Adriano - racconti e altro

Pipeta

Un re aveva tre figliuole, ch’erano innamorate e non sapevano di chi. Dormivano esse nella medesima stanza; quando una mattina, andata la cameriera per svegliarle, trova l’uscio chiuso a chiave. Picchia e ripicchia, chiama e richiama; nessuno le risponde. Turbata, come si può immaginare, corre dal re, e gli racconta la cosa. Il re fa chiamare un fabbro perchè apra a forza l’uscio. Il fabbro viene, l’uscio s’apre, e la stanza è vuota. Le tre ragazze son fuggite di certo. Questo pensan tutti, ma non sapevano ch’era stato il diavolo a rapirle. Il re, disperato per la sparizione delle figlie, chiama innanzi a sè tre servi e loro dice: Sentite. Io vi conosco per fedeli e amorevoli. Andate in cerca delle mie figlie; quello di voi che me le condurrà sane e salve, avrà la minore di esse in sposa e la corona di re. Eccovi per ciascheduno un cavallo e una borsa di danaro.

I servi presero i cavalli e le borse, e partirono. È da notarsi qui che il più giovane di essi pareva un povero sciocco e, così per ischerzo, lo chiamavano Pipeta. Vedrete in seguito se invece la sapeva più lunga di loro. Giunti i tre amici a un crocicchio di vie, disse l’uno: Sentite. Non sarebbe meglio che ciascheduno di noi si mettesse per una via, e in capo a un anno e un giorno ci trovassimo poi qui in questo crocicchio? - Furono d’accordo. Ciascuno prese una via, e se n’andarono. I due più vecchi cominciarono a farsi larghe spese col danaro avuto e in poco tempo l’ebbero consumato.

Pipeta al contrario ebbe giudizio, e la sua borsa era sempre ben provvista. Passò l’anno e il giorno, e i tre compagnoni dovevano trovarsi al crocicchio. Però Pipeta c’era giunto un giorno prima e, mentre aspettava gli amici, lasciò andare il cavallo dove volesse. Il cavallo s’allontanò un po’ troppo, e Pipeta, per non smarrirlo, gli tenne dietro. Così andando s’accorse d’una grossa pietra. Tentò di smoverla, ma non ci fu verso che riuscisse. Lasciò per allora l’impresa, e col cavallo se ne tornò al crocicchio. Intanto eran venuti i compagni e, dopo ch’ebbero mangiato e bevuto, Pipeta conta loro del sasso. Vi vanno tutt’e tre e con grande sforzo lo alzano, e sotto vedono una buca che conduceva forse all’inferno. - Come si fa a discendere? - domanda l’uno. E Pipeta: Facciamo così. Uno di noi vada alla città e comperi quante più braccia di fune sa trovare e una gran cesta, e poi qualcuno di noi si calerà giù. - Va adunque uno di essi per la fune e per la cesta; e quand’è di ritorno, il più vecchio dice: Mi calerò io per il primo, però badate bene, quando io scuoto la fune, di tirarmi su, chè non vorrei mi toccasse una qualche brutta disgrazia. I compagni lo calan giù, ma poco dopo l’altro scuote la fune; tirano e tirano, ed è sù. Prova anche l’altro ed è la stessa storia. Toccava adesso a Pipeta, ed egli dice: Ricordatevi che, per quanto io scuota la fune, non dovete pensarci; lasciate ch’io mi cali foss’anche all’inferno. Così fanno. E Pipeta, presa la fune, si cala giù e giù e giù che non la finiva mai, finchè toccò terra coi piedi. Allora, girati attorno gli occhi, si trovò in una magnifica sala. Gli venne incontro la più giovane figlia del re e gli disse: Povero Pipeta, dove sei venuto? Ma non sai che qui è l’inferno? Me e le mie sorelle ci han rapite i diavoli. Ora dormono essi, ma, caso mai si accorgano, sei bello e spedito. - Risponde Pipeta: Non m’importa di questo. Son venuto per salvarvi. Dove son le vostre sorelle?

- Son qui, e adesso le vedrai.

Intanto il giovane non si perde in chiacchiere, ma con un coltello tagliò la testa ai tre diavoli. Poi fece accomodare la maggiore delle ragazze nella cesta, e sù e sù, finchè si trovò fiori della buca. Toccò poi alla seconda, e da ultimo alla più giovane. Questa, prima di mettersi nella cesta, disse a Pipeta: Caso mai i tuoi compagni ti lasciassero quaggiù all’inferno, prendi questa mela. Qualunque cosa tu vuoi, gettala in aria, e l’avrai. - E ben l’indovinò la giovane, perchè appena fu fuori della buca, i due amici, senza pensare al povero Pipeta, minacciarono le ragazze, che guai a loro se avessero parlato, e le condussero al re dandosi l’aria di averle salvate. Il re, oltremodo contento, disse a uno di loro: Io ho promesso di dare la più giovane delle mie figlie in sposa a chi le avrebbe salvate, ora adunque la do a te, e si faranno le nozze tra pochi giorni. La giovane, udito questo, scongiura il padre che aspetti almeno un anno e un giorno, e poi la dia a chi vuole.

Intanto Pipeta, trovandosi abbandonato dai compagni, gettò in aria la mela dicendo: Potessi io essere fuori di questa buca. - Il dirlo e il trovarsi fuori fu tutt’uno. La getta ancor in aria e dice: Fossi al crocicchio, dove dovevamo incontrarci. - Ci fu. La getta in aria per la terza volta e dice: Avessi io un palazzo di diamanti di faccia a quello del re. - E il palazzo incantato già c’era. Il re la mattina seguente, affacciandosi alla finestra, vede il meraviglioso palazzo. Domanda a questo e a quello chi lo abita, e nessuno sa dirglielo. Allora si veste del più bell’abito, scende e picchia l’uscio del palazzo incantato. Vengono i servi ad aprire e lo conducono innanzi al loro padrone che, già si capisce, era Pipeta. Il re gli domanda: Chi sei? E perchè sei venuto ad abitare qui? - Il giovane risponde: Voi mi conoscete e dovreste mantener la vostra promessa.

- Io non ti conosco e non so di che promessa intendi parlare, - e se ne va.

Il giorno dopo torna da capo e domanda a Pipeta: In somma vuoi tu dirmi chi sei? E che sei venuto a far qui?

- Non ve l’ho detto? Voi mi conoscete e dovete mantenere la promessa fattami. Non volete? Ecco, prendete; - e gli lascia andare uno schiaffo.

Il re, mortificato, torna a casa e conta la faccenda alle figlie. La più giovane dice: Ascoltate; andateci ancor domani e, quando vi dice che gli manteniate la promessa, voi domandate: La promessa sarebbe forse di darti la più giovane in isposa? E state a sentire quello che vi risponde. - Sebbene di malavoglia, pur ci andò anche il terzo giorno e, quando Pipeta disse che gli doveva mantenere la sua promessa, subito, senz’aspettare lo schiaffo, domandò: Ho forse promesso di darti la più giovane delle mie figlie in isposa?

- Appunto, e voi m’avete mancato di parola.

- Se così ho proprio promesso, si vedrà, e io manterrò la mia parola.

Se ne torna a casa, e conta l’accaduto alle figlie. E la più giovane, che ormai era sicura che il padrone del palazzo incantato doveva essere Pipeta, dice: Adesso chiamatelo qui, e che conti tutto com’è andata la cosa; perchè io son certa ch’egli è Pipeta, che ci ha salvate, non è vero, sorelle? E i due traditori ci avevano minacciate, che guai a noi se di ciò parlassimo. - Il re fece chiamare Pipeta, ed egli punto per punto contò tutto quanto gli era accaduto. Si venne tosto a conoscere la ribalderia dei due servi traditori. Per castigo del loro misfatto furono chiusi vivi in una botte unta di pece e poi bruciati. E Pipeta invece ebbe la bella ragazza in isposa e la corona di re.

Commento

Altro eroe tradito dai compagni e lasciato in fondo al pozzo. Curiosa l’esistenza della mela magica che esaudisce ogni desiderio ed è in possesso di una delle ragazze prigioniere: perché non l’hanno usata per salvarsi da sole? Forse perché il narratore della fiaba l’ha improvvisata nel corso della narrazione, per non tirarla troppo per le lunghe: nella tradizione orale è perfettamente normale adattare la storia alle reazioni del pubblico, aggiungendo o rimuovendo episodi secondari.

Sia come sia, la mela magica svolge anche la funzione dell’anello magico, altro oggetto che ricorre in molte storie: dopo aver riportato in superficie il protagonista, gli permette anche di creare il palazzo di materiali preziosi proprio di fronte a quello del re di turno. In questo modo potrà attirare l’attenzione del re, rinfacciargli la promessa non mantenuta e soprattutto farsi riconoscere dalla principessa che gli spetta. Come tocco finale, in questa fiaba abbiamo anche la morte dei due traditori in un modo parecchio cruento, a differenza di altre storie in cui ricevevano invece il perdono da parte di un eroe magnanimo e misericordioso. Forse perché stavolta non sono principi, ma solo servitori? Chissà.

Come nota a margine, segnaliamo il classico “un anno e un giorno”, intervallo di tempo che ricorre spesso nelle fiabe. Possiamo ipotizzare che alla sua origine vi sia un calendario simile a quello usato dai celti nell’antichità, che cominciava dalla notte anziché dal giorno, per cui i giorni andavano da tramonto a tramonto, invece che da alba ad alba. Questo almeno ci riferiscono autori classici come Cesare nel suo De bello gallico. Che un tempo questo sistema avesse diffusione più ampia e il suo ricordo si è conservato nelle storie popolari? Mantova si trova in quella che fu la Gallia Cisalpina, dopotutto. Possibile, certo, ma sono semplici ipotesi ed è meglio non dare loro troppo peso.