L’esperienza dell’Ade di un uomo curioso
Tre generazioni prima del mio tempo, viveva un ainu che voleva scoprire se le storie raccontate sull’esistenza di un mondo infero fossero vere. Così un giorno penetrò in una immensa caverna (da allora spazzata via dalle onde) alla foce del fiume Sarubutsu. Tutto era buio davanti a lui, tutto era buio dietro di lui, ma alla fine c’era un barlume di luce più avanti. L’uomo proseguì e presto emerse nell’Ade. C’erano alberi, e villaggi, e fiumi, e il mare, e grandi barche caricavano pesce e alghe marine. Alcune delle persone erano ainu, altri erano giapponesi, proprio come nel mondo di tutti i giorni. Nel loro numero c’erano alcuni che lui aveva conosciuto quando erano vivi. Ma, benché lui li vedesse, loro – strano a dirsi – non sembravano vederlo. In effetti era invisibile a tutti, eccetto che ai cani: perché i cani vedono ogni cosa, anche gli spiriti, e i cani dell’Ade abbaiavano contro di lui con ferocia. Per questo la gente del posto, ritenendo che un qualche spirito malvagio fosse arrivato tra loro, gli gettavano cibo sporco, come quello che mangiano gli spiriti malvagi, allo scopo, come pensavano, di farlo contento. Ovviamente lui era disgustato, e gettava via le sporche lische di pesce e il riso marcio. Ma ogni volta che faceva così, quella roba gli ritornava immediatamente nella tasca sul suo petto, così che era davvero infastidito.
Alla fine, entrato in una casa piuttosto bella vicino alla spiaggia, trovò suo padre e sua madre, - non vecchi come erano quando morirono, ma nel pieno della giovinezza e della forza. Chiamò sua madre, ma lei corse via tremando. Afferrò suo padre per la mano e disse: «Padre! Non mi riconosci? Non riesci a vedermi? Son tuo figlio.» Ma suo padre cadde a terra urlando. Così rimase di nuovo in disparte e guardò come i suoi genitori e l’altra gente nella casa sistemassero i simboli divini e pregassero per far andare via lo spirito malvagio.
Nella sua disperazione per non essere riconosciuto, se ne andò, con le offerte impure che erano state fatte a lui ancora attaccate al suo corpo, nonostante tutti i suoi sforzi per liberarsene. Fu solo quando, dopo avere attraversato di nuovo la caverna, fu emerso ancora una volta nel mondo degli uomini, che quelle cose lo lasciarono libero dalla loro contaminazione. Ritornò a casa e non desiderò mai più di vedere di nuovo l’Ade. È un posto schifoso.
(Trascritta a memoria. Raccontata da Ishanashte il 22 luglio 1886.)
Commento
Come i morti sono spettri per i vivi, così i vivi sono spettri per i morti. Questa è una convinzione che ritroviamo espressa più volte nel folklore ainu. Vivi e morti conducono una esistenza quasi identica, anche se i morti di solito se la passano meglio, perché non conoscono il dolore, la povertà e la vecchiaia: i vivi abitano nel mondo di superficie e i morti nel mondo sotterraneo, che è una versione migliorata del mondo di superficie. O almeno così ci racconta questa storia, anche se altrove si possono trovare differenze nella geografia dei vari mondi. Il punto rilevante è comunque che vivi e morti non possono mescolarsi: un vivo è invisibile ai morti, è uno spettro, proprio come un morto è uno spettro invisibile per i vivi.
Soltanto i cani possono vedere gli spettri e segnalare la loro presenza: i cani dei vivi sono capaci di vedere i morti, mentre i cani dei morti sono capaci di vedere i vivi. Non è escluso che anche altre specie possiedano questa capacità, ma i cani erano gli unici animali domestici veri e propri che gli ainu avessero, in passato, per cui nelle storie sono soltanto loro a funzionare come radar, per localizzare gli spettri. Vero, anche una certa specie di gufo era considerata come protettrice dei villaggi, perché col suo verso notturno scacciava le minacce soprannaturali, ma è un altro discorso e comunque i gufi erano animali selvatici. Sia come sia, quando un cane abbaia e non si vede alcuna causa per il suo comportamento, significa che ha visto uno spettro e ci vuole avvisare dell’intruso. Starà poi a noi agire di conseguenza.
In questa storia, l’azione degli uomini consiste nell’offrire cibo impuro al presunto spettro, dove per “cibo impuro” si intende ogni tipo di schifezza più o meno alimentare e non necessariamente commestibile per un essere umano. I rifiuti, insomma: le cose che non si potevano o non si volevano mangiare. Perché? Perché sono convinti di farlo contento. Le schifezze che gli lanciano sono offerte che dovrebbero placare lo spirito inquieto. E questo è piuttosto curioso, per più motivi.
Da un lato, gli ainu erano convinti che i cattivi odori allontanassero demoni e variazioni sul tema. Erbe e piante dall’odore intenso erano utilizzate per cerimonie di esorcismo, ma anche i materiali biologici di scarto potevano funzionare a questo fine, se necessario. Lanciare immondizia contro uno spettro potrebbe rientrare in questo tipo di pratiche, volendo: lo esorcizzo disgustandolo. In alternativa, potrebbero anche essere offerte fatte in buona fede, ma seguendo una logica capovolta: siccome i morti sono l’opposto dei vivi (e i vivi sono l’opposto dei morti), a loro sono offerti cibi che sono l’opposto di quelli mangiati dai vivi, ossia dalla categoria “normale”.
Nel suo The Ainu and their folk-lore, Batchelor ci riassume una storia che forse è proprio questa, oppure una sua variante. La troviamo a pagina 572 e si conclude con una sorta di morale, che forse apparteneva alla storia stessa o forse è stata aggiunta come commento o spiegazione a beneficio di Batchelor dal narratore. La morale, in ogni caso, è che noi dobbiamo trattare con rispetto i fantasmi che visitano il nostro mondo, invece di offrire loro soltanto scarti di cibo: se li trattiamo male, infatti, anche loro si offenderanno e si arrabbieranno, proprio come il protagonista della storia. E se gli spiriti si arrabbiano, potrebbero esserci conseguenze spiacevoli per tutti. La versione presentata qui da Chamberlain è più semplice e non ha una morale conclusiva, se non forse che è meglio non essere troppo curiosi di certe cose.