Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo sesto

L’azienda era semplicemente l’azienda.

Non aveva bisogno di un nome. Se mai ne aveva avuto uno, si era perso da anni tra le nebbie della Lombardia, della contabilità e nelle pieghe einsteiniane del tempo. La conoscevano tutti lo stesso e quelli che ancora non la conoscevano, per ovvie ragioni, l’avrebbero conosciuta subito dopo aver abbandonato pannolino e biberon. Era l’incarnazione vivente e pulsante del paese.

Fedele Innocenti vi lavorava ormai da dodici anni, da quando il suo futuro suocero, avvocato Giulio Bianchi, si era arreso alla cocciutaggine della figlia, che sosteneva di amare quel pezzente, e con un puro atto di misericordia calcolata lo aveva tolto dal vuoto nichilista dell’esistenza post-laurea, per presentarlo al collega ed ex compagno di praticantato, avvocato Mario Alfieri. L’avvocato Alfieri lo aveva introdotto all’allora consigliere Fabrizio Storti, il quale lo aveva fissato per un po’, come una caccola appiccicata alla sedia, e poi ne aveva fatto il proprio animale da compagnia.

Per Fedele era stata l’esperienza più umiliante della sua vita, mentre quei vecchi in giacca e cravatta gli parlavano sopra la testa e se lo sballottavano qui e là, con vago disgusto. Ma lo aveva sopportato, perché amava Eva e un barlume di senso pratico gli diceva che, per avere il diritto di amarla, prima gli serviva un lavoro per mantenersi. In mancanza di alternative, aveva dovuto accettare.

«Non sa neanche pulirsi il culo da solo, quello. Se non ci penso io, finisce che mi tocca mantenerlo a me finché campa, quel fallito là.» Così l’avvocato Bianchi lo aveva descritto all’amico, avvocato Alfieri, con un tono non proprio basso. Forse pensava che il futuro genero non lo avrebbe sentito o forse non gli importava un fico. Fedele lo aveva sentito. Attendeva fuori della porta, come un cane, e la frase gli si era piantata in testa, dritta in mezzo agli occhi. Non l’avrebbe più dimenticata.

Adesso Fedele Innocenti aveva un lavoro stabile, guadagnava bene, poteva permettersi molto più di quanto gli servisse e si era pure assicurato l’esenzione fiscale. Apparteneva all’azienda e ne era una fedele parte, ma neppure lui ne pronunciava il nome. Anzi, a essere sincero, non lo sapeva proprio. All’inizio sì, ma l’inizio ormai era parecchio lontano e lui si era perso lungo convoluti meandri di operazioni finanziarie e di acquisizioni, disimpegni ed espansioni. Oggi, per semplicità, la chiamava ufficio, oppure lavoro: «Dove stai andando?» «In ufficio.» «Dove sei?» «Al lavoro.» Capivano tutti ed era molto più comodo così.

Perché in effetti l’azienda aveva avuto una vita piuttosto avventurosa e movimentata. Quella che nei gloriosi anni ottanta era ancora una persona giuridica privata, con un nome, un presidente, una sede, un capitale, fondi neri di emergenza, qualche politico amico suo e due sigle sindacali compiacenti, aveva cambiato faccia nel corso dei successivi quaranta e più anni, fino a trasformarsi nell’azienda di oggi, che all’ombra deforme della rosa camuna faceva il bello e il brutto tempo.

C’erano state scalate e discese, acquisizioni e dismissioni, fusioni, fissioni, passaggi di proprietà, intestazioni a figli, nipoti, nonne, accorpamenti, fughe all’estero, rientri dietro uno scudo fiscale, scandali, fallimenti, rialzi in Borsa, condoni e mille altre cose complicate che nessuno capisce mai e in fondo a nessuno interessano. Il solito casino, ma alla fine tutto si era risolto nel migliore dei modi e i grandi azionisti vivevano felici e contenti coi fondi pubblici, mentre gli altri lavoravano.

Probabilmente sarebbe stato più corretto definirla società, o addirittura multinazionale, ma erano tutte parole strane, che spaventavano la gente. Avevano poi un retrogusto scomodo, che risaliva agli albori delle lotte contro la globalizzazione e faceva pensare a tentacoli ovunque. No, meglio evitare quei termini. Erano troppo estesi, la gente non li avrebbe capiti. Azienda era molto più domestico e rassicurante, ricordava il negozietto sotto casa, dove si andava da bambini. E azienda fu, qualunque fosse il nome e chiunque fosse il proprietario. Ammesso che ne avesse ancora uno.

Fedele Innocenti sapeva solo di lavorare presso una sede italiana dell’azienda e gli bastava. Anzi, era anche troppo. Pur non essendo il centro del potere, era abbastanza vicino da riempirsi di inutili complicazioni e intrighi tra i dipendenti. Non voleva immaginare come dovesse essere la vita nella sede principale, ovunque essa fosse e ammesso che ci fosse. Certo era l’inferno in terra, gente che si calpesta e che divora i colleghi, per due soldi in più nella busta paga. No, brutta storia. Meglio la tranquillità della provincia aziendale, dove ci si conosceva per nome.

E nella tranquillità della provincia aziendale, dove ci si può calpestare tra conoscenti invece che tra sconosciuti, Fedele fissava la porta di un ascensore. Mercoledì venticinque giugno.

Non era un ascensore normale, ma era l’Ascensore, quello che conduceva all’Olimpo dirigenziale, i piani alti dove vivevano, regnavano e si ingrassavano i Grandi Capi della baracca. Lassù, tra le nubi, c’era il consigli di amministrazione, ma soprattutto c’era l’amministratore delegato, Fabrizio Storti. Due settimane prima, in un primo pomeriggio di terrore, Fedele era entrato in quell’ascensore, per presentarsi a colloquio col suo capo. Ne era uscito con un incarico che aveva la piacevolezza di un calcolo renale e la stessa difficoltà di smaltimento.

Due settimane prima. Era l’undici giugno, adesso era il venticinque. Era mercoledì e adesso era un altro mercoledì. Il climatizzatore ronzava tanto allora, quanto oggi, e il fresco dominava il palazzo e gli uffici. Fuori, nella città, la temperatura era salita di altri sei gradi in quelle due settimane e anche la sera prima, al notiziario, il ministro del tempo aveva dichiarato che era l’estate più calda da trenta anni almeno; forse la più calda di sempre. Che fosse vero o no, era credibile.

Tutto questo però non contava per Fedele, non quel giorno. Guardava l’ascensore e guardava l’ora, cambiando ogni tanto di mano al pesante plico che portava. Entro qualche minuto, sarebbe stato di nuovo nell’ufficio dell’amministratore, stavolta per consegnare il frutto del suo lavoro. Le prove, i dati che aveva raccolto sull’architetto Ettore Manovali, in parte stampati e in parte salvati su un cd, perché il caro Storti era un tradizionalista e non gli piacevano quelle diavolerie elettroniche. Voleva carta, voleva forme concrete, tangibili, da stringere tra le dita lisciate coi bisturi.

Fedele Innocenti le aveva. Ma aveva anche un principio di gastrite, come sempre quando si trattava di salire dal suo capo. Il pranzo doveva essere fermo da qualche parte lungo l’esofago e non pareva intenzionato a muoversi da lì, per adesso. Trenette al pesto, cotoletta, insalata e un paio di dolci, che aveva consumato al solito tavolo con l’ingegner Sala, il geometra Mangiapane, l’architetto Graziani e tutto il resto della compagnia. Avevano riso e scherzato, deriso e sparlato, si erano dati di gomito mentre passava il segretario Tombini, seguito da uno strascico di risatine e commenti poco eleganti.

Adesso il gioco era finito. L’Ascensore lo attendeva.

In un disperato tentativo di rilassarsi, fuggendo dalla realtà, Fedele ripensò alla mensa, al segretario Tombini in particolare. Lo metteva a disagio, negli ultimi tempi. Da quando si erano incrociati in treno, due settimane prima, quel vecchio inutile lo trattava in un modo strano. Cercava di svicolare, quando si incrociavano in corridoio; evitava di guardarlo in faccia; non parlava quando c’era anche lui nei paraggi; prendeva le sue pause caffè in orari assurdi, quando la sala era deserta.

Che cosa gli era preso, al Tombino? Era schizzato definitivamente? O era normale demenza senile? A saperlo! Fedele aveva cercato di non farci caso, ma era difficile. Lo avevano notato anche gli altri, ormai. Proprio quel giorno, Ettore Sala lo aveva sottolineato.

«Di’, cos’è che ha il Tombino?» gli aveva chiesto l’ingegner Sala, tornando dalla mensa.

«Perché?» aveva risposto lui, come se niente fosse. «Ha qualcosa?»

«Qualcosa? Ma non lo vedi mica? È fuori come un balcone, quando ci sei te. Gli avrai mica fatto uno scherzetto, nè?» Come l’amministratore, e di conseguenza come ogni altro in azienda, anche lui si vantava della sua parlata milanese, che avrebbe dato le convulsioni a qualsiasi vecchio del posto, ma che l’insegnante di dizione applaudiva. Era in ossequio allo spirito dei tempi e alle leggi della provincia. Fedele compativa in silenzio, schivando di tanto in tanto le vocali più aperte.

«Ma no, ma cosa vuoi che gli abbia fatto, io! Non gli parlo mai...»

«Dai, su... cos’è, ci hai portato via l’amante?» L’ingegnere gli aveva dato di gomito, ridacchiando.

«Ma che amante, figurati! Uno come il Tombino, poi... Al massimo al museo egizio, ecco.»

Sala rise di gusto. «Allora, dai, cosa gli hai fatto al Tomba? Gli hai rigato la macchina?»

«Ma no, te l’ho detto, niente di niente. Solo che...»

«Solo che?» Ettore Sala alzò il sopracciglio, come un setter avrebbe alzato la zampa anteriore, dopo aver fiutato la preda e preparandosi a scattare.

Fedele aveva avuto un ultimo ripensamento, ma ormai era troppo tardi. Forse non era proprio il caso di raccontarlo, ma lo aveva accennato e adesso non poteva più tornare indietro. Aveva respirato a fondo e poi vuotato il sacco, abbassando la voce.

«Beh, non so se c’entri qualcosa, ma non mi viene in mente altro. Due settimane fa, mentre tornavo a casa in metropolitana, l’ho visto...» e aveva raccontato al collega l’intero episodio.

Alla fine, l’ingegner Sala lo aveva guardato perplesso. «Tutto qui? Allora è matto forte, il Tomba!»

Fedele si era stretto nelle spalle. «Cosa vuoi che ti dica, io...»

La discussione era finita così, quando il gruppo degli architetti li aveva superati a passo di marcia, urtando Sala e facendogli dimenticare di cosa stessero parlando. L’ingegnere aveva lanciato qualche insulto borbottato contro il quartetto, Manovali si era girato a metà per un «Mi scusi» ed era sparito subito dopo in fondo al corridoio, assieme agli altri.

Era stato più o meno a quel punto che il pranzo di Fedele Innocenti, avviato in un tranquillo viaggio verso lo stomaco e il resto dell’apparato digerente, aveva deciso di accamparsi proprio al centro del suo esofago. Alle ore quindici del pomeriggio, non si era ancora mosso.

Dovette muoversi invece Fedele. Con una preghiera rivolta a qualsiasi entità potesse ascoltarlo, aprì la porta dell’ascensore ed entrò, per andare verso il suo personale appuntamento a Samarra.

Nel quarto d’ora di attesa in anticamera, rivide tutta la sua vita. Fu più rapida di quanto pensasse e questo non contribuì a metterlo a proprio agio. Contribuì ancora meno il gelo puro che lo avvolse, quando giunse la chiamata dell’amministratore e il clima siderale dell’ufficio lo inghiottì.

Fabrizio Storti era là, dietro la sua improbabile scrivania, e lo fissava. In un elegante doppiopetto blu elettrico, con cravatta viola, lo fissava con le mani giunte davanti a sé, senza parlare. Un poco più stirato attorno agli occhi, forse, ma per il resto era lo stesso sguardo che due settimane prima gli aveva affidato l’incarico. Adesso attendeva i risultati.

«Ce ne hai messo di tempo, Innocenti. Mi sarei aspettato qualcosa di più veloce, da te.»

Per quanto potesse sembrare impossibile, la temperatura della stanza si abbassò di altri dieci gradi. Fedele era a un passo dall’assideramento, spirituale più che fisico. «Non è stato facile, sa...» riuscì a bofonchiare in risposta. Aveva le labbra insensibili.

Fallito, fallito, gli rimbombava la testa.

L’amministratore Storti sbuffò. «Dammi qua quello che hai trovato, va’. Che se aspetto ancora un po’, muoio di vecchiaia, con un pistola come te.»

E faresti un favore al mondo, pensò Fedele, allungando il plico col materiale. Glielo avrebbe voluto dire in faccia, ma osò soltanto formulare la frase negli anfratti più nascosti della sua mente. E anche così, qualcosa dovette trasparire in superficie, perché Storti lo guardò come un avvoltoio fissa il suo prossimo pasto, mentre lui gli allungava il plico. Poi tutto passò. L’amministratore si girò e rigirò la busta tra le mani, tenendo Fedele sull’orlo dell’arresto cardiaco, infine la aprì. E sorrise.

Quello fu probabilmente il momento più orribile dell’intera giornata. In piedi nel gelo innaturale del suo ufficio, con lo stomaco sottosopra e un terrore che gli scorreva dall’intestino alle gambe, Fedele Innocenti vide il suo augusto capo allargare le fauci in un sorriso. No, non era un sorriso. La parola potrebbe querelare per diffamazione chiunque la accostasse a ciò che comparve sul viso di Fabrizio Storti, quando ebbe tra le mani le prove che desiderava.

Era piuttosto una contrazione muscolare che allargava le labbra rifatte, inclinandone verso l’alto gli angoli, per esporre una dentatura di fine ceramica, più falsa di un assegno postdatato. Sorrideva nel modo in cui uno squalo potrebbe sorridere, mentre apre la bocca per richiuderla sulla gamba di un nuotatore, sorpreso a tradimento. Non era un sorriso. E siccome Fedele lo sapeva, e sapeva anche a cosa avrebbe portato quell’espressione dell’amministratore, provò il momentaneo desiderio di poter tornare indietro nel tempo, per distruggere quel plico, invece di consegnarlo. Povero Manovali.

Fu un momento, appunto. L’istinto di sopravvivenza della razza, rafforzato dall’immagine del caro suocero, che portava sempre davanti agli occhi, ebbe la meglio e lo convinse di aver fatto la scelta giusta. I falliti non portano a termine il proprio lavoro; la gente rispettabile sì. E poi, ormai il plico apparteneva all’amministratore, assieme al destino di Manovali. Non poteva più farci niente, lui. Eppure, lo stomaco si contorceva, là sotto. Aveva appena distrutto un altro collega.

«Sei lento, ma almeno le cose le fai bene, te» disse Storti, dopo aver sfogliato le stampe per qualche minuto. «Poi dovrò farle esaminare, perché non si sa mai, ma sembra un buon lavoro.»

Fedele Innocenti si costrinse a sorridere. Gli riuscì abbastanza bene. «Grazie...»

Con un gesto della mano, Fabrizio Storti respinse al mittente il ringraziamento. «Aspetta te, che non l’ho ancora verificata. Se questa roba qui è vera, allora d’accordo. Ma se mi hai sbagliato qualcosa, allora è meglio che cambi aria, hai capito?»

«Ho capito» rispose. «Aspetterò il vostro parere.»

«Tac! E zitto, nè. Che se il Madrigali sente qualcosa, è capace di scappare, coniglio com’è.»

Fedele saggiamente non rispose. «Resterò in attesa, allora.»

«Aspetta, aspetta. E adesso vai, che ho da fare. Ti farò sapere io, più avanti.»

Con quelle parole, l’udienza era conclusa. Fedele Innocenti chinò la testa, salutò e infilò la porta al passo più veloce che la decenza gli consentisse. Era fin troppo lento, per i suoi gusti. Quando fu di nuovo al suo piano, nei pressi dell’ufficio familiare e confortevole, corse in bagno e vomitò.

Mentre il marito si dibatteva nella sua normale vita di ufficio, anche Eva Bianchi era alle prese con cose che, effettivamente, si dibattevano. Nello specifico, lombrichi. Lombrichi modificati, se poi si voleva essere ancora più precisi. Il tutto, sotto un sole che cuoceva e sbiadiva ogni figura.

«Questo gruppo non ha molta voglia di starsene nella terra» commentò, girandosi verso la sagoma alta e secca che si avvicinava, schivando gli spruzzi dell’irrigatore.

«Li posso capire. A te piacerebbe nuotare in questo schifo?» rispose il nuovo arrivato. Che in effetti era una nuova arrivata, anche se non era facile capirlo con quel cappellaccio di paglia che le copriva la faccia e i vestiti informi che indossava. Già esile di suo, l’abbigliamento da lavoro non era certo il sistema migliore per sottolinearne la femminilità, ma non le interessava. Le interessavano molto di più i lombrichi, semmai. Con quel caldo, sarebbero morti in un attimo, fuori dalla terra.

«Pensavo li avessero progettati apposta per vivere qui dentro» disse Eva, sorridendo all’amica. «Ma a quanto pare non glielo hanno spiegato, in laboratorio.» Si raddrizzò, stendendo la schiena.

«Attenta che diventi gobba, a stare sempre piegata così, col sedere che prende aria.»

«No grazie, ho già mio marito, di gobbetti!» Si stiracchiò ancora un poco, per sicurezza. «Nell’altro campo come vanno, Anna? Anche là fanno i capricci?»

«No, no, tutto bene. Pare che abbiano attecchito, o almeno non si sono più visti. Spero solo che non siano scappati da qualche parte, sottoterra!» Anna Bruno sorrise, aggiustandosi il cappello.

«Allora facciamo cambio. Io vado a dare un’occhiata di là e tu resti qui a controllare che i lombrichi non escano di nuovo a prendere il sole. Chissà, magari tu sei più brava di me a convincerli.»

«Perché io i lombrichi li affascino, cara mia. Faccio colpo anche sugli invertebrati!»

Risero assieme, prima di separarsi per il lavoro.

Con Anna, Eva si trovava sempre bene. Da un certo punto di vista era strano, ma da un altro era del tutto logico. Diverse che più diverse non si poteva, erano diventate amiche in fretta e per i sei anni della loro collaborazione non avevano mai litigato, neppure una volta. Doveva essere un segno del destino, il loro incontro, o almeno così amava pensarla ogni tanto Eva, quando rifletteva sulla vita in generale. Le capitava spesso, soprattutto negli ultimi tempi.

Guardò l’amica, che si curvava sul terreno a controllare i lombrichi. Anna Bruno aveva cinquantatre anni e dieci mesi, come teneva a sottolineare, e il sole e la stanchezza le avevano già disegnato una sottile mappa di rughe attorno agli occhi. Forse c’entrava qualcosa anche il suo matrimoni andato a male, ma su questo Eva non le aveva mai chiesto nulla. Era una donna alta, quasi quanto Fedele, e secca come i pioppi dei dintorni; i capelli neri e lunghi erano sempre raccolti in pettinature che solo lei poteva inventarsi, sotto il cappello di paglia che non mancava mai. Non passava inosservata, non lì, ed era sempre pronta ad aiutare o comandare, a seconda dei casi. Forse anche per lei era diventata una valvola di sfogo, quella seconda casa, in cui scaricare le frustrazioni del lavoro. Dopotutto, gli insegnanti di chimica non rientrano tra le professioni più gratificate, specialmente quando sei donna, cinquantenne e separata di fatto.

Dettagli senza importanza, per Eva. A lei era piaciuta da subito e l’aveva adottata come una sorta di sorella maggiore. Siccome anche ad Anna pareva andar bene così, i ruoli si era fossilizzati nel corso di quei sei anni. Sì, se c’era una persona di cui sentiva di potersi fidare, lì dentro, quella persona era proprio Anna Bruno, sorella e confidente adottiva.

Eva si girò giusto in tempo per evitare lo spruzzo di un innaffiatore automatico, ma non per evitare la pozzanghera in cui le sparì il piede destro. Ecco, per chiudere in bellezza, si disse. Sarà meglio se guardo dove vado, invece di pensare ad altro. Saggia idea, che mise subito in pratica con successo. Nell’altro campo, i lombrichi si erano ambientati bene, come aveva detto Anna, e già pareva che la terra avesse un colore meno malsano. O forse erano le sue speranze a fargliela sembrare così, ma si sentiva ottimista ed era pronta a dare fiducia alle sue sensazioni. La terra era più sana e i lombrichi stavano facendo un buon lavoro. Con un po’ di pazienza, forse sarebbero riusciti davvero a piantare qualcosa; qualcosa che sopravvivesse, magari.

Il giallo dei campi attorno era deprimente, come il bianco grigiastro del cielo sopra di loro. C’erano pochi insetti e quei pochi erano tutti dannosi. No, non un ambiente ideale per far giocare i figli: la fissazione di Ettore, che ripeteva almeno tre volte ogni giorno. Vedrete, qui ci giocheranno di nuovo i nostri figli, diceva. Proprio come un tempo giocavo anch’io all’aperto. Loro sorridevano, quando parlava così, e gli davano ragione. Perché anche loro ci speravano, altrimenti non sarebbero stati lì a cuocersi nel sole e a spaccarsi la schiena sulla terra moribonda. Ci speravano, ma sottovoce.

«Allora vermetti, fate i bravi?» chiese Eva, chinandosi verso il suolo. Sì, facevano i bravi. Da vicino si vedevano ancora meglio i segni della loro attività. Non era molto, perché li avevano inseriti solo quattro giorni prima, ma era un inizio. Di questo avevano bisogno, tutti loro: un inizio, un segno che le cose potessero cambiare davvero. E forse il segno era arrivato.

Ettore ne sarà contento, quando tornerà nel fine settimana. Si raddrizzò, scrocchiando le ginocchia e la schiena, un brutto vizio imparato in gioventù e mai abbandonato. Era molto più comodo nei fine settimana, in effetti, quando Ettore passava a prenderla all’ultima fermata della metropolitana, in auto, e la portava assieme agli altri compagni, raccolti per strada. Il taxi rosso, così lo chiamavano, e lui ci rideva, minacciando ogni volta di comprarsi un tassametro. Ancora non l’aveva fatto.

Nei giorni feriali, invece, a volte passava Diego in auto, altre volte c’era Anna alla guida di un vero e proprio residuato storico, risalente forse alla seconda metà del secolo scorso ma ancora in perfetto stato: un tandem, qualcosa che in Italia non si produceva più da decenni. Eva saliva con vaga paura sul sellino posteriore e con paura crescente osservava le auto che sfrecciavano attorno a loro, mentre sfidavano il traffico su quel trabiccolo di alluminio e a pedali. Non di rado, chiudeva gli occhi e si concedeva una preghiera, nei giorni in cui le auto erano troppe. Ma Anna era un’ottima pilota e non si erano mai fatte neppure un livido. Schivava ogni ostacolo con un’abilità sovrannaturale.

Proprio in tandem erano arrivate, quel mercoledì pomeriggio, ed Eva sentiva ancora i muscoli delle gambe indolenziti. Era fuori allenamento, avrebbe fatto meglio ad andare a correre, ogni tanto, ma la corsa era uno sport che non aveva mai amato, neppure da giovane. Così portava pazienza, quando le toccava la prova suprema della pedalata con Anna. Era tutta salute, in fondo.

«Eva, ti sei addormentata? O hai deciso di tradire il tuo maritino con qualche bel lombricone?»

La voce dell’amica la riportò sulla terra, con un sorriso. Sempre uguale, lei, sempre a gridare le cose che più la imbarazzavano, per farsi sentire da tutti. «Stavo ammirando il tuo lavoro, tesoro» rispose, abbozzando una linguaccia che forse Anna non avrebbe visto per la distanza.

Invece Anna la vide. «Ma che lingua lunga che hai, nonna... cosa mi vuoi fare?» Risero assieme.

Avesse avuto una prof di chimica come lei, quando era al liceo! Allora forse Eva avrebbe studiato la materia sul serio, invece di fingere prima delle interrogazioni. Certo che era proprio difficile per lei immaginarsi Anna dietro a una cattedra, a fare lezione... Chissà cosa ne pensavano i suoi studenti?

Lasciandosi alle spalle il campo e i lombrichi al lavoro, Eva tornò verso l’amica, attraverso la terra ancora brulla e giallastra. Terra che forse, un giorno, sarebbero riusciti a far rinascere.

Fedele Innocenti, intanto, si era rimesso e aveva rimesso a sufficienza da poter fingere che ora tutto andasse bene e che fosse una giornata come le altre. Circa. Non fu difficile ingannare i collaboratori più stretti, come l’ingegner Sala, che non si accorse proprio di nulla, ma non era una impresa di cui vantarsi: a Sala interessava la salute del prossimo tanto quanto la salute degli indigeni dello Zambia e probabilmente in vita sua non aveva mai pronunciato le parole «come va?», al di fuori dei classici convenevoli per cominciare una discussione. In ogni caso, non si accorse che il collega Innocenti aveva qualcosa di strano, sul lavoro. Meglio così.

Se ne accorse però all’uscita, a fine pomeriggio. In ascensore con loro si ritrovarono proprio un paio di architetti: Baiocchi e Manovali. Chiacchieravano tra loro del progetto ancora in corso e neppure li salutarono, ma a Fedele fu sufficiente vederli, per impallidire e appoggiarsi alla parete metallica, fissando il pavimento con uno sguardo poco rassicurante.

«Uè, starai mica male, eh?» gli chiese Sala, osservandolo con un vago allarme negli occhi. «Perché non hai mica una bella faccia te, scusa se te lo dico.»

«No no, tutto bene» rispose Fedele, piegando un angolo della bocca in quello che poteva passare per un abbozzo di sorriso. «Sarà un po’ di pressione bassa... la stanchezza... ma non è niente. È stato un attimo un po’... così. Tutto a posto.»

Anche Baiocchi e Manovali si erano girati verso di loro, interrompendosi. «Come va? C’è qualche problema?» chiese Manovali, un po’ preoccupato.

Faresti meglio a preoccuparti per te, pensò Fedele, in un rigurgito di sensi di colpa. Tutto sommato, avrebbe preferito dover denunciare qualcuno come l’architetto Baiocchi, o anche il suo caro collega Sala. Nelle ultime due settimane, invece, aveva finito per conoscere fin troppo bene Manovali e le sue attività, i suoi interessi, la sua vita privata. Molto meglio se fosse rimasto l’architetto anonimo di prima, semplice nome senza storia e dll volto sfocato. Si sforzò di produrre un sorriso più convincente.

«Va tutto bene, va tutto bene, non vi preoccupate» rispose. Baiocchi si girò subito, alzando le spalle, e Manovali lo imitò un attimo dopo, con un’ultima occhiata interrogativa verso Fedele Innocenti. Il caro collega Sala, invece, lo aveva già cancellato da un pezzo e controllava le novità sul cellulare.

Uscire dall’azienda fu un sollievo. Quando le porte della metropolitana si furono chiuse dietro di lui, si sentì crollare almeno tre quintali dalle spalle. Niente sogghigni sadici dell’amministratore, niente colleghi architetti da vendere ai superiori, niente segretari che lo fissavano in modo strano, niente di niente: solo il fresco buono dell’aria condizionata, l’indifferenza degli altri viaggiatori e il rumore di fondo degli schermi televisivi. Raccontavano di un nuovo processo in corso, in cui il popolo doveva scegliere la sentenza più giusta col televoto, in tutta libertà. Storia vecchia, ogni settimana ce n’era uno diverso. Fedele Innocenti spense il cervello e si consegnò al dondolio del vagone, sua personale incubatrice in materiali plastici, dove smarrirsi felice dal mondo.

Scese automaticamente alla sua fermata, percorse come in sogno il tunnel pedonale, con la testa che galleggiava in un mare bianchissimo di nuvole e quasi inciampò nelle scale mobili, rischiando una non prevista rinoplastica sulla gomma dura che copriva il suolo. Questo lo svegliò.

«Non posso entrare in casa così, Eva mi mangia» si disse, e aveva ragione. Già altre volte lo aveva sottoposto a un terzo grado da poliziotto inquisitore, solo perché era tornato a casa con una pessima cera. Cioè praticamente ogni volta che aveva concluso un lavoro di quel tipo. Come avrebbe reagito stasera, trovandosi uno zombie in salotto? Sparandogli alla testa, forse?

Si fece da parte, appoggiandosi al muro della galleria, proprio accanto alla pubblicità di una nuova auto, e respirò a fondo. Non poteva rimettersi in forma in due minuti, ma almeno poteva sforzarsi di essere presentabile come al solito, o almeno non troppo peggio del solito. Poi forse avrebbe usato la classica scusa del lavoro impegnativo, magari tirando il collo a un parente prossimo di qualche altro collega. Poteva andare, con un po’ di impegno.

Quando credette di essere resuscitato, si lasciò trasportare dalla scala mobile fino in superficie, poi percorse quei metri afosi che lo separavano dal portone di ingresso, allenandosi in un passo elastico e naturale. Si studiò il volto nel riflesso di vetro della porta e lo trovò passabile. Si tolse di tasca le chiavi, aprì la complicata serratura di sicurezza, respirò a fondo ancora una volta e si avviò.

Cominciava già a sentirsi meglio, quando la mano gli afferrò un pantalone.

Il primo impulso fu di avere un infarto e risolvere il problema nel più semplice dei modi, crepando con un piede dentro e uno fuori dal condominio. Ma il suo cuore non era d’accordo e lo spedì dritto al secondo impulso, che per molti versi era peggiore del primo. Abbassò lo sguardo, per scoprire chi o cosa fosse che lo aveva afferrato. E magari anche il perché.

Una mano, naturalmente. Piccola, sudicia, olivastra. Tendente al marrone, anzi. Una mano che certo non vedeva una manicure da molto tempo, o forse non l’aveva mai vista. L’analisi fredda e accurata, da spettatore distaccato o da coscienza eterea e disincarnata, si concluse quando la mano lasciò il pantalone e corse assieme al resto del suo proprietario all’interno del condominio, passi rapidi e delicati sul marmo lucido. Era entrata. Qualunque cosa fosse, era entrata.

E l’aveva fatta entrare lui!

Il proprietario della mano, che adesso poteva vedere meglio, era una bambinetta di sette o otto anni al massimo. Come abbigliamento e struttura fisica, poteva ricordare qualcosa che un tempo si usava nei campi per spaventare i corvi, ma l’odore tendeva di più all’animale selvatico o al cassonetto dei rifiuti. Almeno basandosi alla scia che si lasciava alle spalle. Peggio, era palesemente non italiana. Quindi immigrata. Quindi clandestina. Quindi illegale.

E lui le aveva aperto la porta. E le videocamere di sorveglianza lo avevano ripreso di sicuro. Non c’erano giustificazioni per scamparla. Sarebbe finito molto peggio dell’architetto Manovali, per un reato simile. Un incidente involontario? Non per lui. Non era ancora abbastanza in alto nella scala sociale, per farla franca. L’ultima promozione lo aveva innalzato nell’ambito scaglione di reddito esentasse, il che lo rendeva un prescelto tra i comuni mortali, ma il vertice della piramide stava ben al di sopra della sua testa, e i gradini da fare restavano tanti. Fedele Innocenti aveva privilegi, ora, ma non aveva potere. Ed era questo a fare la differenza, quando c’era di mezzo un reato.

Quindi, se voleva scamparla, doveva distruggere le prove.

Fu sufficiente a smuoverlo. Con una falcata che da quasi vent’anni non ricordava di avere, Fedele si lanciò all’inseguimento del suo crimine. Puntava verso le scale, quella mocciosa, ma con il colpo di reni di un giovane velocista riuscì ad afferrarla per un braccio, appena prima che salisse sui gradini. Aveva il fiatone, Fedele, e il cuore gli suggeriva di non fare più mosse del genere, ma al momento non aveva importanza. L’importante era farla sparire, prima di finire all’inferno. Si sentiva in colpa per Manovali, d’accordo, ma non intendeva espiarla con la galera.

«Esci subito, qui non ci puoi stare!» le disse, trascinandola verso il portone.

La bambina scoppiò a piangere.

«Taci!» la pregò sottovoce, cercando di tapparle la bocca. Con uno strattone l’aveva staccata dalla ringhiera e adesso se la tirava dietro, nel modo meno rumoroso possibile. Il che era comunque più rumoroso di quanto lui avrebbe desiderato. Perché gli era capitata anche questa? Cosa aveva fatto di male? Non bastava l’amministratore? Fedele avrebbe voluto piangere, in quel momento. Si sentiva a pochi metri da una crisi di nervi e forse quei pochi metri li avrebbe percorsi molto presto.

«Adesso mi tocca pure portarla in caserma, se non voglio grane. È l’unica, per uscirne pulito. E non è detto che basti, se si mettono a fare le carogne...»

Parlava in parte da solo e in parte alla bambina, senza aspettarsi che lei lo capisse. Era una straniera e di sicuro non sapeva l’italiano. Cosa poteva parlare, arabo? Francese? Ci voleva sua moglie, in un momento come quello: lei almeno avrebbe saputo come trattare coi bambini! Ma non l’avrebbe mai, mai e poi mai coinvolta in quel pasticcio. Adesso, Eva era in casa a finire di preparare la cena e là sarebbe rimasta, senza sapere cosa stesse accadendo nell’atrio. Doveva sbrigarsela da solo, Fedele, e sbrigarsela in fretta. Prima che spuntasse qualcuno.

Faticando e sbuffando, riuscì a trascinare la bambina fino al portone e ancora la teneva, anche se lei si agitava come un serpente. Solo due o tre passi, poi poteva quasi considerarsi in salvo. Far entrare un clandestino era un reato grave; trovarlo per strada e portarlo in caserma, invece, era un gesto che indicava un profondo senso civico e carità cristiana, come diceva don Fausto ogni domenica.

Proprio per questo gli si gelò il sangue, quando alle sue spalle sentì: «Buonasera, signor Innocenti.»

Era arrivato qualcuno. Era arrivato qualcuno e lo aveva sorpreso sul luogo del delitto, con in pugno l’arma ancora sporca di sangue. Game over.

Fedele Innocenti si girò con le lacrime agli occhi. Era finito. La sua vita era finita. Quel tesoro di suocero, l’avvocato Bianchi, avrebbe preteso e ottenuto la sua testa, per questo. Coinvolgere la sua figlioletta innocente in un reato tanto grave? Roba da falliti, ovvio. La terra gli scorreva via da sotto i piedi e lui era morto. Morto. Nessun santo lo avrebbe salvato.

Ai piedi delle scale, dall’altra parte dell’ingresso, c’era Luca Tarca che lo fissava. Era perplesso? O sorpreso? O preoccupato? Impossibile da capire. Non lo conosceva abbastanza da saper leggere le sue espressioni. E poi quel Tarca era un vero enigma ambulante. Come doveva rispondergli lui? Lo avrebbe denunciato, il vicino? O poteva appellarsi alla sua bontà d’animo e riservatezza, per farsi aiutare a risolvere quel pasticcio? Lo aveva già aiutato una volta, in fondo: avrebbe fatto il bis?

«Le ho detto buonasera, signor Innocenti» ripeté Tarca, fissandolo. «Qualcosa non va, forse? Scusi se glielo dico, ma non ha una bella cera. Forse...»

Con una lentezza straziante, Tarca abbassò lo sguardo dal volto di Fedele vero la sagoma minuta e scura che lui stava cercando di nascondere dietro di sé. La bambina scelse proprio quel momento per un nuovo gemito soffocato. Tatca non disse nulla, mentre Fedele si scioglieva in stress e sudore.

«Ah, capisco. Non l’avevo notata, subito» commentò infine.

«Non l’ho fatta entrare io, sia chiaro» si difese subito Fedele. «Cioè, era qui intorno, credo, ma poi quando ho aperto la porta mi è sgusciata dentro. Stavo cercando di portarla fuori, prima che...»

«Prima che qualcuno la vedesse e magari decidesse di denunciarla, pensando male» concluse per lui Tarca, alzando un sopracciglio. «Sì, posso capire la sua disperazione.»

«Mi aiuti, la prego! O almeno non dica nulla, faccia finta di niente, mentre la porto fuori e chiamo una guardia per denunciarla. Altrimenti sono finito, lo sa anche lei!»

«Lo so, lo so. E infatti le assicuro che farò il possibile per aiutarla. L’ultima cosa che voglio è una perquisizione del palazzo e ci sarà di sicuro, se la trovano qui dentro» aggiunse, indicando l’intrusa.

«Cosa possiamo fare, allora?» Dopo il primo momento di adrenalina, adesso era il panico a dare gli ordini nella testa di Fedele Innocenti. Ancora qualche minuto e sarebbe subentrato l’istinto e così si sarebbe condannato da solo, facendo qualcosa di incredibilmente stupido a cervello spento. Luca Tarca glielo leggeva molto bene, negli occhi.

«Prima di tutto, usciamo di qui. Allontaniamoci dalle telecamere, fermiamoci da qualche parte in un tunnel pedonale e poi ne potremo parlare con calma. Ci manca solo che scenda anche Eva, adesso. Siamo già messi abbastanza male noi due, così...» gli disse, parlando a voce bassa.

Quel nome bastò a ricondurre Fedele sulla strada della razionalità. Eva non doveva scoprirli. A ogni costo, in ogni caso, Eva non sarebbe finita in mezzo a quella storiaccia. No. Non lei.

Luca Tarca lo raggiunse accanto al portone, ancora socchiuso. «Non la stringa così, non la deve stritolare. È sufficiente tenerla perché non scappi» disse, guardando la bambina. «Ma intanto usciamo, qualsiasi posto sarà più sicuro dell’ingresso del condominio. Poi penseremo al resto.»

«Sì, sì, questo è certo.» Il pensiero del dopo era distante dalla coscienza di Fedele Innocenti, quasi quanto lo era la costante della forza di gravità sulla terza luna di Saturno: doveva uscire, uscire e poi far sparire ogni traccia dell’intrusa. Il resto era secondario.

Con una mano sulla spalla della bambina, Tarca aprì il portone, guardò cauto all’esterno e poi uscì, seguito da Fedele e dall’ospite indesiderata, stretta tra loro. Fuori, l’afa del tardo pomeriggio li prese a randellate, schiantandoli dopo il fresco artificiale del condominio. Pessima stagione, l’estate; più brutta ancora era l’estate in città. Ma non c’era tempo per il clima.

Infilarono in fretta la scala mobile, verso il regno sotterraneo dei pedoni e una nuova bolla di fresco, più rarefatta ma tutto sommato più sopportabile, in quel momento. Davanti a loro, correva il tunnel che portava alla stazione della metropolitana, tra manifesti colorati e verdi rose celtiche. Ai lati, altri tunnel si aprivano, verso palazzi, edifici, luoghi pubblici e mille mete diverse. Lì sotto era quasi un alveare, o un formicaio. Per la prima volta, l’immagine si affacciò alla mente di Fedele e gli diede un brivido fuori stagione. Un immenso formicaio di cemento e plastica, luccicante e colorato.

Ma era deserto. In quel punto dell’intestino urbano esistevano solo loro tre. Si incamminarono nella prima galleria che videro, per allontanarsi dal condominio e da eventuali conoscenti. Dopo qualche decina di metri si fermarono, sotto la larga pubblicità di una nota catena di supermercati. Adesso si poteva parlare, adesso il pericolo era più astratto, non alitava caldo sul loro collo.

«Va meglio ora?» chiese Tarca, guardando il vicino.

«Insomma... un po’ meglio.» Fedele Innocenti stava passando da un volto cadaverico a un volto da moribondo. Lo si poteva interpretare come un progresso e così decise di fare Luca. Ancora sudava in modo innaturale, per quell’atmosfera climatizzata, ma per quello c’era poco da fare. Il lampo di panico selvaggio, che gli brillava negli occhi poco prima, al momento si era dissolto.

«E adesso cosa propone di fare con quella bambina?» gli chiese, indicandola con un cenno.

«Cosa fare? Ma la portiamo in caserma! Cosa ci vorrebbe fare?» Fedele guardava il vicino come se dalla sua testa fosse spuntato un cucù.

Tarca sorrise appena. «In questo modo la condannerà a morte, lo sa?»

«Morte? Ma no, ma... cosa sta dicendo, scusi?»

«Può darsi che sia una di quelle fuggite alla retata di dieci giorni fa. Chissà da quanto non mangia» mormorò Tarca tra sé, fissando la bambina. Rialzò lo sguardo verso Fedele. «Non si ricorda il testo dell’ultima legge sull’immigrazione clandestina? È stato approvato dal popolo nel dicembre scorso, se ricordo bene. Probabilmente l’avrà votata anche lei» disse, con un vago sarcasmo nella voce.

Fedele sbatté più volte le palpebre, cercando di raccogliere le idee. Dopo il primo istante di calma, in cui tutto sembrava essere tornato a posto, quel dialogo con Tarca gli stava di nuovo mandando in crash il cervello. «La legge, beh... certo che l’ho votata, era un mio dovere. Però... cosa vuole, sono passati mesi, non me la ricordo a memoria. Ma diceva qualcosa su un rimpatrio per i clandestini, o comunque che li avrebbero mandati fuori dall’Italia, o giù di lì. Non si parlava certo di ammazzarli come coi cani randagi, questo è ovvio! Per cui non capisco...»

Tarca scosse adagio la testa. «Non si parlava di rimpatrio. O meglio, si parlava anche di rimpatrio, in un articolo, ma le clausole erano molto precise a riguardo. Potrà controllare lei stesso, quando lo vorrà: si parla di rimozione dal territorio nazionale, così da garantirsi che non possano farvi ritorno una seconda volta. Abbastanza vago, come vede. Nel caso di una bambina come questa, poi...»

«Cosa vuol dire allora, che l’ammazzeranno?» lo interruppe Fedele. «Se è una bambina, a maggior ragione dovrebbe essere rimpatriata, per farla tornare dalla famiglia, dai parenti o quello che ha.»

«Sono d’accordo con lei, ma purtroppo la legge dice altro. Sono d’accordo sul fatto che dobbiamo liberarci di questa bambina, se non vogliamo finire in galera, ma portarla in caserma non sarebbe la scelta migliore. Per noi forse sì, glielo concedo, ma non certo per lei.» E accennò all’intrusa, tra loro.

La bambina, intanto, non capiva nulla di quanto stessero dicendo sopra di lei. Capiva solo che degli sconosciuti grandi e grossi la tenevano ferma, che aveva fare e che voleva tornare dalla mamma. Per questo, cercò di spiegarsi nell’unico modo che avesse: agitandosi e provando a urlare.

Fedele la tenne più stretta, aiutato da Tarca. «Senta, io la volevo portare in caserma, ma lei mi dice che sarebbe una pessima idea e io sono disposto a crederle. Non so perché, ma glielo concedo. Però mi dica lei cosa dobbiamo farci, con questa! Mica la possiamo tenere qui per sempre!»

Tarca sospirò. «Già, non possiamo ma se è disposto a fidarsi di me, possiamo fare così. Invece che in caserma, perché non la portiamo da un’altra parte? Ci sono persone che si occupano di casi come questo, volontari, e lo fanno in modo molto più civile dei soldati delle ronde. Un gruppo è proprio qui nel quartiere. Consegniamola a loro, poi si preoccuperanno di trovarle...»

«Cosa state facendo, voi due?»

La voce autoritaria si abbatté su di loro, pietrificandoli. Non avevano più controllato la strada ed era stata un’imprudenza. Una grossa imprudenza. Un’imprudenza fatale. Perché quando Tarca alzò gli occhi, si trovò di fronte la vasta figura di Carlo Sovrani, camicia verde e mitra spianato. Fedele notò come in sogno che la sicura non era inserita. Era un pessimo sogno, un passo accanto all’incubo. La scena che viveva sempre nell’atrio, quando incrociava il suo vicino armato, adesso era realtà.

«Cosa state facendo voi due?» ripeté con lo stesso tono.

Tarca studiò con la coda dell’occhio Fedele. Era in tilt. Se la conversazione era servita a calmarlo un poco, la comparsa di Sovrani lo aveva ricacciato nel baratro del terrore. Non poteva contare su di lui, era al tappeto e pronto per la conta. Prese l’iniziativa, con un sospiro.

«Ho incrociato il mio vicino in metropolitana, mentre tornavo a casa. Abbiamo cominciato a parlare del più e del meno, sa come succede in questi casi, e ci siamo attardati un po’ nel tunnel, invece di rientrare subito. Quando poi siamo saliti, abbiamo trovato questa bambina, che girava qui attorno a provare i portoni. Forse ne cercava uno aperto, non saprei. L’abbiamo presa prima che potesse fare qualche danno e siamo scesi di nuovo qui, per portarla in caserma. Poi Innocenti si è ricordato che avevamo una guardia anche nel nostro condominio e così stavamo pensando se fosse meglio andare subito in caserma, oppure controllare prima se lei fosse in casa. Sa com’è, si intenderà sicuramente meglio di noi, in fatto di clandestini, e magari...»

Lasciò la frase a mezz’aria, mentre studiava il volto di Sovrani. Non che ci fosse molto da studiare, nascosto com’era dalle ombre, dal monociglio e dalla fronte bassa e cupa. Gli avrebbe creduto? Lui si sentiva abbastanza soddisfatto di quella storia, inventata su due piedi, e gli suonava plausibile. Sì, c’erano buone possibilità che la accettasse. Forse. Incrociando le dita.

Carlo Sovrani aveva ascoltato in silenzio il racconto del suo vicino, alternando lo sguardo tra il viso di Tarca e la sagoma della bambina. A Innocenti aveva concesso solo un’occhiata, sufficiente per capire che quel tizio era imbambolato perso e non sarebbe servito a nulla. Era sempre così, quando c’era di mezzo un impiegato in giacca e cravatta. Quando il tizio in maglietta ebbe finito con quel monologo, forse vero e forse no, la palla tornò a lui, a Sovrani. Era lui il Potere, adesso.

Fissò la bambina, poi Fedele Innocenti, infine Luca Tarca. Ripeté il giro un paio di volte. Sembrava riflettere, ma non era facile dirlo. Sotto la sua fronte bassa poteva annidarsi di tutto. «Girava qui attorno, dunque?» chiese alla fine, sollevando un’estremità del monociglio.

«Sì. Era vicino all’ingresso del condominio, forse cercava un modo per entrare» rispose Tarca.

«Uhm... La prenderò in consegna io. Voi rientrate pure nei vostri appartamenti.»

«Ma...» cominciò a dire Tarca.

«Rientrate pure nei vostri appartamenti.»

Carlo Sovrani allungò una mano e afferrò la bambina per un braccio. Fedele e Tarca la lasciarono andare, ancora confuso il primo, solo triste il secondo. La videro dimenarsi e la sentirono strillare, ma un’occhiata di Sovrani bastò a farla tacere. Era paralizzata, come deve essere un topo nelle spire di un serpente. Aveva riconosciuto la divisa e con essa il proprio destino. Sovrani annuì.

« Potete andare. Grazie della collaborazione.»

La sua voce aveva la vitalità di un annuncio in stazione, ma nessuno dei due commentò. Che il loro vicino non fosse particolarmente fornito di senso dell’umorismo, era più che evidente. Che poi fosse pronto ad arrestare anche loro e a portarseli dietro in caserma, o dovunque fosse andato, era ancora più evidente. L’istinto di sopravvivenza suggerì di tacere e voltare le spalle.

«Grazie. E buona serata» disse Tarca, prima di incamminarsi verso le scale mobili e il condominio. Per precauzione, afferrò Fedele per un braccio e se lo tirò dietro, ancora confuso e ancora incerto su cosa stesse succedendo. Doveva essere stata una pessima giornata per lui, ma lo capiva.

Carlo Sovrani li fissò finché non furono spariti. Anche gli straordinari gli facevano fare, quella sera! Colpì la testa della bambina col calcio del mitra, forte; si ficcò sottobraccio il corpo inerte, come un sacco di patate, e girò verso la caserma, di buon passo. Il tunnel tornò vuoto.

Camminò a lungo, Sovrani, come camminava quasi ogni notte, a proteggere il riposo dei cittadini. Una tappa veloce in caserma, per scaricare la clandestina ancora svenuta, firmare un paio di moduli e poi lavarsi e disinfettarsi con la massima cura, perché sono pieni di malattie, quegli animali, e ci mancava solo di pigliarsi una qualche schifezza sul lavoro. Poi, i tunnel della città furono di nuovo suoi. Tutti suoi, nella sera che calava là fuori.

Lisciando la camicia verde, mentre procedeva a passo regolare nell’aria condizionata della galleria pedonale, Carlo Sovrani dedicò un pensiero di condoglianze ai colleghi che dovevano pattugliare la superficie. Il centro non era poi così brutto: c’erano ancora aree pedonali, come attorno al duomo, le vie erano illuminate e più o meno era tutta gente perbene, gente del posto. Il brutto era il resto della città, zone dove potevi andare solo in auto e non era saggio lasciare le vie principali. Succedevano cose molto sgradevoli, laggiù. Fortuna che a lui non sarebbe più toccato, dopo la promozione.

Sul petto gli luccicava la medaglia, per l’operazione di sicurezza conclusa con successo il sabato scorso. Come splendeva, sotto i neon dei tunnel! Se non era stato il giorno più gratificante della sua vita, poco ci mancava. Anche Elena l’aveva perdonato: non aveva potuto portarla all’opera, certo, ma si era rifatto con gli interessi, grazie alla cena di gala con tutte le personalità della regione. E lui, Carlo Sovrani, aveva il tavolo d’onore, assieme agli altri eroi di pace. Sorrise al ricordo.

Chissà se lo avrebbero ricompensato, per l’arresto di quella sera? Forse, o forse no. Non che per lui cambiasse molto. Aveva fatto il suo dovere, grazie a lui la città era un poco più sicura e tutto il resto era solo un sovrappiù, niente di indispensabile. Essere ringraziati faceva sempre piacere, ma non era per questo che lavorava. Lavorava per il bene comune, lui.

Piuttosto, gli interessavano di più quei due tizi, i suoi vicini di casa. Com’è che si chiamavano, poi? Frugò un poco nella memoria, per ripescare le loro identità. Innocenti era quello in cravatta e l’altro era Tarca. Strana coppia, quei due. Avevano trovato per caso la clandestina ed erano lì fuori insieme, quasi all’ora di cena? Sospetto, sospetto. Avrebbe fatto qualche ricerca, più avanti.

Superò l’ennesima scala mobile, nel suo giro di pattuglia. Che cosa sapeva di loro? Innocenti era l’impiegato vestito bene e fuori forma, con la moglie che faceva sempre le scale, sì. Una scelta che Sovrani approvava. Approvava anche la moglie, in effetti, che aveva un bel fisico e non era male, in generale, anche se non aveva tette. Per i suoi gusti, però, era troppo vecchia: gli interessava la prima metà dei venti, non la seconda dei trenta. Carne fresca, niente prodotti stagionati.

Tarca invece era quello che viveva coi genitori, due ruderi del dopoguerra. E uno che viveva ancora coi genitori, a quarant’anni, doveva avere qualcosa di sbagliato. Probabilmente era un finocchio, o qualcosa del genere, e poi si vestiva da pezzente. Ciondolava spesso nell’atrio, ora che ci pensava. Meglio tenerli d’occhio entrambi: ci si poteva aspettare di tutto, da loro, e non era tollerabile che ci fossero crimini proprio in casa sua. Non per lui, Carlo Sovrani.

Tra un pensiero e l’altro, col manganello in vita e il mitra in braccio, raggiunse il limite della zona a lui assegnata. Tutto tranquillo. Dietrofront, via con un altro passaggio. Ripercorrendo i propri passi, nel fresco buono del tunnel, sentì che tutto era perfetto. Il suo spirito si alleggerì. Con trasporto e un sorriso vago, canticchiava tra sé qualche aria della Carmen, imitando nel peggiore dei modi la voce dell’ultimo tenore che aveva sentito. Gli riuscì malissimo, ma nessun critico musicale era nei pressi, per fargli osservazioni tecniche. Anzi, non c’era proprio nessuno.

Nella quiete, dimenticò il lavoro e si lasciò sommergere a poco a poco dal pensiero più gratificante dell’appuntamento con Elena, fissato per il giorno dopo. Dove l’avrebbe portata, stavolta?

E con questa domanda esistenziale, che gli schiudeva innanzi agli occhi nuovi e infiniti orizzonti di speculazioni filosofiche, girò l’angolo, perdendosi nelle luci artificiali del sottosuolo.