Lo avevano avvisato, in effetti, che nei pressi del Pireo ne avrebbe trovata una, in caso di emergenza: se la visibilità era scarsa, se il tempo era inclemente, avrebbe sentito il suo canto, a guidarlo fino alla meta. Una sirena, per avvisare i naviganti e condurli al sicuro.

Agatarco si rilassò. Il pensiero delle vecchie storie di Odisseo lo abbandonò a poco a poco, mentre la sana realtà ritornava al proprio posto. Poteva sentire la sorpresa dei marinai, sul ponte, e poteva sentire le esclamazioni del timoniere, ma anche loro erano stati avvisati e sapevano cosa fare. Lo sapevano forse meglio di lui, dato che era la prima volta che sentiva una sirena. Il timoniere, invece, quante ne aveva già sentite? Non molte, forse, perché erano una cosa recente, ma probabilmente ne aveva sentite abbastanza, da sapere cosa fare. Agatarco lo sperò.

La sua voce era chiara, più potente anche del temporale. Seguitemi, la sentivano intonare, conosco io la strada. Vi porterò al sicuro. La Victoria la seguì, dondolando tra le onde. Pian piano, in un tempo che né Agatarco né gli altri avrebbero saputo stimare, troppo buia e identica la notte, ecco che le prime luci del Pireo si avvicinavano, si ingrandivano, si fissavano: la meta. La distanza era calata ormai a sufficienza e il timoniere si poteva orientare anche con gli occhi, ma la voce continuò ancora per un poco, fino a che non furono ormai incanalati verso i moli, al sicuro. Poi, rapida come era arrivata, la voce svanì, come sciogliendosi nel buio sul mare.

Attraccarono, infine, bagnati fradici ma sorridenti. La forza della tempesta stava calando, ma ancora rimaneva più che sufficiente a farli tremare, al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere, sena quella voce. No, meglio non pensarci, per scaramanzia. Coi piedi finalmente sulla solida pietra del Pireo, Agatarco si concesse un rapido ringraziamento alla sirena, che gli aveva probabilmente salvato la vita. E dire che, una volta, erano temute così tanto dai marinai... erano proprio tempi nuovi, tempi migliori.

Che fossero proprio tempi nuovi, lo sapeva bene anche Eumelia, sempre appollaiata sullo scoglio inzuppato dalle onde dell’Egeo. Le sue antenate se la passavano certo moto meglio di lei, quelle che il canto di Omero aveva reso immortali e temute: spaparanzate in un prato fiorito, dove cantavano per attirare i marinai di passaggio, o per ordinare il pranzo, a seconda dei punti di vista. Nessun problema di turni, di stipendio, di residenza da cercare. Altri tempi, tempi mitici e selvaggi, nonché esentasse.

«I tempi sono fatti per cambiare,» amava ripetere la sua capa, quando erano a riposo nel villaggio a Egina, che ospitava quelle di stanza in Ellade. Aveva ragione, certo. Eumelia lo doveva ammettere. Eumelia doveva anche ammettere molte altre cose, non necessariamente di proprio gradimento, ma questo era un discorso differente. Ricordava bene come era strato prima, quando vivevano ancora nel mondo mitico. Considerate le alternative, umanizzarsi ed entrare nel mondo reale non era stato poi un evento così orribile.

Avrebbe tuttavia apprezzato condizioni di lavoro migliori.

Lo scoglio su cui si trovava, oltre a essere freddo, scomodo e fradicio, era anche teoricamente al coperto. Aveva una specie di tettoia, se non altro. Riparava dalla pioggia diretta, quando cadeva in verticale. Quando però si alzava il vento, come accadeva fin troppo spesso, e la pioggia ti piombava addosso dai lati, in diagonale, la tettoia riparava come un dito. Aveva penne così bagnate, che le avrebbe potute strizzare, e in quella stagione ci avrebbero messo una vita ad asciugarsi. E i capelli, poi? Vogliamo parlare dei capelli?

No, meglio non farlo. Quando sei una sirena, ossia un uccellaccio con la testa di donna, di fastidi ne hai già a sufficienza, senza dover parlare dei capelli. Eumelia sospirò, guardandosi attorno, per quel che il buio le permetteva di vedere. Non sarebbero passate altre navi, non quella notte: lo sapeva, glielo dicevano i suoi sensi. Il turno, però, sarebbe durato fino all’alba, navi o meno, così avrebbe dovuto attendere ancora a lungo. Al bagnato. Al freddo. Da sola. Sospirò di nuovo.

C’erano lati positivi, a volerli cercare con cura, come Diogene si divertiva a cercare l’uomo buono. Per cominciare, erano donne e lavoravano, cosa alquanto rara da quelle parti. Non solo lavoravano, ma era anche un lavoro rispettabile, di cui poter parlare in pubblico, senza che qualche bigotto ti guardasse male. Ma c’era il trucco. In quanto sirene, tecnicamente non erano donne, per cui non era un problema che lavorassero e fossero indipendenti. Se solo avessero anche potuto scegliersi lavori più piacevoli, tanto di guadagnato, ma per adesso si dovevano accontentare.

Eumelia, ad esempio, avrebbe voluto guadagnarsi da vivere cantando. Aveva una bella voce, una voce potente, anche per gli standard di una sirena. Doveva proprio passare la vita a usarla così, per guidare marinai fessi verso il più vicino porto? Non le pareva giusto. Sapeva che uomini, o meglio umani maschi, campavano cantando, spesso per ricchi mercanti o altri pezzi grossi. È vero, di solito suonavano, oltre a cantare, ma non credeva che avrebbe costituito un problema, per lei: con la voce che aveva, nessuno si sarebbe preoccupato di rifilarle una cetra, una lira, o roba simile.

Ma doveva attendere. Un giorno, forse, sarebbe arrivato il suo momento, ma quel giorno era ancora piuttosto lontano. Le sirene non erano state accolte molto bene, all’ingresso nel mondo: le storie del passato erano ancora fresche nella memoria e pochi si fidavano di loro. Facevano affondare le navi, giusto? Mangiavano i marinai affogati, giusto? Non proprio le credenziali migliori, per trovare un posto di lavoro in una società nautica, come la Grecia.

Avevano sopportato. Avevano aspettato. Avevano dimostrato, con pazienza infinita, che il passato si poteva cambiare, che le storie si potevano cambiare, che il presente poteva essere diverso. Alla fine,

era stato un uomo, un certo Appio Claudio Mancino, senatore di Roma, a trovare la soluzione, come un altro senatore aveva trovato la soluzione al problema dei fauni. Le sirene sanno percepire le navi a distanza? Le sanno attirare col proprio canto? Le sanno guidare col proprio canto? Sfruttiamo al meglio le loro capacità, dunque! Roma è qui per questo, giusto?

Così, sotto la guida di Appio Claudio Mancino, era cominciata la costruzione di una rete sul mare, i cui nodi erano costituiti dalle sirene: sistemate nelle zone più pericolose, dove più frequenti erano i naufragi, le sirene avrebbero guidato i timonieri, mantenendo al sicuro le navi e le preziose merci che trasportavano. Dopo aver eliminato la pirateria, Roma avrebbe sconfitto una nuova minaccia al commercio. O almeno ci avrebbe provato, col tempo. E una nuova razza mitica aveva così trovato il proprio posto nel mondo umano.

Adesso le sirene avevano un lavoro fisso, distribuite su scogli, isole e isolette del mare nostro, e si studiavano altri modi per migliorare il servizio: collegarle tra loro, ad esempio? Se la potenza della voce si fosse dimostrata sufficiente, si sarebbero potute scambiare informazioni sul mare, da uno scoglio all’altro, da un’isola all’altra, condividendole con le navi di passaggio. C’è una tempesta nei pressi di Creta? Scegliete la rotta meridionale. La marea ha reso pericoloso lo stretto dell’Eubea? È meglio girare attorno, per stare sul sicuro. Così, le sirene erano diventate una forza lavoro di prima importanza, nell’impero romano, e alle vecchie abitudini nessuno pensava più.

Un giorno, forse, si sarebbero potute permettere anche un impiego differente, magari cantando, ma per adesso si dovevano accontentare. Era il prezzo per essere reali e loro erano pronte a pagarlo, date le alternative: c’erano razze che sparivano di continuo, nel mondo mitico, adesso che pochi vi credevano ancora. E poi il mondo reale era molto più divertente, nel complesso. Un domani, forse non troppo lontano, Eumelia sarebbe potuta diventare anche la cantante che sognava, con un poco di fortuna. Il tempo era dalla sua parte.

Pensandoci, mentre la tempesta si alleggeriva e una prima, incerta luce cominciava a filtrare sulla costa attica, Eumelia vide arrivare il proprio cambio e si preparò di conseguenza ad abbandonare il trespolo sgradevole, su cui aveva dovuto sprecare la notte. Il turno era finito, ormai. Stendendo le ali alla brezza mattutina, in una vana speranza di asciugarle più in fretta, si alzò in volo, diretta verso i vicini alloggi di Egina. Il futuro le avrebbe riservato qualcosa di buono, ne era certa. C’era sempre qualcosa, oltre ogni tempesta.

L’importante era che non fosse una nuova tempesta.

di Adriano Marchetti