Il cacciatore nell’Ade
Un giovane uomo di bell’aspetto e valoroso, che era abile nella caccia, un giorno inseguì un grosso orso nei recessi delle montagne. Avanti e avanti correva l’orso, e ancora il giovane lo inseguiva su vette e scarpate sempre più pericolose, ma senza essere mai capace di arrivargli vicino a sufficienza per colpirlo con le sue frecce avvelenate. Alla fine, sulla spoglia vetta di una montagna, l’orso sparì giù per un buco nel terreno. Il giovane lo seguì là dentro e si ritrovò in una immensa caverna, all’estremità opposta della quale si scorgeva il bagliore della luce. Brancolò lungo la strada in quella direzione e, quando emerse, si ritrovò in un altro mondo. Ogni cosa là era come nel mondo degli uomini, ma più bella. C’erano alberi, case, villaggi, esseri umani. Di tutto questo, però, al giovane cacciatore non importava. Ciò che voleva era il suo orso, che era sparito del tutto. La soluzione migliore sembrava quella di cercarlo nella remota zona montuosa di questo nuovo mondo sotterraneo. Così si inoltrò in una valle; essendo stanco e affamato, raccolse delle bacche e delle more di gelso che pendevano dagli alberi e le mangiò mentre proseguiva la sua marcia.
Quando gli accadde di colpo, per una qualche ragione o un’altra, di guardare giù il proprio corpo, quale fu l’orrore nello scoprire di essersi trasformato in un serpente! I suoi stessi gridi e gemiti, nel fare questa scoperta, erano diventati il sibilo di un serpente. Che cosa poteva fare? Tornare indietro al suo mondo natio, dove i serpenti sono odiati, sarebbe stata morte certa. Nessun piano si presentava alla sua mente. Ma, inconsciamente, lui vagava, o meglio strisciava e serpeggiava, indietro verso l’entrata della caverna che conduceva a casa, al mondo degli uomini; e là, ai piedi di un pino di dimensione e altezza straordinarie, si addormentò.
A lui allora, in un sogno, apparve la dea del pino, e disse: «Mi dispiace di vederti in questo stato. Perché hai mangiato i frutti velenosi dell’Ade? La sola cosa che puoi fare per recuperare la tua forma originaria è di arrampicarti sulla cima di questo pino e buttarti di sotto. Allora potresti, forse, diventare di nuovo un essere umano.»
Svegliandosi da questo sogno, il giovane uomo, - o meglio serpente, come scoprì di essere ancora, - fu per metà pieno di speranza e per metà di paura. Decise però di seguire il consiglio della dea. Così, strisciando su per l’alto pino, raggiunse il suo ramo più alto e, dopo aver esitato per qualche momento, si buttò di sotto. Si schiantò. Quando riprese i sensi, si ritrovò ai piedi dell’albero; accanto a lui c’era il corpo di un serpente immenso, squartato come per consentirgli di strisciare fuori da esso. Dopo aver offerto i propri ringraziamenti al pino, e aver collocato simboli divini in suo onore, si affrettò a ripercorrere i propri passi attraverso la lunga caverna, simile a un tunnel, attraverso cui era originariamente entrato nell’Ade. Dopo avere camminato per un certo tempo, emerse nel mondo degli uomini, per ritrovarsi sulla cima della montagna su cui aveva inseguito l’orso, che poi non aveva più rivisto.
Ritornato a casa, andò a letto e fece un secondo sogno. Era la stessa dea del pino, che apparve davanti a lui e disse: «Sono venuta a dirti che non puoi rimanere a lungo nel mondo degli uomini, dopo aver mangiato una volta le bacche e le more di gelso dell’Ade. C’è una dea nell’Ade che vuole sposarti. È stata lei che, assunto l’aspetto di un orso, ti ha attirato nella caverna e da lì nel mondo infero. Devi deciderti a venire via.»
E così accadde. Il giovane si svegliò; ma una grave malattia lo sopraffece. Pochi giorni dopo, andò una seconda volta nell’Ade e non ritornò mai più alla terra dei viventi.
(Trascritta a memoria. Raccontata da Ishanashte il 22 luglio 1886.)
Commento
Un uomo vivo finisce nel regno dei morti, mangia un frutto e non può più tornare tra gli esseri viventi. Familiare, direi: il mito della Kore dovrebbe essere noto a tutti, almeno a grandi linee, e non credo sia necessario ripeterlo. La presente storia ainu si snoda attorno a due eventi chiave: l’orso che attira il cacciatore nel regno dei morti, attraverso quella che potremmo definire come una variante della caccia rituale, e il protagonista che mangia il cibo dei morti, perdendo così la possibilità di tornare indietro nel mondo dei vivi. Osserviamoli meglio uno alla volta.
La caccia rituale è un motivo che ricorre in innumerevoli storie di tutto il mondo o quasi. C’è una persona che dà la caccia a un animale, o almeno che crede di stare inseguendo l’animale. Scoprirà poi che l’animale si è fatto inseguire apposta dal suo cacciatore, per condurlo da qualche parte o per mostrargli qualcosa. Nelle storie delle isole britanniche e dintorni, l’animale è di solito un cervo, spesso bianco, e il cacciatore finisce nel paese degli elfi, oppure incontra la regina delle fate: in un modo o nell’altro, insomma, finisce in un mondo diverso, spesso collegato all’aldilà. Nel nostro racconto ainu, il cacciatore finisce nell’aldilà, senza mezzi termini, inseguendo l’orsa che si è fatta inseguire da lui.
L’aldilà degli ainu è descritto quasi sempre come uguale al nostro mondo, ma molto più bello. In teoria dovrebbe essere sotterraneo, ma in pratica ci sono cielo, sole e tutto il resto. Vi si accede passando per una qualche galleria sotterranea, ma una volta arrivati si è di nuovo sotto il cielo. Che probabilmente non è lo stesso cielo che copre il mondo dei vivi, ma sono dettagli. Nell’aldilà degli ainu si vive esattamente come nel nostro mondo, incluso il bisogno di mangiare. Se sei un vivo, però, non devi mangiare: mangiando, entrerai a far parte della comunità dei morti e non te ne potrai più liberare, perché condividere un pasto è anche condividere un destino. La commensalità era alla base della vita in un clan, dopotutto.
Il nostro cacciatore mangia ed è subito trasfigurato: diventa un enorme serpente, animale ctonio per eccellenza, che anche gli ainu collegano al sottosuolo (e al fulmine, nonché al fuoco, ma questo è un altro discorso). Come tornare umano? La dea del pino, altro albero sacro, gli dice fondamentalmente che, mangiando quei frutti, è diventato un morto: per tornare come prima, deve morire come morto. Una logica contorta, ma non troppo: se muori come vivo, diventi morto, quindi se muori come morto diventi vivo. Più o meno. Sia come sia, il cacciatore riesce a tornare umano, ma è un sollievo di breve durata: ha mangiato il cibo dei morti e adesso appartiene ai morti, è loro congiunto, e non c’è più posto per lui tra i vivi. Pur avendo recuperato il suo aspetto di essere vivente, morirà di nuovo nel giro di pochi giorni, tornando nel regno dei morti in forma definitiva.
Si potrebbe aprire una lunghissima discussione sul cacciatore che diventa in apparenza un enorme serpente. Diventerebbe ancora più lunga prendendo in considerazione il fatto che la trasformazione in serpente sembra avvenire solo in apparenza: dopo essersi buttato dall’albero, si risveglia umano e trova accanto a sé un enorme serpente, sventrato come se lui ne fosse appena uscito. Un modo per entrare nel regno dei morti, frequente sia nelle storie che negli antichi riti di iniziazione, consisteva nell’essere inghiottiti da un animale, in particolare un serpente. Che sia questa l’idea alla base della trasformazione apparente del cacciatore? Come dicevo, se ne potrebbe discutere a lungo, ma magari in un’altra sede.
Accennerò soltanto a un aspetto piuttosto curioso in questa scena. Uno dei modi per indicare un serpente in lingua ainu è kinasut (il più comune è però okokko): Kinasut Kamui è il nome del serpente primordiale, che sarebbe sceso sulla terra sotto forma di fulmine per seguire la dea del fuoco di cui era innamorato. Così almeno ci racconta una storia ainu. La parola kinasut, però, indica anche un tappeto arrotolato: kina è infatti un termine generico per indicare un certo tipo di erba, ma si può anche usare per un tappeto ottenuto intrecciando questa erba, mentre sut significa qualcosa che è stato arrotolato per farne un fagotto. Gli ainu avevano l’abitudine di seppellire i morti dopo averli avvolti in un tappeto, che funzionava un poco come le nostre bare. La trasformazione in serpente esprime dunque la tumulazione del cacciatore? Il serpente sventrato è il tappeto funebre da cui si è liberato grazie al consiglio della dea del pino? Potrebbe, ma questa è solo una mia interpretazione, non necessariamente corretta.
L’orso inseguito dal cacciatore era in realtà una divinità che ha attirato l’uomo nel suo mondo, perché lo voleva sposare. Sorvolando sulla interpretatio che trasforma in Ade il paese ainu dei morti, di per sé una cosa parecchio diversa dall’Ade greco, non è così strano che una divinità, un kamui, possa abitarvi. La cosmologia ainu non è sempre chiara o priva di contraddizioni, almeno nella forma in cui è arrivata a noi, e almeno alcune di queste contraddizioni potrebbero essere dovute appunto alle libere interpretazioni degli europei che hanno raccolto le storie, cercando di farle coincidere con le idee che avevano in testa. Sia come sia, il kamui mosir, il mondo delle divinità, corrisponde in molte storie al regno dei morti, o almeno al posto in cui, dopo la morte, andranno gli ainu che in vita si sono comportati meglio. Non un paradiso come lo potremmo concepire noi, perché la discriminante per l’accesso non è tanto morale, ma più che altro legata al corretto svolgersi dei riti funebri, e in alcune storie sono accettati tutti: paradiso o meno che sia, è comunque un bel posto, in cui si vivrà meglio, la caccia sarà sempre fortunata e i problemi del mondo dei vivi non esisteranno.
Abbiamo dunque un kamui, un’orsa, che si innamora di un umano e lo attira nel paese che le altre divinità condividono coi morti. La morte come amante che rapisce il suo amato o la sua amata, per celebrare un matrimonio nel regno dei morti, è un motivo che, sotto varie maschere, troviamo in un gran numero di storie: pensiamo solo a tutte le fiabe in cui la principessa di turno è rapita dal mostro di turno, che la conduce in un luogo inaccessibile da cui l’eroe di turno la dovrà salvare, superando mille prove. Sono tutte storie che, alla base, hanno il viaggio nel regno dei morti: possiamo dire che seguono l’esempio delle storie di Persefone o di Orfeo ed Euridice, oppure possiamo dire che anche quelle storie sono esempi di uno schema più generale. Davvero, su questo racconto si potrebbe parlare a non finire, perché i collegamenti con altre culture e le possibili interpretazioni di ogni tipo non mancano, ma è meglio limitarsi a questi accenni, validi tutt’al più come spunti di ricerca.