Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo quarto

La città era grande, alta e copriva una larga parte della pianura, ramificata ed estesa come un cancro maligno, come un cancro maligno in continua crescita ed espansione. Il che era piuttosto strano, in un paese in cui la popolazione non cresceva, anzi diminuiva, eppure spuntavano sempre nuove case accanto alle vecchie, i confini della città si allargavano e a poco a poco i paesi attorno ne venivano fagocitati. Ricordava un’ameba di plastica e cemento, a guardarla così.

A guardarla in un altro modo, per esempio mentre la raggiungevi in auto o in treno, era piuttosto un temporale che correva nero sulla pianura e sembrava precipitarti addosso. Calavano i cavalcavia, le case aumentavano e crescevano di altezza, le strade si facevano più larghe e trafficate e a un tratto ti trovavi lì, in mezzo alla città, che ti avvolgeva e ti precipitava attorno, in monoliti di cemento. Era la città più ricca e potente di tutto il nord, lo sapeva e voleva che anche tu lo sapessi, per cui te lo gridava in faccia a ogni curva e ogni rettilineo. E anche a ogni rotonda.

Come buona parte delle città italiane, era formata da un centro e una periferia, anche se i vocaboli in questo caso erano usati in modo molto libero e creativo. Più che una distinzione urbanistica, erano il modo per dividere due mondi, sociali e non. Due galassie, si potrebbe dire. Guai a confonderle.

Il centro era il centro storico, cuore della città, coi suoi monumenti, le aree pedonali, i parchi, vecchi grattacieli e tutta l’altra paccottiglia tipica di ogni centro storico. Ma non solo. Anche i quartieri più esterni, zone residenziali cresciute di recente e ancora lucide di vernice, in gran parte con l’etichetta ancora da togliere, erano considerati il centro. Ci abitavano le persone che, nei festivi, popolavano e arricchivano il centro storico, quindi per estensione appartenevano alla stessa galassia. Come tratto comune, avevano strade senza marciapiedi, senza passaggi pedonali, e una fitta rete di gallerie, che appoggiava la metropolitana e serviva per lo spostamento pedonale, non solo tra stazioni, ma anche tra edifici e isolati. Sostituiva i marciapiedi, in modo molto più efficiente e sano.

Tutto il resto era periferia. In periferia arrivava la metropolitana, ma le gallerie pedonali servivano al massimo per collegare le stazioni, e a volte non c’erano proprio. In periferia si camminava ancora in strada, anche se i marciapiedi erano rari e le auto numerose. In periferia le case potevano essere alte, perché no?, ma non erano mai nuove, né eleganti, né belle da vedere. Nessun designer le aveva progettate, al massimo un architetto con squadra e righello. In periferia abitava la gente che non era bene accetta nel centro storico, perché ne deturpava l’estetica e perché, almeno secondo i notiziari ufficiali, in città non esisteva più. Infatti era vero: nella città che contava, non esisteva più.

Il centro era la città e la città era il centro; il resto non interessava a nessuno.

Da un condominio del centro, o più precisamente da un condominio in un quartiere residenziale, il pomeriggio di mercoledì diciotto giugno usciva Eva Bianchi, seguita controvoglia da Luca Tarca. Si erano incrociati nell’atrio del palazzo, mentre Tarca prendeva una delle sue pause dal computer ed Eva si preparava a fare un giro in città. Non aveva lavoro da fare, non era ispirata per proseguire col suo dipinto, non aveva nessuna voglia di passare il pomeriggio chiusa in casa, a respirare aria sana e climatizzata, o annoiarsi leggendo sul divano. Siccome Fedele era in ufficio, restava solo un modo di passare il tempo: uscire e camminare, dove e come poteva.

Non immaginava di trovare Tarca nell’atrio e non immaginava di riuscire a convincerlo a uscire con lei, talpone com’era, eppure ce l’aveva fatta, forse per miracolo o forse chi lo sa. Si ciondolava con la sua solita andatura da cammello, da una parete all’altra dell’ingresso deserto, e fissava di volta in volta il pavimento, il muro o il soffitto. Alto alto, magro magro e con un marsupio da nerd in vita, il suo aspetto avrebbe fatto cambiare strada a chiunque non lo conoscesse. Eva però lo conosceva, per cui gli si era avvicinata sorridendo.

«Beh, che ci fai qui sotto, tutto solo?»

Tarca l’aveva guardata, prima senza riconoscerla e poi con un vago riflesso di lucidità negli occhi. Sembrava perso in un mondo tutto suo ed Eva sapeva che, in effetti, era proprio così, per la maggior parte del giorno. Era sempre stato così, Luca. «Ah, scusa, non ti avevo vista» aveva risposto lui.

«Allora, che ci fai qui sotto? Prendi il fresco?»

Tarca aveva sorriso con un angolo della bocca. «No, non proprio. È che... stavo pensando.» Ed era vero, ma ciò che non le poteva dire era che stava pensando alla richiesta di suo marito Innocenti.

«Se non hai niente da fare, vieni con me a fare due passi. È un po’ che non chiacchieriamo.»

«Beh, veramente io...»

«Dai, andiamo, vieni!» E lo aveva afferrato per un braccio, trascinandoselo dietro come un cane o un bambino di tre anni. Tarca aveva sospirato, ma alla fine l’aveva seguita.

E così, adesso si ritrovava nelle gallerie pedonali, con una maglietta bianca da camera, pantaloni di una vecchia tuta e un paio di scarpe da ginnastica consumate, a camminare in mezzo a gente vestita bene, nella luce impietosa dei neon e nel fresco artificiale dei condizionatori. Ancora non ci credeva, eppure Eva era fatta così: lo aveva dominato con la sua personalità ai tempi del liceo e anche adesso, dopo essersi ritrovati nello stesso condominio da adulti, continuava a essere lei a dominare. Ancora una volta, si chiese distratto come avesse fatto a sposarsi con Innocenti. Misteri della fede.

«Ti faccio fare un po’ di moto, perché sei fiacco da far schifo» disse Eva, tirando dritto alla stazione, quando Tarca era già pronto a deviare e salire in treno. Le camminò dietro con un sospiro.

Attorno, la galleria era sempre più affollata, a mano a mano che si spostavano dall’area residenziale al centro storico vero e proprio. Gente di tutte le razze (per modo di dire, perché la razza ammessa era una sola: caucasica lombarda), diretta alla stazione più vicina, oppure all’uscita per la superficie, se aveva già raggiunto la sua meta; gente che si fermava a guardare i manifesti pubblicitari e gli altri avvisi, che gridavano dalle pareti in colori chiassosi e lettere enormi; gente ai distributori automatici, allineati qui e là, o gente che faceva tappa in uno dei negozietti che cominciavano ad aprire anche lì sotto. Si diceva che un giorno tutta la vita pedonale si sarebbe spostata nelle gallerie e Luca Tarca si sentiva pronto a crederci. Lì sotto c’era tutta l’aria condizionata che si poteva desiderare.

Eva intanto parlava, aggiornandolo sul suo lavoro e su altre cose più o meno importanti, che Tarca ascoltava con mezzo orecchio, annuendo o borbottando risposte, quando sembrava il caso. Non era la solita Eva, però, e lui si costruì una vaga idea, mentre camminavano nella galleria, diretti forse da qualche parte o forse no: che lei volesse parlare di qualcosa, ma non trovava l’aggancio giusto. Così lo sommergeva di chiacchiere, evitando l’argomento e aspettando che spuntasse fuori da solo.

Questa sarebbe stata la solita Eva. Tarca sorrise, seguendola.

«Cosa ridi sotto i baffi?» le chiese lei, girandosi a fissarlo.

«Niente, niente, guardavo i manifesti. Sono sempre più assurdi» rispose Tarca, con un sorriso.

Eva li osservò per un momento. Sembravano la solita accozzaglia di immagini, con le rose camune e le rose celtiche che spuntavano di tanto in tanto a separarli, giusto per ricordare a tutti che erano in Lombardia, nel caso se ne fossero dimenticati. Alzò le spalle e tirò avanti.

«Andiamo a fare un giro nel parco, che ne dici? Qui sotto nelle gallerie si soffoca.»

A Tarca non pareva di soffocare, anzi: c’era fresco e tutto sommato si stava bene, anche se avrebbe preferito una densità di popolazione inferiore a quella. In alternativa, avrebbe potuto accettare anche la stessa densità, ma composta da gente che non sembrasse manichini. Lo inquietavano, gli occhi vuoti che vedeva su ogni faccia. Eva era fissata però con l’aria aperta, un tipo di fissazione molto pericoloso in quel periodo e con quel clima, e così dovevano risalire. Borbottò un assenso.

«Non che siano molto meglio i parchi» continuò Eva, «ma almeno ci sarà meno gente attorno e non dovremo fare a gomitate per camminare. Così sarai contento anche tu, giusto?»

Giusto o meno, allungò il passo e Tarca fu costretto a fare altrettanto, per non perderla tra la folla. E mentre loro due camminavano, da un’altra parte qualcuno sedeva.

Fedele Innocenti non sapeva che la moglie fosse in giro col vicino, ma la cosa non gli avrebbe dato fastidio: erano amici, lo sapeva, e si vedevano spesso mentre lui era in ufficio. A dargli fastidio era un’altra cosa, semmai. Cercò di scacciare il pensiero, mentre si sedeva con un caffè in mano e Sala a due passi di distanza, che parlottava con un collega.

Era passata una settimana da quando aveva ricevuto l’incarico dall’amministratore e ancora non era riuscito a trovare nulla di importante. Chiacchiere, voci, notizie secondarie, ma niente che lo potesse inchiodare. Niente che potesse salvare lui dalla rabbia di Storti, se avesse fallito con Manovali. E si poteva immaginare cosa ne avrebbe detto l’avvocato Bianchi, poi...

«Cos’è, ti è morto il gatto?» gli chiese l’ingegner Sala, interrompendolo con la sua voce sonora e le sue battute pessime. Se ne stava lì davanti a lui, alto e bello e con la tazzina in mano, come se fosse il padrone della sala caffè. E in parte lo era, quando non c’era Graziani junior nei dintorni.

«No, no, questioni di lavoro» gli rispose Fedele, agitando una mano.

«Ma che bravo ragazzo! Sempre a pensare al lavoro, lui» E giù una pacca sulla spalla. Gli altri, che erano il geometra Mangiapane e impiegati di cui non ricordava al momento il nome, risero di gusto.

Fedele abbozzò un sorriso, poi cancellò Sala e il resto dalla mente. Ridessero pure, loro che ancora potevano: lui, da ridere non aveva proprio niente. Anzi, c’era da piangere, se Tarca non gli avesse trovato qualcosa su Manovali. «Ci penserò io e le farò sapere» aveva risposto, quel sabato. E poi, il silenzio. Eva ne lodava spesso le capacità al computer, così si era affidato a lui, in mancanza di una migliore alternativa. Ma oltre ad affidarsi, poteva anche fidarsi? Fedele non lo sapeva.

«Ma cosa sono questi affari di lavoro, nè?» lo stuzzicava di nuovo Sala, a suon di vocali aperte. «Te ne stai sempre lì in un angolo, col muso che tocca terra... ma neanche in pausa ti rilassi, te?»

«Incarico dall’amministratore» rispose e non ci fu bisogno di aggiungere altro. Si affrettarono tutti a cambiare argomento, passando al nuovo scandalo tra politici o ai progetti per le vacanze al mare.

«Di’, ma secondo voi dove sarà il prossimo terremoto? Tutti puntano sull’Appennino toscano, ma io dico che è troppo facile. Secondo me viene giù un pezzo di Calabria, nè?»

Era Alessandro Loschi, detto Sandro, quello delle comunicazioni. Un tizio che di solito fungeva da tappezzeria, con un paio di occhialini inquietanti. Fedele lo squadrò per un attimo, poi lo ignorò. Si parlava del Disaster Master, adesso, il programma tanto strombazzato che però lo aveva deluso. Ma forse era solo perché in quel periodo aveva altri problemi per la testa e di indovinare dove sarebbero stati i prossimi disastri naturali non gli fregava niente. Sapeva già dove ce ne sarebbe stato uno, in caso di fallimento con Manovali: in casa sua e tanto gli bastava.

«No, no, no, io dico in Turchia» intervenne Mangiapane. «Succede sempre qualcosa, lì.»

«Né Toscana, né Calabria, né Turchia. Ascoltate me!» intervenne Sala, alzando un braccio come se fosse a scuola, ma non poté concludere la sua frase. Proprio col braccio alzato, nel centro della sala caffè, lo trovò la capocontabile Bastiani, entrando. Si guardò attorno con occhio serio, da insegnante che interroga, impettita dietro i suoi occhialini da lavoro e la sua crocchia di capelli biondo tinto. In sala ci fu subito silenzio. Aveva l’autorità con sé.

«Sala, dobbiamo discutere dei preventivi per l’affare col gruppo iberico, di cui si sta occupando lei. Venga un attimo nel mio ufficio, la prego.» E uscì di nuovo, senza aspettare una risposta.

«Il dovere mi chiama» disse Sala allargando le braccia, con un sorrisetto che accese le risatine dei colleghi. «Non aspettatemi, sarà una cosa lunga.» E mentre le risatine si ingrassavano in risate, con il tradizionale corredo di battute e commenti a mezza voce, l’ingegner Sala infilò la porta, seguendo a distanza la capocontabile Elisa Bastiani.

Mentre la sala caffè ritrovava a poco a poco la calma, Fedele sospirò, finendo di bere. Ormai anche lui doveva tornare in ufficio, a frugare documenti e aspettare che un miracolo lo salvasse. Si alzò, aggiustò i pantaloni e salutò tutti. Proprio all’ingresso, incrociò il segretario Tombini, che entrava. Il Tombino lo fissò come un insetto velenoso, poi proseguì con uno sbuffo.

Simpatico, il Tomba, pensò Fedele Innocenti. Avrebbe potuto dirgli qualcosa, ma lasciò perdere. Il segretario non era una sua priorità, l’architetto Manovali sì. E con l’architetto Manovali al centro di ogni pensiero, si avviò verso l’ascensore per il ventesimo piano. Tempo di lavorare, adesso.

Eva e Tarca avevano raggiunto la superficie, nel frattempo. Più precisamente, avevano raggiunto il parco L. Gelli, a poca distanza dal centro storico della città, ma sempre nella zona del centro. Non era un parco grande, ma era un parco fitto. A differenza di altri, assomigliava ancora ai parchi di un tempo, pieno di alberi e senza cupola di vetro a proteggerlo. Anche per questo non era affollato, se non dai vegetali. Chissà come faranno a sopravvivere, si chiese Luca Tarca, percorrendo il vialetto verso la fontana. A parte una madre con bambino e tre vecchi su una panchina, erano soli.

«Qui sì che si sta bene, vero?» disse Eva, stiracchiandosi. «Non sembra neanche di essere in città.»

«In effetti...» Faceva caldo, meno di quanto facesse caldo in strada, ma il fresco condizionato degli altri parchi era un miraggio remoto. L’aria aveva un lieve profumo di verde e di vegetazione, anche perché lì la vegetazione era davvero tanta, ma la polvere e un vago retrogusto di asfalto alla brace si erano infiltrati anche in quel parco, superando muraglie di ippocastani, pioppi, magnolie e altri tipi di alberi, che Tarca conosceva di faccia ma non di nome.

«Mi piacerebbe sapere cosa ci mettono nel terreno, per farli crescer così...» sospirò Eva.

Tarca la osservò. «Pensi a quello che combinate là fuori? Ancora nessuna novità positiva?»

Scosse la testa. «Niente di niente. Tutta roba rinsecchita, che muore dopo due giorni.»

Camminavano sulla ghiaia sottile, che scricchiolava sotto le loro suole. Li superò un giovane, con un pastore tedesco al guinzaglio: da come procedevano, non si capiva chi portasse in giro chi. Forse era il cane a portare in giro il padrone. Tarca notò distratto che non portava la museruola, come era richiesto dal cartello all’ingresso. Notò anche che nessuno sembrava curarsene.

Sopra, il cielo era un tappeto bianco e bruciante, che a fatica disegnava vaghi progetti di ombra sul suolo. Il fresco degli alberi attenuava un poco il caldo e l’umidità, ma era giugno lo stesso ed erano in città: i miracoli li faceva solo l’aria condizionata. Sudavano, mentre parlavano.

«Non hai proprio voglia di venire a darci una mano, allora?» chiese Eva, fermandosi accanto alla fontana. L’acqua era verdastra e ferma, nel bacino in finto marmo; lo spruzzo pareva anemico.

Tarca sorrise, tirandosi indietro. «No, grazie, non fa per me. E poi ho già abbastanza lavoro così.»

«Lavoro? Ti sei trovato finalmente un impiego?»

«Ma no, continuo come al solito. Dicevo dei miei impegni al computer, quel lavoro» rispose.

«Dovresti trovarti davvero un lavoro, prima o poi. Non puoi continuare per sempre.»

«Qualcosa guadagno, anche così. Per quello che faccio, è più che sufficiente.» Tarca si strinse nelle spalle. «Non ho molti vizi, né molte spese. E poi anche questo è esentasse.»

Eva sospirò, schivando la frecciatina di Luca. Dopo l’ultima promozione del marito, per lei e Fedele si era spalancato il mondo della fascia esentasse, quella dei lavoratori che guadagnavano abbastanza da permettersi di non pagare nulla allo stato. Una delle grandi innovazioni degli ultimi quindici anni, per tagliare gli sprechi e migliorare la gestione della Cosa Pubblica: dato che sopra un certo reddito nessuno si preoccupava di pagare le tasse, tanto valeva abolirle per i ceti benestanti. Si risparmiava su indagini, processi, avvocati vari e si poteva anche sciogliere la guardia di finanza, con ulteriore risparmio di soldi pubblici. In più, questo stimolava l’economia, invogliando i più ricchi a spendere, facendo girare denaro e portando benefici anche alle classi inferiori, di riflesso. Il passaggio in sé non era molto chiaro, ma in tv ne parlavano sempre, quindi doveva essere vero.

«Non alzare sempre quelle spalle, che sembri Fedele. Un alzatore di spalle mi basta e mi avanza, grazie. Seriamente» continuò Eva, guardando l’amico, «non puoi andare avanti così. Compilare dei sondaggi online, cliccare su banner pubblicitari, iscriversi a siti, non sono lavori seri. Non ci campi, con quella roba. Non hai un futuro davanti.»

«A volte mi pagano anche qualche articolo, specie nei siti americani. Il mio inglese è migliorato. O vuoi che faccia come tuo marito e mi trovi un lavoro in azienda?»

Eva lo guardò male. Lo guardò molto male e Tarca capì subito di aver calpestato una mina. Eccolo lì il problema, eccolo lì a cosa pensava anche in galleria. Considerato ciò che Innocenti gli aveva chiesto sabato scorso, tutto diventava più chiaro. Ma non disse nulla.

«Come lui, spero proprio di no» rispose Eva, dopo una pausa. «Ma un lavoro sì. Magari qualcosa di più pulito, senza mille segreti che non puoi confessare neanche a tua moglie.»

«Io non ho una moglie» disse Tarca, per sdrammatizzare. «E neanche un marito. Quindi non avrei problemi di segretezza. Ma in cravatta non mi ci vedo proprio.»

Eva Bianchi lo guardò ancora peggio, se possibile. «Molto spiritoso. È da una settimana che mi gira per casa come uno zombi. Non so che lavoro gli abbia rifilato stavolta quel suo capo schifoso, ma di certo è qualcosa di brutto. E mai che ne voglia parlare!»

«Non ne so nulla, con me non viene certo a parlare» rispose Tarca, sentendosi un verme. Mentirle in quel modo non gli piaceva proprio, però... cosa le avrebbe dovuto dire? Meglio cambiare discorso e passare ad altro, prima di infilarsi in un tunnel senza uscita. «Avrà le sue ragioni per stare zitto. Non so quali, ma le avrà di sicuro. Magari lo fa solo per evitarti problemi...»

Eva sbuffò. «Neanche fosse nella polizia o nei servizi segreti! Sta in un ufficio...»

«Perché non ti porti anche lui al lavoro, un fine settimana? Magari lo convinci e potrebbe essere un sistema per farlo parlare un po’. Almeno cambiereste, rispetto al solito.»

«Lui fuori città? Neanche morto, ci verrebbe! E poi» aggiunse Eva, a disagio, «non gli piacerebbe lì. Non si troverebbe a suo agio. Non capirebbe. No, meglio lasciar perdere.»

E probabilmente è la stessa cosa che dice anche lui del suo lavoro, pensò Tarca. Ecco perché non te ne parla mai. Ma in fondo non erano affari suoi e rimase zitto. Gli sembrava assurdo quel duplice silenzio, ma erano tante le cose che gli sembravano assurde. Forse era lui quello sbagliato, se niente gli sembrava avere senso, in quel mondo.

Ripresero a camminare, girando attorno alla fontana e imboccando un altro vialetto ghiaioso. C’era silenzio, c’era caldo ed era pieno pomeriggio, eppure incrociarono lo stesso altre persone. A quanto pareva, qualche cittadino con la voglia di parchi esisteva ancora. Tarca ne fu sorpreso. Parlarono di varie cose, passeggiando, ma gli argomenti di lavoro non li sfiorarono più. Caddero nel silenzio.

Molto meno in silenzio cadde invece Nicholas Russo, nello scantinato di un condominio a circa due o trecento metri dal parco L. Gelli. Si era svegliato presto, quella mattina, dopo un sogno assurdo e sgradevole, un sogno per niente comune a lui e alle sue abitudini. Se l’atmosfera fosse stata un poco più cupa, lo avrebbe definito incubo, invece era solo un sogno assurdo. E brutto.

Era su una stradina deserta di collina, all’aperto, ombreggiata da alberi sani e pieni di foglie. Intorno, non c’era che campagna, lasciata a maggese. E già quella era una cosa assurda, perché lui non aveva mai visto posti del genere, se non in tv. Nicholas era nato lì in città ventidue anni prima e mai ne era uscito, se non per brevi vacanze al mare. Campagna e collina? No, non erano il suo ambiente.

Eppure lì si era sognato, all’aperto e in pieno pomeriggio. Camminava su quella stradina in salita e a un certo punto aveva visto un’auto parcheggiata di lato. Sul cofano dell’auto c’era un gatto morto. Era decisamente morto, ma quando Nicholas aveva superato l’auto, il gatto si era alzato, era sceso e aveva cominciato a seguirlo. Nel sogno, gli era sembrato normale. Poi era diventata notte di colpo, con la velocità con cui le scene cambiano nei sogni, e lui era davanti a una cascina di campagna: la sua abitazione, almeno in quel mondo onirico. Cercava le chiavi in tasca e intanto il gatto gli girava attorno e si strusciava contro il muro, senza miagolare. Aveva fretta, ma non sapeva perché.

L’allarme lo aveva svegliato, riportandolo alla sua realtà di studente universitario. Si era alzato un po’ intontito, aveva controllato sotto il letto e non c’era nessun gatto. Così era cominciato il giovedì, verso le dieci e trenta del mattino, col solito pellegrinaggio in bagno e un’occhiata infastidita ai libri sulla scrivania. Il venticinque aveva un esame e avrebbe dovuto studiare, in teoria, ma aveva voglia di studiare tanto quanto aveva voglia di camminare in collina assieme a un gatto morto.

Sfogliò lo stesso qualche pagina, nel fresco del climatizzatore, per autoconvincersi di aver fatto il suo dovere di bravo studente. Ci riuscì molto bene, aveva grande esperienza in questo campo. Verso mezzogiorno il sogno era ormai evaporato del tutto, lasciando solo uno spiacevole retrogusto negli angoli più remoti del cervello, luoghi che comunque lui non frequentava mai.

Stiracchiandosi, aveva chiuso il libro di strategie di bancarotta, su cui aveva appoggiato gli occhi tra un messaggio e l’altro, e aveva ricontrollato gli impegni del pomeriggio. Niente di entusiasmante: lo avevano contattato per riparare un impianto elettrico in un condominio a circa sette fermate da casa sua. Nicholas sbuffò. Fare l’elettricista era un pessimo modo per pagarsi gli studi, sì, ma era l’unico che avesse a disposizione, mentre aspettava di diventare il top manager schifosamente ricco dei suoi sogni (quando non sognava gatti morti). Così, per quel pomeriggio, riparazioni.

Verso le quindici era in viaggio sulla metropolitana, con un libro e gli attrezzi da lavoro infilati alla meglio nella sua borsa a tracolla. Pensava alla serata che lo attendeva dopo il lavoro, in giro a bere con gli amici e poi chissà, magari gli sarebbe successo di meglio, tra un locale e l’altro. Certo non gli sarebbe successo niente di peggio dell’impianto che doveva riparare. Si aspettava un lavoraccio, ma scoprì presto che la realtà lo aveva battuto. Nello scantinato in penombra, Nicholas Russo si trovò davanti un impianto elettrico che poteva risalire forse allo scorso millennio, o giù di lì.

«È un po’ vecchio, veda lei cosa riesce a fare» gli aveva detto l’amministratore, accompagnandolo lì sotto. Un cazzo, ecco cosa riuscirò a fare, pensava adesso Nicholas, guardando la porcheria che avrebbe dovuto riparare. Sarebbe stata già un’impresa trovare il guasto, in mezzo a quell’ingorgo di cavi, fusibili e altra spazzatura. Se quell’affare lì era a norma, lui era il Papa! Ma in fondo non era il caso di fare gli schizzinosi: lo pagavano bene e lo pagavano in nero, era assurdo illudersi che fosse una passeggiata, quel lavoro. Con molta pazienza, si mise all’opera.

La prima pausa fu dopo mezz’ora, quando si asciugò la fronte bestemmiando. Ne avrebbe avuto per tutto il pomeriggio, avanti così! Il guasto almeno lo aveva trovato, ma ripararlo senza provocare un casino generale sarebbe stato duro. Chissà chi lo aveva montato, quell’impianto. Avrebbe rinunciato volentieri all’incarico, ma i soldi facevano comodo. Un giorno si sarebbe laureato e lo avrebbero di sicuro assunto come manager in una qualche azienda: a quel punto, fine dei problemi. Per adesso, invece, i problemi li aveva e questo era il modo più semplice per risolverli. Gli esami e una laurea erano importanti, sì, ma i soldi lo erano di più. Questo aveva imparato, dalla tv e dalla vita.

La seconda pausa non arrivò mai. Distratto da pensieri, esami, sogni, stanchezza o chissà cosa, nel sostituire un fusibile provocò il casino generale. Sfortunatamente per Nicholas, l’impianto era molto meno a norma di quanto potesse immaginare: lo frisse in un paio di minuti, facendo saltare la luce in tutto il condominio. Quando scese l’amministratore, il suo corpo aveva smesso di sobbalzare.

Sul treno del ritorno, intanto, Eva Bianchi e Luca Tarca viaggiavano in silenzio. O meglio, Tarca viaggiava in silenzio; Eva invece aveva trovato un conoscente e parlava allegra con lui, dimentica o quasi del suo vicino. A Tarca non dispiacque più di tanto. Per quel giorno aveva già avuto una dose sufficiente di chiacchiere: adesso desiderava solo ritrovare la pace della cameretta.

Lo avevano incontrato dopo il parco, scendendo verso la stazione. Eva avrebbe preferito camminare di nuovo fino a casa, ma Tarca non ce la faceva più: le sue gambe avevano esaurito le misere scorte di energia e ogni muscolo si lamentava, invocando il torpore della sedia e del computer. No, non era proprio uomo da sforzo fisico, o almeno non lo era più da svariati anni.

Sulla banchina, in attesa del treno, fra le altre scorie cittadine c’era anche un tizio basso, con capelli neri e corti e un paio di occhiali che assomigliavano più a fondi di bottiglia che a strumenti di vista. Tarca lo aveva ignorato, come ignorava il novantotto per cento degli esseri viventi attorno a sé; Eva invece aveva puntato verso di lui come un setter, con un sorriso da orecchio a orecchio. Sorrideva anche il tizio basso. Un suo amico?

«Lui è Renato Trudu, un mio collega» glielo aveva presentato Eva. Tarca si era stretto nelle spalle e gli aveva stretto la mano, presentandosi a sua volta. Due secondi dopo, aveva già dimenticato tutto di quell’uomo ed era tornato a pensare ai fatti propri.

«Ero dall’oculista, oggi, ma adesso torno al negozio» spiegava Trudu. «Ci ho lasciato mia moglie, ma chissà cosa combina.»

«Noi invece siamo andati a fare due passi» aveva risposto Eva. «Oggi non c’era lavoro, su, e così avevo la giornata libera. La settimana prossima, invece, sarà più dura.»

E poi si erano persi nelle loro chiacchiere, mentre Tarca fissava il binario e pensava a tutti i più vari aggiornamenti da fare, al ritorno a casa. Si sentiva utile come una giacca a vento in agosto, ma per lui era la normalità e non si era lamentato. Finalmente, il treno era giunto e li aveva caricati tutti e tre, assieme ad altre decine di passeggeri sparsi qui e là in attesa.

Nel vagone, Eva si lanciò in una lunga e noiosa discussione con quel Trudu, parlando entusiasti di ciò che li attendeva nel fine settimana.

«Ci sarai sabato, allora? Tiziano ha detto che dovrebbero arrivare, per cui ci sarà parecchio da fare. Anche Samuele ci ha chiesto di esserci, se possiamo» disse Eva.

«Eia, dovrei esserci» rispose Trudu. «Al mattino magari no, ma al pomeriggio ci pensa mia moglie e magari anche mia figlia. Comunque io ci sono, spero.» Si aggiustò i fondi di bottiglia.

«Immagino che il sabato non sia il giorno migliore per assentarsi, col tuo negozio di abbigliamento, ma se tutto va bene questo fine settimana sarà un lavoraccio, su. Forse più la domenica, ma ci sarà comunque da fare. Penso che io e Anna ci fermeremo lì, oppure mi farò ospitare da lei, così eviterò di farmi tutta quella strada per niente.»

«Speriamo che vada bene. Hai sentito Tiziano, tu? Doveva chiamarmi ieri, ma non ha chiamato.»

Eva sospirò. «Ha da fare col lavoro e ha da fare con la consegna, anche lui. Vedrai che ci dirà lui qualcosa, in caso di problemi. Se non sentiamo niente, vorrà dire che va tutto bene.» Sorrise.

Renato Trudu sembrava meno ottimista e positivo, ma tenne per sé i propri dubbi. «Eia, sarà come dici tu. Almeno spero. Basta che non ci sono brutte sorprese, però.»

«Non ci saranno, vedrai!»

Il dialogo continuò, mentre Tarca cercava di non ascoltare e intanto memorizzava tutto. Trudu scese dopo tre fermate, loro si fecero altri cinque minuti di viaggio, nel rumore della musica e di notiziari insignificanti. Il dialetto li rendeva ancora più ridicoli e Tarca sbuffava, pensando alle notizie vere che in quel momento si stava perdendo. Sperava di ritrovarle tutte nelle bacheche, in Rete.

«Scusa, discussioni di lavoro» disse Eva, girandosi verso di lui. Trudu era sceso, coi suoi occhiali da ragionier Filini, e il vagone era tornato loro, loro e di qualche altra decina di persone.

«Un altro collega, immagino» rispose lui. «Avrete molto da fare, nel fine settimana?»

«Saremo pieni di lavoro, se tutto va bene!»

«Per quel che serve...» bofonchiò, pensando che il volume degli schermi e il brusio di fondo fossero sufficienti a coprire la sua voce. Pensava male.

Eva lo guardò come se avesse appena dichiarato che il genocidio, in fondo, ha anche dei vantaggi e non è poi sbagliato. «Intanto noi facciamo qualcosa, non restiamo tutto il giorno dietro uno schermo a scrivere commentini e brontolare sul mondo. Cerchiamo di cambiare le cose, invece di frignare.»

«Ma alla fine anche voi non ottenete nulla. Fate solo più fatica» rispose Tarca. Non era polemico o attaccabrighe di natura ed Eva era certo l’ultima persona con cui volesse litigare, ma il pomeriggio all’aperto lo aveva stressato e la gente attorno a loro lo soffocava. Parlò così prima di accendere il cervello, e come spesso in questi casi fu un pessimo errore.

«Non abbiamo ancora ottenuto nulla, ma proviamo. È questo che devi fare, se speri di ottenere una cosa o un cambiamento: provarci. Tu invece preferisci stare a guardare dietro un vetro, aspettando che altri facciano il lavoro per te. Chi è che sbaglia dei due, allora?»

Forse Tarca avrebbe risposto e forse ne sarebbe uscito un litigio in piena regola, se la metropolitana non si fosse fermata in quel momento. Era la loro stazione e scesero in silenzio, ognuno guardando da un’altra parte. Finsero di ignorarsi per tutta la galleria pedonale, o piedopolitana che dir si voglia. Solo davanti alle scale mobili per la superficie, Tarca si girò un attimo verso Eva.

«Forse sbagliamo tutti e due» le disse. «Ci hai mai pensato?» E salì, senza aspettare una risposta.

Eva Bianchi lo osservò salire e infilare il portone del condominio, seguendolo a una certa distanza. Poi scrollò le spalle e buttò via la sua risposta. Sapeva che la strada giusta era la loro, il resto non le importava molto. E comunque, quella era la scelta che lei aveva fatto: giusta o sbagliata che fosse, era pronta a pagarne tutte le conseguenze. Così le ripeteva sempre Fedele, una volta, e così alla fine era arrivata a pensare anche lei. Se Luca preferiva stare a marcire nella sua cameretta, facesse pure. Un giorno avrebbero comunque scoperto quale delle due fosse stata la strada giusta.

Pensare a Fedele la fece pensare anche alla faccia che lui si portava in giro da una settimana, faccia da spettro ridotto molto male. Chissà che scelta aveva fatto lui, invece, e chissà che conseguenze si era tirato addosso. Peccato che non gliene volesse mai parlare: lei lo avrebbe ascoltato volentieri, lo avrebbe anche aiutato più che volentieri. Invece, silenzio totale.

Che testone!, si disse, salendo le scale. Mentre apriva la porta di casa, facendo scattare la serratura pesante e rumorosa, Eva si sentì pronta a dipingere. Sì, adesso sì che le erano tornate le idee. Aveva avuto bisogno di un pomeriggio in giro, ma adesso sapeva come proseguire. Lo sentiva, meglio. Le restavano un paio d’ore, prima di cena, e le avrebbe impiegate bene.

«Adesso si dipinge, eh?» disse al pinguino di peluche che usava come portachiavi. Il pinguino non le rispose, ma era comunque d’accordo con lei, lo si capiva dalla faccia. Sorridendo, entrò in casa e si tolse le scarpe. L’attendeva il lavoro.

Il lavoro si spegneva nella pigra indolenza di un pomeriggio di metà giugno, per Fedele Innocenti. I colleghi parlottavano nei corridoi, ma le voci giungevano smorte, attutite dalle pareti e dai pensieri che gli riempivano la testa. Una settimana era passata e il suo incarico era in alto mare. Peggio, era a un passo dal naufragio. Con molta cautela, aveva avvicinato anche gli altri architetti, Ruopolo e Baiocchi, cercando di deviare il discorso su Manovali, tra un pettegolezzo e l’altro.

Invano. Baiocchi per poco non lo fulminava, guardandolo come un escremento di sorcio. Ruopolo era stato più collaborativo e loquace, ma del collega di ufficio non sapeva un tubo. O almeno, niente di utile o nuovo; aveva solo ripetuto tutto ciò che Fedele già aveva scoperto per i fatti propri. Quindi, un fallimento completo. Sospettava che forse il segretario Tombini ne sapesse di più, ma quello era inavvicinabile: infestava l’azienda come uno spettro, guardava tutto e non diceva nulla, e sempre coi suoi occhi da pecora e le orecchie chine sotto le derisioni. Il Tomba era un enigma nell’enigma, ma a Fedele non interessava risolverlo. Ne aveva già abbastanza dell’architetto Manovali.

A fine giornata, uscendo dall’ufficio andò quasi a sbattere contro il consigliere Frombola. Si fermò giusto in tempo e si fermò anche il suo cuore, per un istante, poi ripartì. Il cuore, non Innocenti: lui era folgorato dalla visione del consigliere che lo folgorava con uno sguardo oltraggiato, peraltro un po’ buffo sul suo volto da nonno di Cheope.

«Stia attendo a dove va, lei!» esclamò Pierantonio Frombola, arricciando la faccia da lifting. «Per poco non mi fa cadere! Ma che gente che c’è, oggigiorno...»

«Mi scusi» rispose Fedele, inchinandosi servile e disprezzandosi un poco. «Ero soprappensiero, non l’ho proprio notata, sono desolato. Posso esserle di qualche aiuto?» aggiunse, per farsi perdonare.

Frombola lo squadrò e probabilmente lo etichettò come individuo insignificante dell’azienda, di cui si poteva dimenticare in fretta. Cosa che in effetti sarebbe successa, prima della fine del mercoledì, con la collaborazione dei settantacinque anni del consigliere: la sua memoria non era più quella dei tempi belli, e neanche tutto il resto. «L’ufficio degli architetti. È su questo piano, vero?» gli chiese Frombola, storcendo la bocca innaturale.

«Ah, guardi, gli architetti sono al ventiduesimo piano. Questo invece è il ventesimo. Probabilmente l’ascensore si è fermato al piano sbagliato, sono cose che capitano a volte con quegli aggeggi, sa...» Fedele tentò il più leggero dei sorrisi, per liquidare in un errore meccanico quello che, invece, era un errore umano del consigliere. Aveva sbagliato a pigiare il tasto, forse perché era senza occhiali.

«Uhm... ventiduesimo piano, nè?»

«Esattamente. Questo è il ventesimo, deve...»

«Lo so da me cosa devo fare» tagliò corto Frombola. Si avviò verso l’ascensore, poi forse ci ripensò e si girò verso Fedele. «Grazie» disse, prima di sparire dietro l’angolo.

Fedele Innocenti ricominciò a respirare.

Quella sera, a cena, raccontò a Eva l’incidente col consigliere e ne risero assieme. Non fu una gran risata e non spazzò via l’imbarazzo per quel lavoro di cui Fedele non le voleva mai parlare, ma fu un piccolo passo avanti. Così lo volle interpretare Eva, mentre dipingeva nella sua stanza privata. Il marito era affondato come sempre in poltrona e guardava la tv, anche se forse in realtà era perso nei problemi suoi. Almeno ha detto qualcosa, pensò lei, tra una pennellata e l’altra. E il mercoledì finì in pace, mentre la tv parlava e cantava, Eva dipingeva e Fedele sbadigliava. Poteva finire meglio, sì, ma poteva anche finire peggio. Ed era un altro passo verso il destino, che aspettava più avanti.

Al quinto piano, Luca Tarca aveva trascorso una serata fallimentare al computer. Le notizie erano le solite, niente di nuovo e niente di attendibile, solo voci dalla rete normale. La Chind taceva. Così, si era abbandonato al magico mondo dei videogiochi, in cui affogare le delusioni del mondo reale, per perdersi in un’avventura grafica di metà anni novanta, un pezzo di modernariato come piaceva a lui.

Ancora gli girava in testa la conclusione del pomeriggio, col litigio sfiorato tra lui ed Eva, un litigio nato in modo del tutto casuale e spento in modo altrettanto casuale. Lo infastidiva. D’accordo, sì, lui passava quasi tutto il giorno davanti a un computer, a commentare e scrivere; ma non era inutile, né la perdita di tempo di cui parlava lei. Aveva una sua importanza anche quel lavoro. Solo che lei non lo riusciva a capire, tutta persa nelle sue attività.

Sbuffò, ingobbito sulla tastiera. Il giorno dopo, avrebbe mandato un messaggio a Innocenti. Proprio quel messaggio che il suo vicino desiderava tanto: la chiave per l’affaire Manovali.