Adriano - racconti e altro

Pacchione

Un signore di campagna aveva bisogno d’un servitore. Vicino a lui abitava una vecchietta, ch’aveva un unico figliuolo, grande e grosso e di straordinaria forza, e perch’era gran mangiatore, lo chiamavano Pacchione.  Un giorno quel signore andava alla fiera in un vicino paese. S’incontra per via con la vecchietta e le dice: Ho bisogno d’un servitore, vorresti tu cedermi il tuo figlio Pacchione, che io lo tratterei bene?

- Volentieri, - risponde la donna, - però sarà meglio che voi ne parliate a lui. Eccolo qui che viene.

- Pacchione, - dice il signore, - vuoi tu venire al mio servizio?

- Io sì, - risponde Pacchione, - che ci vengo, ma che salario mi darete voi?

- Domanda tu quello che vuoi.

- Ecco: se voi mi prendete a questi patti, io vengo; se no, no. Mi darete da mangiare finchè mi bisogna, e quando voi aveste ad annoiarvi di me, io potrò darvi un calcio per addio. Siete contento così?

- Contentissimo; - risponde il signore, - dammi la mano, chè ormai siamo intesi.

Il giovane è già in casa del padrone, ma questi ben presto s’accorge d’aver fatto un tristo affare, perchè Pacchione mangiava per dieci, e d’altra parte egli non aveva il coraggio di mostrarsene annoiato per paura di quel famoso calcio. Un giorno lo chiama a sè e gli dice: Ascolta, andrai qua vicino ne’ miei campi, prendi quei magliuoli che son qui fuori e piantali così e così.

Pacchione va, prende i magliuoli e comincia a piantarli come gli pare e piace, uno qua e uno là, e alcuni perfino ne’ campi de’ vicini. Il padrone vuol vedere come il servo ha eseguito i suoi ordini. Va ai campi, e vede il bel lavoro che ha fatto Pacchione. Si morde le labbra per la rabbia; più placido che può dice al servo: Ma cos’hai fatto? T’aveva io detto di piantar de’ magliuoli anche ne’ campi de’ vicini? - Risponde Pacchione: Che importa mai questo? Piantati qua o là, non è lo stesso? tanto son piantati.

Pieno di stizza il padrone torna a casa e pensa dentro di sè come si possa liberar di un servo che gli mangiava anche la casa un po’ alla volta, e che voleva fare tutto a suo capriccio. Pensa un poco e poi si decide di chiamar alcuni suoi bifolchi, e loro parla così: Sentite, domattina prima che spunti l’alba, voi attaccherete i buoi ai carri, e ve n’andrete al vicino bosco per legna. Verrà con voi anche Pacchione; quando siete là, saltategli addosso, accoppatemelo, o lasciatelo sì che si smarrisca; in somma fate che io non ne senta più parlare. - I bifolchi risposero che faranno quanto voleva. Poi egli chiama Pacchione e gli dice che il giorno dopo andrebbe col carro nel vicino bosco per legna.

Viene il mattino; i bifolchi aggiogano i buoi e vanno al bosco. Pacchione, che già faceva sempre come la gli frullava, invece che alzarsi da letto per tempo se ne sta comodamente sotto le coltri, e lascia che il padrone pur brontoli quanto gli piace. Finalmente, quando era già alto il sole, s’alza da letto e va alla stalla. Trova una vaccherella smunta e stecchita, che pareva l’immagine della morte, la attacca a un carro, e poi lentamente si avvia verso il bosco. Poteva esser lontano due miglia, ed ecco vede i bifolchi, che già tornavano indietro coi loro carri carichi di legna. La strada era strettissima, impossibile che ci fosse luogo per due carri di fianco. Pacchione non se ne dà per inteso e continua ad andare innanzi senza pensare alle grida de’ bifolchi. Avanti avanti, si trovano di fronte gli uni agli altri. Si fermano tutti, e i bifolchi dicono: E adesso come si fa? - Ecco come si fa, - risponde Pacchione, e in così dire s’avvicina ai carri de’ compagni e in un attimo carri e buoi gli alza con le spalle e li rovescia in un fosso. Poi, sgombratasi così la via, tira innanzi senza porgere attenzione all’altercare de’ bifolchi, che invano si adoperavano di rimettere sulla strada e carri e buoi. Intanto Pacchione giunse al bosco e poi torna col carro pieno di legna. Tornando incontra i bifolchi, ch’erano ancora occupati a tirar su i carri arrovesciati, senza però essere riusciti a nulla. Il giovane si ferma un tratto, va giù nel fosso e con le sue spalle poderose rimette sulla via e carri e buoi. Quindi, senza dir parola, continua il suo cammino. Poco stante s’abbatte in un lupo. Questo s’avventa sulla misera vaccherella e se la mangia tutta tutta. Ma Pacchione non era uomo da sopportare un’ingiuria, perciò piglia il lupo e lo attacca al carro, e che tiri. Giunto a casa, il padrone si spaventa al vedersi ancora innanzi quel giovane, che tanto temeva, e per di più anche in compagnia di un lupo. Bisogna a tutti i costi che se ne liberi, se non vuol essere rovinato del tutto.

Pensa e ripensa; finalmente un giorno chiama Pacchione e gli dice: Prendi questa lettera, portala al tal re, e tornerai quando t’avrà consegnato sette mule cariche d’oro. - Nella lettera si raccomandava a quel re di uccidere Pacchione in qualsiasi modo. Ma questo non sapeva nulla della trama, e perciò di buon mattino parte. Cammina, cammina, e incontra alcune donne che portavano da mangiare ai loro mariti ne’ campi. Pacchione, che si sentiva fame, domanda loro alcune fette di polenta. Ma quelle non gli porgono nè anche ascolto. Allora egli indispettito piglia le sporte piene di cibo e in un attimo divora tutto. Le poverette piangono e si disperano e Pacchione le conforta dicendo: Non piangete no, care le mie donne, quando sarò di ritorno tra pochi giorni, vi darò una mula carica d’oro e sarete pagate ad usura del poco cibo che v’ho preso. - Cammina ancora e s’abbatte ad alcuni contadini che portavano delle bigonce di vino. Domanda loro che gli diano bere tanto che si cavi la sete. Ma quelli nè anche gli rispondono; ed egli indispettito piglia e vuota tutte le bigonce. I contadini gridano che son rovinati, e Pacchione li conforta con dir loro che di ritorno d’un suo viaggio li compenserà con una mula carica d’oro. Va innanzi ancora e, dopo molte altre avventure, gli tocca per ultima questa. In un orto c’era un povero vecchio che con una lunga pertica tentava di far cadere giù delle pere da un alto pero; ma siccom’era assai debole per l’età, or ne cadeva una, ora due, ed ora tre. Pacchione, visti gli sforzi del pover’uomo, entra nell’orto, e gli domanda: Che fate voi qui, buon vecchio?

- Non vedi? Vorrei raccogliere quelle pere lassù, ma temo che mi ci vorrà del tempo e assai.

- Lo credo anch’io, - risponde Pacchione, - lasciate fare a me, ch’io farò ben presto, vedrete.

Il vecchio lo lascia fare. E Pacchione prende per le gambe un asinello, ch’era lì vicino ad aspettare il carico delle pere, e lo scaraventa contro i rami dell’albero. Le pere cadono giù come una gragnuola, ma la bestia resta attaccata ad un ramo là in alto. Il pover’uomo, al vedere questo spettacolo, si mette le mani ne’ capelli, e strilla come un’aquila: Voi m’avete rovinato. Che sarà di me? Non avevo che quell’asinello, che è ora impiccato lassù. - E Pacchione gli dice: Non vi disperate tanto, il mio buon vecchio. Non credete ch’io vi possa compensare della piccola perdita ch’avete fatto? Aspettate due o tre giorni e, al ritorno d’un mio viaggio, vi regalerò una mula carica d’oro. - Il vecchio lo guarda istupidito e non sa se gli abbia a credere, pure, in tutti i modi, gli conviene acchetarsi, perchè già contro quello ch’è accaduto non c’è rimedio.

Cammina e cammina, e Pacchione arriva da quel re, che gli doveva dare le sette mule cariche d’oro. Il re lo accoglie benignamente, legge la lettera, e poi, siccome era notte, lo licenza e gli mostra una stanza dove potrà dormire. Il giovane entra nella stanza, e appena entrato vede sospeso in alto e proprio sopra il letto una grossa macina da mulino. - Questa faccenda non mi garba, - dice tra sè Pacchione, e, per evitar ogni guaio, ritira il letto da altra banda e poi si mette a dormire, ch’era stanco morto. Viene la mezzanotte e la macina cade giù dal soffitto con un fracasso tale, che fece rimbombare tutta la reggia; e Pacchione che dormiva come un ghiro non si desta per questo e continua a russare sonoramente. I servi del re, che stavano alle vedette, appena caduta la macina, entrano nella stanza e credono trovare il giovane ridotto una focaccia, e invece s’accorgono ch’egli, come nulla fosse accaduto, se la dorme pacificamente. Determinati di farla finita una volta per sempre, mettono al fuoco molte caldaie d’acqua e, quando questa ha levato il bollore, vanno piano piano alla stanza dove dormiva Pacchione e gliela versano tutta addosso. Fatto questo, lasciano la stanza, dicendo tra sè: Speriamo adesso che non ci torni più innanzi vivo.

Ma sì, avevan fatti i conti senza l’oste. La mattina per tempo Pacchione, lamentandosi d’esser stato bagnato la notte mentre dormiva, si presenta al re e gli domanda le sette mule cariche d’oro. Il re, al vederselo innanzi, non crede quasi a sè stesso. Volendo pur liberarsi di lui, tira in lungo la faccenda, e intanto lo lascia andarsene a passeggio. Mentre Pacchione se ne stava baloccandosi, ecco che gli viene incontro un grand’esercito. Comincian subito le palle de’ fucili e de’ cannoni a piovere intorno a lui, pure egli, come fossero nulla, attendeva solo a schermirsi con le mani gridando: Ohimè! ohimè! che seccature di mosche. - Il re vide ben tosto che a voler uccidere un uomo tale era tempo perduto.  Onde lo fece chiamare a sè, gli diede le sette mule cariche d’oro e lo lasciò andare a’ fatti suoi.

Pacchione si mette in via e giunge all’orto di quel vecchio, al quale aveva ammazzato l’asino per coglier le pere. Il pover’uomo, appena vede il giovane e le sette mule, gli si fa incontro e dice: Dunque me ne darete una di queste mule, com’avevate promesso?

- Io sì, - risponde Pacchione; - pigliatela pure.

Il vecchio s’accosta a una mula e la vuol prendere per la cavezza, ma quella, presta come un lampo, gli volta la groppa e tira un paio di calci che misero lui se lo coglieva. Tenta da una parte, tenta dall’altra, non c’è modo che il vecchio riesca a prender la bestia ostinata. Da ultimo, non ne potendo più, si volge a Pacchione e dice: Ma com’ho da far io con questa mula indiavolata?

Risponde il giovane: Com’hai da fare? lasciarla andare.

E così convenne che facesse il vecchio, chè altrimenti per giunta ci avrebbe lasciato anche la pelle.

Cammina e cammina, e Pacchione incontra per primi i contadini, ai quali aveva bevuto tutto il vino, e poi le donne ch’erano state costrette a cedergli le sporte. Anche costoro vuol egli che si piglino la mula, se possono. Provano e riprovano e da ultimo devono smettere e lasciar andare il giovane al suo viaggio. Così giunge Pacchione innanzi al suo signore con le sette mule dell’oro. Questi, quando le vede, smemora, e gli comincian a tremare le gambe per la paura. - Ma com’ho da far io a liberarmi da codesto malanno? - dice tra sè. - Se non ci fosse di mezzo quel maledetto calcio, senz’altro lo licenzierei e che se n’andasse pur per altro padrone. - Pensa ancora e ripensa e vuol tentare un altro rimedio. Chiama Pacchione e gli dice: Qua vicino nel bosco, in un castello tutto diroccato abita il diavolo, tu ci andrai e fa di condurmelo, chè voglio farmi rader la barba proprio da lui. S’immaginava egli o che Pacchione non si metterebbe a quest’impresa o che, mettendovisi, ci lascerebbe da ultimo la vita. Il giovane però, coraggioso e forte, prende una tanaglia lunga come un campanile e va alla casa del diavolo. Picchia, e una voce gli domanda: Chi è che mi chiama? Che vuoi da me, o tu che picchi?

- Io son Pacchione, che vi chiamo; vengo da parte del mio padrone, che vi vuole per farsi rader la barba proprio da voi.

- Ti darò io la barba, malandrino, - grida il diavolo e subito apre l’uscio, e mette fuori il naso per vedere chi era l’importuno, che veniva a disturbarlo a casa sua. Ma Pacchione stava attento, e in un batter di ciglio con la tanaglia avanti, afferra il diavolo per il naso, lo tira a sè, se lo getta sulle spalle e poi via di corsa. Il povero prigioniero si dibatte e urla; invano. Per la via Pacchione s’abbatte in un prete. Il diavolo veduto costui, al quale vuol più male che a tutti gli altri uomini, si divincola tanto che finalmente riesce a staccarsi dalla tanaglia, lasciandoci però il naso, e poi corre e corre dietro al prete. Questo correva pur sempre gridando: Misericordia, aiuto. Pacchione non vuol lasciarsi vincere nè anche dal diavolo e, lesto come un gatto, lo insegue, lo raggiunge, e questa volta, perchè più non gli scappi, lo piglia con la tanaglia per il collo, e se lo getta sulle spalle. Il padrone, che credeva di non sentir più parlare del suo servitore, quando lo vede tornare, e, quel ch’è peggio, col diavolo preso alla tanaglia, diventa bianco bianco e dice a Pacchione: Ohimè infelice! ormai son perduto. Fino ad ora ho fatto forza a me stesso per non mostrarmi annoiato di te, ma adesso non ne posso più, e dammi pur il calcio che mi viene, e poi vattene col tuo diavolo dove più ti pare e piace. Solo ti prego di aver pietà di un pover’uomo, che s’è lasciato ingannare, dopo d’aver ingannato tant’altri. Ben mi sta, chè così m’è reso pan per focaccia.

Pacchione non risponde se non che l’altro s’apparecchi a ricevere il calcio. Potè bene il meschino mettersi addosso quanti panni aveva, perchè la botta riuscisse meno micidiale, ma poco gli valse. Pacchione che, come Orlando, con un pugno avrebbe spezzato un monte, gli lasciò andare un calcio tale e lo colse sì di netto che quello se n’andò come un uccello per aria. Otto giorni volò, in capo ai quali cadde capofitto proprio sul fenile della sua casa, e non ebbe tempo neppur a dire Gesumaria che si trovò anche all’altro mondo.

Commento

Un servo forzutissimo, che fa tutto quello che gli pare in barba agli ordini del padrone, mangia come un bue e alla fine è premiato in un qualche modo, rifilando una robusta pedata nel sedere a chi gli ha imposto una versione molto particolare delle dodici fatiche di Eracle. Storia piuttosto classica, un poco burla e un poco manifestazione di voglia di rivalsa da parte di chi, nella realtà, era quotidianamente costretto a piegarsi ai capricci dei signorotti di passaggio e avrebbe di sicuro desiderato poterli prendere a calci nel posto giusto e farli volare via.

Le imprese a cui Pacchione è sottoposto diventano sempre più surreali, proprio come il modo in cui supera le varie prove, fino all’inevitabile discesa negli inferi, che nel caso specifico si tratta di un castello diroccato nel bosco lì vicino. Come Eracle si era trascinato dietro Cerbero, guardiano della porta, così Pacchione si trascina dietro il diavolo, che aveva risposto alla porta. Nel complesso è più che altro una storia per ridere della sua insensatezza e irrealtà.