Adriano - racconti e altro

L’Uccellino miracoloso

C’era una volta un re, che aveva tre figli. Egli era vecchissimo, e gli spiaceva d’esser vecchio assai, e di questo si lamentava spesso. I figli, che gli volevano il maggior bene del mondo, avrebbero dati dei loro anni pur che il padre ringiovanisse, ma, non potendolo fare, se ne rimanevano mesti. Un giorno sentono che il re di un certo paese possedeva un raro uccellino, il quale aveva la virtù di far giovani i vecchi. Sentito questo, deliberarono d’andar a rapire l’uccellino e ridonar così la gioventù al padre. Gli andarono innanzi e gli dicono: Non addolorarti più, chè noi abbiamo trovato il modo di ringiovanirti, - e gli narrano la storia dell’uccellino e del progetto ch’avevan fatto d’andarlo a rapire. Il vecchio re gli scongiura che non facciano, ma quelli insistono, cosicchè finalmente si vede costretto ad accondiscendere.

Il più vecchio dunque dei tre fratelli, preso danaro e un buon cavallo, disse prima agli altri due che se, entro un anno, non fosse ritornato, sarebbe segno che egli era morto, o altrimenti impedito; e poi partì. Cammina, cammina; dopo tre giorni giunse alla città di quel re, che aveva il miracoloso uccellino. Smonta all’osteria e domanda conto dell’uccello all’oste. L’oste dice: Sappiate, buon giovane, ch’egli è vero quanto v’è stato raccontato a questo proposito. Però, a quanto pare, voi ignorate, che questo re è un uomo crudelissimo, e tutti quelli che sono entrati nel suo palazzo, tutti son morti. Io v’avviso per il vostro meglio, se mai vi venisse la bizzarria di mettervi all’impresa di rapir l’uccello.

Il giovane ascoltò attentamente le parole dell’oste, e ringraziatolo andò a dormire. Il giorno dopo, di buon mattino, va al palazzo del re. La porta è aperta; entra dunque, monta le scale, non incontra anima nata; spinge un uscio, e si trova in una vastissima sala, dove c’eran a centinaia magnifiche gabbie con entro vaghissimi uccelli. Una d’esse, tutta d’oro, specialmente attira lo sguardo del giovane, che dice tra sè: Qui dev’essere di certo l’uccello miracoloso. Si guarda attorno, non vede nessuno; picchia a vari usci, nessuno gli risponde. Allora, senza pensar al fine, s’avvicina alla gabbia d’oro, fa per aprirne la porticina, quando suona un campanello d’improvviso. Al romore s’apre a un tratto un uscio; entrano dodici armati, prendono in mezzo il giovane e lo menano via prigioniero.

Passa un mese, passan due mesi, passa un anno, e il giovane non torna. Il vecchio re, non veduto tornare il figlio, lo crede perduto e dà in ismanie, e incolpa sè di averlo tratto a rovina. Gli si presenta il secondogenito e gli dice: Non pianger, padre mio; partirò, e sta pur di buon animo chè ti troverò l’uccellino e il fratello maggiore, che forse è rimasto prigioniero. Il misero padre non vuol saperne, e lo prega a calde lacrime di non mettersi alla vana impresa. Fiato sprecato, chè già il giovane s’è provveduto d’un buon cavallo e d’una borsa di danaro, e poi parte. Cammina e cammina, e giunge alla città dov’era il famoso uccellino. Smonta alla stessa osteria, alla quale era smontato il fratello, e ascolta gli stessi consigli dell’oste. Non vi porge attenzione; entra nel palazzo, s’avvicina alla gabbia, fa per metter mano all’uccellino, ed ecco apparir dodici armati che lo fan prigioniero e lo menano a far compagnia al fratello.

Passa ancora un anno; e invano il vecchio aspetto che torni almeno uno de’ figli. Nessuno può immaginarsi le smanie dell’infelice; per il dolore voleva uccidersi. Gli va innanzi il più giovane dei figli e gli dice: Non disperarti, mio buon padre, vedrai ch’io sì riuscirò nell’impresa e tornerò con l’uccellino e coi fratelli.

- No, non partire, - gridava il vecchio, - se anche tu avessi a mancarmi, che sarebbe di me senza figli affatto? Chi mi chiuderà gli occhi sul letto di morte?

Ma il figlio picchia e ripicchia, finchè il padre è sforzato a lasciarlo andare. Parte dunque, e arriva a quella città. Entra nel palazzo e, senza paura alcuna, s’avvicina alla gabbia d’oro per prender l’uccello. Appena egli v’ha accostato la mano, escono dodici armati e gli vanno incontro per farlo prigioniero. Egli però non si sbigottisce per questo; sguaina la sua spada, e uccide due o tre de’ suoi avversari e altri ne ferisce. Al romore accorre gente, e il re in persona. Il quale, veduto il coraggioso giovane, senza punto adirarsi, domanda: Chi t’ha persuaso a entrar nella mia reggia? Non sai che nessuno è mai uscito di qui vivo?

- Io so tutto, - risponde il giovane, - ma il grande amore che porto al mio padre, m’ha spinto a mettermi a qualsiasi pericolo. Egli è vecchio, e io sapeva che l’uccellino, ch’è laggiù in quella gabbia, gli ridonerebbe la gioventù. Innanzi d’avvicinarmi per impadronirmene, ho picchiato a quant’usci sono nella sala, perchè mia prima intenzione era di offrire una grossa somma di danaro per esso. Nessuno m’ha risposto. Che colpa dunque ho io, se l’amore verso il padre m’ha condotto ad azione che può apparire malvagia? Volete vendermelo? Io v’offro quella somma che potete desiderare.

Il re, sorridendo, disse: Si vede che tu sei un giovane assai semplice, se credi ch’io faccia il mercante d’uccelli. Però senti. Io t’ho conosciuto poco fa per valorosissimo. Se a te basta l’animo d’andar in un regno qua vicino e di rapire la figlia del re, della quale sono innamorato, tu avrai l’uccellino e la libertà. Ell’è d’una bellezza non mai vista prima, e la chiamano la Dea del mondo; se ti piace il patto, parti pure e subito, chè in altro modo non avrai l’uccellino.

Il giovane accetta e parte senz’indugio. Arriva alla città, là dov’era la Dea del mondo, smonta a un’osteria, e dopo essersi riposato, si mette a pensare al modo di poter rapire la figlia del re. Mentr’era così pensoso, entra una vecchia mendicante e gli domanda per carità l’elemosina. Il giovane, ch’era di buon cuore, si mette le mani in tasca e regala alla poveretta una moneta d’oro. La vecchia, dopo essere stata un poco a guardarlo, gli dice: Voi mi parete ben triste, buon giovane; cos’è che vi turba tanto? Parlate pur francamente a me, chè può darsi ch’io v’aiuti. - Bisogna qui notare che questa vecchia mendicante era una famosa strega. - Il giovane rispose: Sappiate che io mi sono innamorato della Dea del mondo, e son venuto di lontano per rapirla, ma più penso al modo e meno riesco a cominciar l’impresa, tanto la mi pare difficile.

Ripigliò la vecchia: Avete ragione a dire che l’impresa è difficile, però se a voi piace di seguir un mio consiglio, forse riuscirete. Il padre della ragazza, per paura che alcuno pensi di rapirgliela, la tiene di continuo chiusa in una stanza con buona guardia. Però voi fate così. Provvedetevi d’un paio di scarpe, che non abbiano a scricchiolare. Poi fate d’entrar sconosciuto nel palazzo del re, salite pian piano le scale e nascondetevi sotto a un canapè nell’anticamera. Quando portan da mangiare alla ragazza, voi, senz’esser veduto, entrate e appiattatevi sotto il letto stesso della giovane, e, rimasto solo con lei, uscite dal nascondiglio, e il resto non ve lo dico, chè lo saprete ben far voi. Il consiglio della mendicante piacque tanto al giovane, che la ringraziò e le regalò un’altra moneta d’oro. Quindi, senza perder un minuto, compera le scarpe, entra nel palazzo del re e nella stanza della ragazza, e si nasconde sotto il letto. Il tutto va a maraviglia; nessuno l’ha visto. Quando si vede solo con la figlia del re, sbuca dal nascondiglio. La ragazza, al primo vederlo, spaventata, voleva gridare, ma, quando l’altro cominciò a dirle chi era e perchè venuto, si tranquillizzò, tanto più che le parve un bellissimo giovane, ed ell’era annoiata oltremodo d’esser tenuta sempre prigioniera. Quivi concertarono subito il modo d’uscire dal palazzo e lo trovarono senza troppo pensare, perchè alla giovane era noto un uscio non custodito da alcuna guardia. Però prima di partire, ella volle fare un fardelletto d’alcune sue cose, e perciò aperse un armadio; ma ecco che suona un campanello e si presentano alcuni armati e il re in persona. Il giovane non pensa nè anche a opporre resistenza, chè già sarebbe stata una pazzia; è legato e condotto in prigione. La ragazza, che ormai n’era innamorata perdutamente, si getta ginocchioni innanzi al re e lo prega e scongiura che perdoni la vita al prigioniero e glielo dia in isposo. Il re dapprima s’arrabbia, poi volto al giovane, richiamato dalla prigione, dice: Senti, io amo mia figlia più di me stesso, e giacchè le è venuto il capriccio di voler te per marito, accondiscendo volentieri, ma a un patto. Il patto è questo. Qua vicino c’è un re che ha un cavallo, che vola per aria. Se tu ti senti in animo di andar a rapirlo e di condurlo a me, torna e avrai la mia figlia in isposa.

Accettò il giovane il patto, e subito partì. Cammina, cammina, giunge finalmente al luogo. Smonta  a un’osteria, e, dopo avere ben mangiato e bevuto, si mette a pensare al modo di riuscire nell’impresa. Dopo aver pensato un poco, si leva tutto allegro, perchè gli pare di averlo trovato il modo. Esce dall’osteria, si veste da mendicante, compera un gran fiasco di vino e con esso sotto il mantello, verso sera, va al palazzo del re. Sull’uscio c’erano parecchi soldati di guardia. Era inverno, cadeva la neve e faceva un freddo da intirizzire. Il finto mendicante si avvicina alle guardie e lor dice: Abbiate compassione di un povero disgraziato, che muore quasi dal freddo; lasciate ch’io entri un poco a scaldarmi. - I soldati hanno compassione di lui, e lo lasciano entrare. Poco dopo egli tira fuori il suo fiasco, e lo porge alle guardie dicendo: Voi mi avete ridata la vita, prendete e bevete. - Il vino era alloppiato e le guardie ben presto s’addormentarono profondamente. Il giovane coglie il tempo, va alla stalla, dove sapeva ch’era il cavallo alato, lo slega e se lo tira dietro. Viene al luogo delle guardie, le sveglia, mette loro in mano delle monete d’oro, perchè fuggano l’ira del re; e poi, senz’aspettar risposta, fa alzar a volo il cavallo, e via più che di fretta.

Vola e vola, arriva al re, padre della Dea del mondo, e gli dice: Eccovi il cavallo alato, volete che lo proviamo?

- Ben volentieri, - rispose il re, e montò in groppa al cavallo con la figlia. Quando furono in alto, il giovane diede una spinta al re, e lo lasciò cader giù capitombolando. Così col cavallo e con la Dea del mondo giunse al re, che aveva il famoso uccellino. Appena gli fu innanzi, disse: Eccovi la Dea del mondo, e voi datemi l’uccello e restituitemi i due fratelli prigionieri. - Il re, pronto, diede l’uccello e presentò i due fratelli; ma l’altro fu ben presto a volar via con tutti, lasciando il re con un palmo di naso. Vola vola, giunsero a un’osteria e, perchè il cavallo alato non poteva bastare per quattro persone, si provvidero di due buoni cavalli, e poi pian piano si avviarono verso il loro regno. In sulla sera furono a un fiume, e i due fratelli maggiori, invidiosi del minore, lo presero a tradimento e lo gettarono nell’acqua perchè annegasse. Poi si misero in via con l’uccello, con la Dea del mondo e col cavallo alato. Giunsero al loro regno, si presentarono al padre e gli mostrarono le maraviglie. Il vecchio re, contento di rivedere i suoi due figli, domandò del terzo, e gli fu risposto che non ne sapevano niente. Ma l’uccellino non voleva cantare, la Dea del mondo era mutola e il cavallo alato non si moveva. Tutti eran maravigliati di questo, e specialmente i due fratelli, che cominciarono a sentirsi mordere la coscienza per la scelleratezza usata verso il minore.

Intanto questi, quasi miracolosamente, s’era salvato. Vestito da mendico e, dipinto il viso in modo da non essere conosciuto, si presentò al re suo padre e così gli parlò: Io ho inteso che voi avete un uccellino misterioso, che se potesse cantare vi ridonerebbe la perduta gioventù, ed esso non vuol cantare; e poi avete la Dea del mondo, ed ella si sta mutola affatto; e un cavallo alato, che non vuol volare. Or bene, se vi piace, fate che queste tre maraviglie siano condotte alla mia presenza e vedrete sciolto l’incanto. - Fece il re come volle il giovane. E appena l’uccellino vide colui che lo tolse dalla gabbia d’oro, cominciò a cantare, e sull’istante il vecchio re si sentì mutato in giovane. Il cavallo alato scosse le ali e prese a volare con maraviglia degli astanti. La Dea del mondo poi, sciolto lo scilinguagnolo, parlò e disse: Ecco il mio amante, ecco colui che mi liberò dalla prigionia e che solo voglio per sposo. Il re, udite tutte queste cose, riconobbe il figlio, lo abbracciò e baciò e a tutti i costi voleva che i due traditori fossero impiccati. Ma il giovane non volle, e domandò in grazia la loro vita. Poi si fecero le nozze e furono sontuose, e i due sposi vissero molti anni felici e amati da tutti.

Commento

Tre fratelli in cerca di un rimedio magico per aiutare il vecchio padre: nel caso specifico si tratta di un uccellino il cui canto ringiovanisce. I primi due falliscono, mentre il più giovane riesce, come da tradizione di incalcolabili fiabe. Sempre come da tradizione, troviamo una catena di missioni da portare a termine: per avere l’uccellino bisogna consegnare una donna e per ottenere la donna bisogna consegnare un cavallo. Più spesso cavallo e donna sono invertiti di posizione, ma ordine a parte è una sequenza classica nelle fiabe di questo tipo.

A differenza delle fiabe simili, però, l’eroe qui non può contare su un aiutante magico che prima lo aiuta a rubare gli oggetti e poi lo aiuta a tenerseli, ricorrendo alla metamorfosi per truffare i vari re che gli hanno commissionato i furti. Troviamo una strega di passaggio che lo aiuta a rapire la donna, certo, ma per il resto l’eroe si arrangia da solo. Con una certa brutalità, va detto, come nel caso del re fatto precipitare dal cavallo volante e proprio sotto gli occhi della figlia, che però non sembra essersene preoccupata tanto, per cui forse non andavano molto d’accordo.

La donna ha qui un nome altisonante, come mancava nella fiaba numero nove, forse solo perché il narratore lo aveva dimenticato. Che in origine la storia potesse consistere proprio in questo, nel ratto o almeno nella ricerca di una qualche figura divina? Chissà. Curiosi anche questi padri che rinchiudono le figlie per paura che qualcuno le venga a rapire. Nell’Ottocento avrebbero pensato quasi di sicuro a un mito nascosto dietro la fiaba, soprattutto gli adepti di Max Müller, ma non mi pare il caso di darvi troppo peso, almeno in questa sede. Non lo possiamo escludere del tutto, certo, ma è un dettaglio secondario.

Non manca nel finale il tradimento dei due fratelli che avevano fallito all’inizio, altro classico delle fiabe di questo genere: cercano di uccidere il fratello minore gettandolo in un fiume, per assumersi poi il merito dell’impresa, ma l’eroe qui si salva da solo, senza bisogno di essere resuscitato dal ritorno dell’aiutante magico (che neppure compare, peraltro) come accade più spesso. C’è anche un tocco di misericordia assente in altre fiabe più barbariche: i fratelli traditori sono perdonati, invece di essere giustiziati in modo brutale. La stessa condanna all’impiccagione è già una morte attenuata rispetto all’essere squartati o bruciati vivi, come accade altrove. Nel complesso, una fiaba piuttosto civile, rispetto alla media del suo genere.