La galassia di Madre - 105
Passarono circa tre settimane prima che Rafael Thoreau riuscisse a incontrare Leonardi. Quasi tutti i giorni si recava di mattina ai palazzi dell’Ufficio per la Colonizzazione, chiedeva di poter vedere il grande capo, riceveva una risposta negativa a volte accompagnata da una qualche scusa, trascorreva un altro po’ di tempo a girare per il posto, chiacchierando con vecchi colleghi quasi dimenticati, una specie ormai avviata all’estinzione per sopraggiunti limiti cronologici ma non ancora scomparsa, si concedeva un passaggio veloce (o a volte non veloce) dalla zona di ricreazione, a bere qualcosa e a dare una occhiata alle brutte facce che lo infestavano, infine si arrendeva e usciva a mani vuote, con la speranza sempre più illusoria che la volta successiva la storia sarebbe cambiata..
All’uscita, nella piazza gli capitava spesso (ma non sempre) di incontrare di nuovo quel vecchio dai capelli a cespuglio, grigi e striati di bianco, che lo aveva aiutato il primo giorno. Si fermava a fare due chiacchiere anche con lui, non perché a Thoreau interessasse davvero, ma perché il tempo era la sua merce più abbondante e in un qualche modo la doveva pure consumare. Quel vecchio non era la persona più interessante che il pianeta Terra avesse mai prodotto, ma era sempre meglio che fissare un muro e comunque Thoreau non aveva davvero nulla da fare con la propria vita.
«Sono anch’io un vecchio pensionato solitario che deve tirare sera dove e come gli capita,» pensava nei momenti di maggiore sconforto, che erano decisamente troppi per i suoi gusti. E non era giusto, non secondo lui, ma era così e non poteva farci niente, perché niente dipendeva da lui. Gli avevano rubato il suo lavoro su Madre, lo avevano rispedito sulla Terra e adesso lo lasciavano ad ammuffire in un angolo. Non ti preoccupare, ti troveremo qualcosa da fare noi, vedrai. Non vogliamo sprecare le tue grandi doti e la tua preziosa esperienza. Sei una risorsa molto importante per l’Ufficio. È nel nostro interesse valorizzarla al massimo, davvero. Dicevano.
Ma intanto la risorsa molto importante passava le proprie giornate a vagare da un punto all’altro di una città che non riconosceva più e in cui era costretto a vivere di nuovo dopo quasi trent’anni, nelle sue ore c’era soltanto vuoto, vuoto e ancora vuoto, ed era persino costretto a chiacchierare in piazza coi vecchietti in pensione, gente con un futuro luminoso dietro di sé e il nulla su ogni altro lato. Che era più o meno la sua stessa condizione. Non un bel pensiero, ma un pensiero vero.
Che cosa stava succedendo su Madre, il luogo che continuava a pensava come casa? Ada Bapchuck era ancora al suo posto, oppure avevano trasferito (o cacciato) pure lei? Thoreau non lo sapeva. Pur passando quasi ogni mattina all’Ufficio, di notizie da Madre non gliene arrivavano. Era isolato da tutto, o così si sentiva. E non era bello. Non era bello per niente. Non dopo quasi tre decenni che, se non proprio al centro di tutto, lo avevano visto almeno ai piani alti dell’amministrazione su Madre.
Come ulteriore passatempo (o perditempo che dire si voglia) si era dedicato alla ricerca dell’insetto che gli era capitato di vedere il primo giorno. Lo aveva incuriosito. Era una specie che, per quanto ne sapesse lui, non doveva esistere sulla Terra. Viveva su Madre. Proveniva da Madre. O almeno la specie era originaria di Madre: se poi qualche esemplare fosse riuscito a infilarsi sulla Terra, magari a prosperare sul nuovo pianeta, era un altro discorso, che Thoreau trovava molto interessante. Ma anche piuttosto preoccupante, in realtà. Anzi, molto preoccupante.
C’era sempre da preoccuparsi quando le specie di un pianeta finivano a infestare un altro pianeta. Succedeva di rado. Gli esempi si potevano contare sulle dita della mano e non avevi bisogno di riciclare qualche dito. Per innestare una specie su un pianeta differente da quello nativo era di solito necessaria qualche modifica, come era già successo con svariati vegetali e animali allevati a scopo alimentare. Anche l’uomo aveva avuto bisogno di qualche aggiustamento, anche se di solito si era trattato di vaccinazioni, modifiche alla dieta e poco altro: i pianeti da colonizzare li avevano scelti apposta per essere il più possibile compatibili con le abitudini umane, dopotutto.
Le specie che si adattavano spontaneamente alla vita su altri mondi erano rare, ma esistevano e non portavano mai nulla di buono. O così dicevano i (rari) precedenti. Per questo a Thoreau non piaceva l’idea che nei palazzi dell’Ufficio girassero liberamente insetti provenienti da Madre. Per questo ne aveva cercato di catturare un esemplare, per scoprire se fosse solo una somiglianza causale, oppure un vero immigrato clandestino. E dopo diversi giorni senza risultati, ne aveva catturato uno. Anche se catturato non era il verbo più adatto. In realtà lo aveva spiaccicato accidentalmente, posando una tazzina senza guardare: un evento tanto improbabile che doveva essere un segno del destino. O così la voleva pensare Thoreau, per consolarsi del fallimento parziale nella sua caccia.
Ma un fallimento parziale è anche un successo parziale e così aveva raschiato con cura tutti i resti di quell’esemplare, li aveva riposti nella scatoletta che aveva imparato a portarsi in tasca, era tornato a casa (o all’alloggio facente funzione di, perché nella sua mente la parola casa era ancora identica al pianeta Madre e lo sarebbe rimasta per chissà quanto) e aveva cercato di capire tutto il possibile dal mucchietto deprimente di materiale organico. Non aveva capito quasi nulla, ma ancora sperava che un giorno lo avrebbe potuto consegnare ai suoi colleghi su Madre, dove forse avrebbe avuto grande impatto o forse no. Poteva essere davvero una cosa importante. O forse era soltanto un modo in cui un vecchio in pensione forzata cercava di aggrapparsi alla vita che aveva conosciuto per decenni.
Era un pensiero deprimente, ma un pensiero che Thoreau doveva forzarsi a pensare. La sua ricerca e finale cattura (per così dire) dell’insetto potevano essere solo un altro segno di quanto la solitudine e l’inattività forzata gli stessero facendo male. Non era detto che fosse davvero una specie originaria di Madre. Non era detto che avesse davvero chissà quale significato importante. Non era detto e lui di certo non lo avrebbe detto, perché sperare che un insetto spiaccicato fosse importante era la sola cosa che gli fosse rimasta per sentirsi vivo, anche su un pianeta che non conosceva più e in mezzo a gente ignota, che neppure lo degnava di uno sguardo.
Ma alla fine incontrò Leonardi, come si diceva all’inizio. L’appuntamento era stato fissato per metà pomeriggio e Thoreau si era presentato con un anticipo così largo che sarebbe bastato per altri dieci incontri. Aveva ripassato tutto ciò che avrebbe dovuto dire, i punti su cui premere, quelli che invece era meglio evitare e aggirare, i risultati che aveva ottenuto durante il suo lungo periodo su Madre e i risultati che ancora avrebbe potuto ottenere, se solo lo avessero lasciato lavorare per un altro poco. I giovani erano una risorsa ed era giusto dare loro spazio, ma anche i meno giovani erano una risorsa e non sarebbe stato saggio sprecarli, giusto? E poi, suvvia, come può un ultracentenario accusare un settantenne di essere troppo vecchio per un incarico? Con che coraggio?
Può, se l’ultracentenario è Leonardi. Thoreau lo sapeva e sapeva anche che l’età non era il problema reale. Non lo era neppure la qualità del lavoro che lui aveva svolto. Il problema era il messaggio che aveva inviato a Kaya Farrell, quello in cui dichiarava la propria opposizione alle politiche del gran capo vecchissimo, quello in cui aveva anche elencato altri membri della presunta fazione ostile. In che modo fosse finito tra le grinfie di Leonardi non lo sapeva, ma in un qualche modo c’era finito e adesso era scattata la purga. Irreversibile, ovvio, ma un tentativo lo doveva pure fare. E un tentativo lo avrebbe fatto. Con una tranquillità tachicardica, Thoreau entrò nell’ufficio del boss supremo.
Lo trovò rattrappito dietro la scrivania, come la mummia di un avvoltoio spennato. Tamburellava le dita sulla superficie di legno, in un trrup-trrup quasi snervante anche dopo pochi secondi, ma che ti prometteva di diventare una tortura dopo una decina di minuti. Thoreau cercò di ignorare il suono. I suoi occhi erano fissi su Leonardi, che mille voci volevano moribondo ma la sola realtà continuava a presentare vivo e vegeto. Non in ottima forma, ci mancherebbe altro, ma vivo sì. Anche troppo.
O, per dirla in altri termini, vivo purtroppo e pure troppo.
«Si accomodi, mio buon Thoreau. La aspettavo.» E accennò alla sedia vuota. Sorrideva, o almeno le sue zanne artificiali erano esposte, ritirate le labbra rinsecchite. Spettacolo sconsigliabile a stomaco pieno. Thoreau lo avrebbe sconsigliato in qualunque condizione di stomaco. Si accomodò, pur non sentendosi né buono né soprattutto suo, specie se il referente del possessivo era Leonardi.
«Sono qui per parlare della revoca del mio incarico su Madre,» cominciò, ma una mano di mummia scattò subito a interromperlo, dita puntate al soffitto, palmo rivolto a lui. Fermo!
«Nessuna revoca, sia chiaro. Nessuna revoca. Trasferimento per sopraggiunti limiti di età, assieme a un necessario ripensamento della struttura di governo e amministrazione della nostra colonia. Lei ha svolto per noi un ottimo lavoro, mi creda, veramente ottimo, ma si ritiene che, purtroppo, il tipo di condotta che lei ha mantenuto con successo per oltre due decenni non sia più appropriata ai tempi e alle correnti che attraversano la galassia di oggi. Le sue innegabili qualità potranno essere utilizzate in modo migliore se applicate in un ruolo più adatto alla società attuale. Per quanto notevole, ahimè, il suo metodo di lavoro su Madre non appare più il migliore possibile, oggigiorno.»
E bla e bla e bla, di nulla in nulla, di passivo in mediopassivo. Leonardi proseguì per altri cinque e più minuti con la sua tiritera, modulata sulle stesse note, varianti invariabili dello stesso copione, il cui significato fuori di metafora e senza infiocchettature arrivava fin troppo chiaro alle orecchie di Thoreau: fuori dalle palle, non ci servi più. O, meglio ancora, non ti vogliamo più. Aggiungendo un bel “verme traditore” da qualche parte, che fa sempre la sua porca figura.
Lo avrebbe potuto frenare, forse. Lo avrebbe dovuto frenare, forse. Ma perché? Non ne avrebbe mai ricavato nulla di diverso. Leonardi aveva deciso e la decisione era irrevocabile, immutabile, come le decisioni di Leonardi sono sempre, quando fa comodo a lui. Adesso faceva comodo a lui. Certo non a Thoreau, ma Thoreau cosa contava? Quanto contava? In una prospettiva a lungo termine, su di un piano galattico, quale era il suo peso? Inferiore a quello di una cacca di mosca. E dunque...
Provò lo stesso, timidamente. Rispediti in faccia gli furono gli appelli alla lunga militanza; rigettati e vomitati i riferimenti al lavoro da concludere, le cose da sistemare, ricerche in sospeso. E il vago e disperato appello ai tempi della seconda spedizione, tempi eroici e mitologici come pochi altri? Le orecchie di Leonardi forse non lo registrarono neppure. Ascoltava una voce sola, il vecchiaccio, e la voce era quella che gli parlava nella testa, Leonardi che istruiva Leonardi a nome di Leonardi. Ora e per sempre, in tutti i secoli dei secoli. O quello che è.
Alla fine la diga mentale di Thoreau cedette. «È per il mio messaggio, vero? Il messaggio e i nomi, vero? Abbia almeno la decenza di ammetterlo, a questo punto.»
Leonardi sembrò sorpreso. «Messaggio? Quale messaggio? E quali nomi, di grazia?»
Thoreau lo avrebbe strangolato. Anzi, ci pensò davvero. Perché non farlo? Cosa aveva da perdere? E cosa da guadagnare? Se il direttore Gemelos aveva ragione, nessuno avrebbe rimpianto il vecchio, almeno all’Ufficio. Se fosse scattato sopra la scrivania, allungando le braccia, per stringere le mani attorno a quel collo da tartaruga anoressica, e stringerle bene, affondare i pollici a fracassare trachea e quant’altro fosse necessario fracassare per strangolare qualcuno (Thoreau non conosceva l’arte di strangolare, ma le sue competenze biologiche gli suggerivano che bloccare in via definitiva il canale attraverso cui passava l’aria era un buon metodo nella maggior parte delle forme di vita animali). Se lo avesse fatto. Se. Se. Cosa sarebbe successo?
Fantasmagorie di tempi migliori gli attraversarono la mente, miraggi di folle festanti e gioiose che si caricavano in spalla l’eroe e lo portavano in trionfo. Occhi colmi di lacrime e gratitudine sollevati a fissare Thoreau, il buon vecchio Thoreau: Armodio e Aristogitone racchiusi in una sola persona, dal fisico da ragioniere ma lo spirito da colosso. Strangola il vecchiaccio, libera la galassia dal tumore che la divora, spezza le catene che vincolano Prometeo alla roccia. Reagisci!
Ma non lo fece, ovviamente. Le mani si strinsero, ma si strinsero su se stesse, dita affondate verso i palmi, unghie tagliate corte corte che erano contente di essere corte, perché altrimenti c’era anche il caso che potessero recidere la pelle e far scorrere il sangue, quello sbagliato. Non accadde, perché Thoreau era uomo preciso e meticoloso in tutto, o così amava considerarsi; certo lo era quando si trattava di manicure. Così nessun danno fisico gli venne, ma tanta rabbia senza valvole di sfogo.
«Nessun messaggio,» disse infine. «Pensavo ad altro.»
L’invincibile vecchione passatista sorrise. «Ad altro, già. Ad altro. Sarà il cambio di clima, cambio di abitudini, cambio di tutto. Dovrà adattarsi alla vita su un pianeta diverso, che poi è il suo vecchio pianeta, il suo pianeta originario. Giornate più brevi, gravità più alta, tante cose che distraggono e la confondono, certo, certo. È comprensibile, comprensibile. Succede a tutti. Il ritorno è sempre duro.»
Non restava molto da dire, o meglio sì, restava parecchio da dire, restava tantissimo, ma Thoreau lo lasciò restare. Meglio tacere. In fondo, parlare con certi individui non era molto diverso dal parlare da soli, almeno se si guardava ai risultati. Perché non c’erano risultati, appunto. Così sospirò, chiuse per un attimo gli occhi desiderando con forza che Leonardi sparisse, li riaprì trovandosi di fronte la faccia da mummia asfittica del vecchiardo, dragò dal fondo della propria mente le meno offensive e più innocue tra le parole di circostanza che gli riuscì di trovare, ringraziò (di cosa? Di niente, solo la più pura delle funzioni fatiche), si alzò, si accomiatò. Uscì.
Leonardi mostrò di nuovo i denti, adesso alla stanza vuota. Non che cambiasse molto. Prima l’aveva riempita un ominide vuoto, adesso lo spazio occupato da quel sacco di aria usata era tornato all’aria. Nessuna differenza, appunto. Ma un guadagno considerevole in termini di ossigeno.
Era stupido, quel Thoreau, così stupido da non accorgersi neppure di essere stupido. Che in fondo si trattava della stupidità maggiore, la sola degna del nome di stupidità. Secondo la filosofia del prode Leonardi, chi è consapevole della propria stupidità non è davvero stupido: incapace e inetto, magari, ma una persona che può comunque funzionare, se le trovi incarichi adeguati alle sue capacità. È chi non si considera stupido a essere davvero degno dell’appellativo di stupido. Gente come la maggior parte dei suoi dipendenti, insomma. E in fondo li aveva scelti apposta così. Erano più facili da usare e gestire. Una politica che funzionava sempre.
O quasi sempre, fu costretto a correggersi. A volte anche i migliori potevano commettere un errore. A volte persino lui aveva commesso errori. Hass era stato un errore, ma non troppo grave. Si poteva ancora rimediare e lui stava rimediando. Il rimedio consisteva principalmente nel ripulire e rivedere i reparti che si erano lasciati infettare: lavoro facile, quando ti aiutavano stupidi come Thoreau.
Ma basta pensare a quell’omiciattolo! La Blakely gli aveva presentato in mattinata i risultati dei test condotti attorno a Giove. Le tecniche predisposte per sondarne il nucleo aveva funzionato meglio di quanto lui si sarebbe oggettivamente aspettato, considerati i tempi stretti. A conferma che, per avere un buon risultato, devi premere, premere e ancora premere, fino a che i tuoi tirapiedi non sono quasi schiacciati dalla pressione. A volte si rompono, d’accordo, ma non è importante: l’importante è che i risultati ci siano. Stavolta i risultati c’erano stati. Così aveva agito da magnanimo, quasi filantropo, e aveva concesso loro un altro poco di tempo. A breve sarebbero stati pronti per i giganti gassosi di Madre. Per i giganti e per le strutture organiche nel loro nucleo.
Leonardi sospirò. La sua copia che era stata in missione su Madre era tornata e lui aveva recuperato le memorie. Non gli erano piaciute. Oh, certo, la copia si era comportata bene, niente da dire: anche lui avrebbe fatto le stesse scelte, in quelle circostanze. Erano le circostanze a non piacergli. Erano le nuove richieste di Madre a non piacergli. Era ciò che aveva dovuto concedere a non piacergli. Erano le implicazioni a non piacergli. Era la sensazione di avere sbagliato anni prima a non piacergli.
In effetti, erano tante le cose che non piacevano a Leonardi, ma il nuovo accordo era al momento al vertice delle spiacevolezze, davanti persino a Svarga. Per una volta si trovava al tavolo assieme a un avversario di cui non poteva leggere le carte in mano, a disputare un gioco di cui non conosceva che una parte delle regole. E lo aveva scoperto soltanto dopo essersi seduto al tavolo, soltanto dopo aver distribuito le carte e avere puntato. Adesso poteva solo rilanciare. E rilanciare. E rilanciare. Magari bluffare, anche. Non che bluffare fosse un problema per Leonardi. Raccontare balle gli era sempre venuto naturale, specie quando c’era qualcosa da guadagnare. E adesso c’era molto da guadagnare.
Perché sul piatto c’era ormai tutto, e forse anche qualcosa in più.
Dunque doveva scoprire le regole che ancora non conosceva. Doveva guardare le carte in mano al suo avversario. Doveva sapere. Perché qualcosa sapeva, ma erano frammenti e non erano frammenti belli. Era un puzzle di cui mancavano ancora alcuni pezzi. Ai tempi della seconda spedizione aveva pensato che fossero pezzi marginali, di contorno, magari una scheggia di cielo, uno scorcio di prato, quello che era. Adesso si era accorto che erano pezzi centrali.
Che giocassero pure alla loro battaglia navale, quegli scemi del consiglio di amministrazione! Che si divertissero a muovere le pedine sulla loro scacchiera di cartapesta! Come se contassero qualcosa, come se il loro gioco contasse qualcosa. Occupare un palazzo? Sistemare un direttore in un ufficio? Non contava. Non aveva alcun valore. Era aria fritta. Leonardi li lasciava fare: almeno se ne stavano fuori dalle palle. Aveva visto come si era ridotto il direttore Gemelos e ne avrebbe quasi riso, se non fosse troppo patetico anche per le risate. Burattino davvero! Burattino così cieco da non accorgersi neppure di tutte le mani che gli infilavano per manovrarlo. Uno stupido, come si diceva pocanzi.
Tamburellò le dita sulla scrivania. Trrup-trrup-trrup. Il messaggio di Hass, ora, era un altro discorso e un discorso che gli toccava affrontare davvero. Peggio ancora, esisteva almeno una possibilità che gli toccasse perfino dargli ragione. Leonardi esaminò meglio l’ultimo pensiero. No che non doveva dargli ragione. Perché mai? È vero, almeno su una piccola frazione del problema Hass non si era del tutto dimostrato in errore, d’accordo, questo ci poteva stare, ma era una parte diversa, una parte che sì, forse poteva anche essere correlata al centro del discorso, ma lo era in via del tutto accidentale. Il riconfermato ministro Hass non aveva ragione: era solo meno in errore di quanto lui avesse pensato in un primo momento. Sì, così funzionava meglio. Leonardi riprese a tamburellare le dita.
Quel patetico ladro svarghiano sarebbe andato su Madre a tenere la sua patetica conferenza. Aveva provato a discuterne, ne aveva discusso, ma alla fine era stato costretto a cedere. Madre aveva le sue ragioni per richiederlo. Non erano le ragioni di Leonardi, ma erano ragioni e come tali possedevano una propria ragione interna. Quel Muzafar Chang o come cavolo si chiamava sarebbe arrivato sul pianeta, avrebbe fatto la sua chiacchierata ridicola e poi sarebbe tornato su Svarga, tutto tronfio e soddisfatto. E con una fregatura in tasca. Era una consolazione: non grande, ma c’era.
Ma non era poi così consolante. Perché Leonardi non era stupido. E pensava. Pensava che se Madre poteva fare quello scherzo a Svarga, allora lo poteva fare anche a qualsiasi altro pianeta. Anche alla Terra. Ricontrollò il messaggio di Hass, si alzò, camminò zoppicando un poco fino alla finestra, allo sguardo che gli apriva sulla città. Era stata una metropoli che tendeva verso il cielo, secoli prima; lo era molto meno adesso, sia metropoli che tendente al cielo. Erano i tempi che cambiavano.
Sapeva di essere stato il più prudente possibile, ma sapeva anche che una prudenza totale non esiste mai, proprio come non esistono piani infallibili o soluzioni perfette. Esistono solo approssimazioni, tentativi, e il buon capo non è chi pianifica tutto, ma chi pianifica quanto basta per mantenersi uno o due passi sopra gli eventi, pronto a correggere la rotta in ogni istante. E lui era stato sempre un buon capo. Ma lo era ancora?
Per la prima volta (a sua memoria) da quando si era lanciato in quella avventura, più di settant’anni prima, Leonardi scoprì di non possedere una risposta certa e affermativa. Forse, e dovere anche solo pensare la possibilità gli costava uno sproposito, forse aveva commesso un errore. Forse erano due gli errori. Una cifra enorme. Sapere che, nel caso, gli errori li avevano commessi le sue copie e non lui in persona non era una consolazione così grande, anche se aiutava.
Esaminò ancora una volta il messaggio di Hass. Leonardi sospirò. Sì, forse era opportuno fissare un incontro. Dopodiché, scoprire cosa ci fosse davvero al centro di quei giganti gassosi. E prepararsi al peggio. Magari se ne poteva ricavare comunque qualcosa di positivo. Ma era il caso di accantonare almeno provvisoriamente il progetto di utilizzare Madre per allungare la propria vita fisica. Quello sì sarebbe stato un errore. Il resto, tutto il resto, era una manovra che aveva un suo perché. Sempre se lo si guardava dalla corretta prospettiva, beninteso.
La prospettiva da cui Thoreau stava guardando adesso ogni cosa non era forse giusta, ma di perché ne aveva parecchi e tutti possedevano lo stesso nome: Leonardi. Non lo aveva neppure ascoltato, la vecchia capra! Peggio, lo aveva sommerso di scemenze, aria fritta, baggianate, retorica, e mancava solo una orchestrina di sottofondo per completare il quadro di patetismo sconfinato dell’incontro. A saperlo prima, e se fosse stato più realista lo avrebbe saputo prima davvero, si sarebbe risparmiato la perdita di tempo. Non che avesse molto altro da fare col proprio tempo, d’accordo, ma questa non era una buona ragione per mangiarsi il fegato davanti al vetusto sciacallo.
Così perso nei propri pensieri, impiegò quasi due minuti ad accorgersi che qualcuno cercava di farsi notare da lui, agitando un braccio e camminandogli accanto. Poi Thoreau lo notò. Era il vecchio, il pensionato, quello con cui chiacchierava ogni tanto. Com’è che si chiamava? Un rapido viaggio nei settori meno usati della memoria gli squadernò un nome, o più precisamente un cognome, che forse poteva essere corretto. Ajibade. Qualcosa Ajibade. Sì, era moderatamente convinto che fosse il suo nome. O almeno il nome con cui si era presentato, quando lo aveva accompagnato alla fermata.
Thoreau si girò verso di lui e sorrise. «Buongiorno, signor Ajibade. Posso fare qualcosa per lei?»
Il vecchio dalla pelle scura gli sorrise in risposta. «Le ho già detto che può chiamarmi Matthew, non c’è bisogno di essere così formali. Io non sono una persona importante come lei.»
Persona importante, sì. Thoreau scosse internamente la testa. Era proprio una persona importante, di sicuro. Così importante che si doveva anche spolverare da solo, adesso che lo avevano gettato via in una cantina. Qualunque cosa fosse stato anche solo un paio di mesi prima, adesso non c’era grande differenza tra lui e un anziano pensionato come il signor Ajibade, che apparentemente si chiamava Matthew. Unica differenza reale era probabilmente l’entità della pensione che ricevevano: l’Ufficio non era stato troppo spilorcio. Leonardi doveva proprio essere contento di levarselo dalle palle.
Ajibade lo fissava preoccupato. «Qualcosa non va, Professore? Brutte notizie da casa?»
Professore: lo chiamavano quasi tutti così, fino a poco tempo prima, quando era ancora su Madre a dirigere il proprio reparto. Sentirselo dire adesso era deprimente. Ma quel vecchietto lo faceva senza cattiveria e Thoreau non se la sentiva di protestare. «No, no, niente brutte notizie da casa,» rispose. «Sarebbe anche piuttosto difficile, sa. Non c’è nessuno che possa mandarmi brutte notizie, a casa: ci sono rimasto solo io. Ma alla nostra età succede.»
Ajibade annuiva comprensivo. «Eh, già, capisco. E poi comunque è una cosa che riguarda lei, non la voglio certo importunare. Chiedevo solo perché mi sembrava piuttosto giù, forse mi sbaglio io.»
Non si sbagliava lui. Thoreau si sentiva più o meno dalle parti del quindicesimo piano sotterraneo e ancora in piena discesa, ma non erano cose che poteva spiegare al signor Ajibade. Brava persona e molto generosa, per carità, ma era solo un vecchietto che incrociava di tanto in tanto per strada, una conoscenza di passaggio, e comunque non poteva certo mettersi a parlare con lui di problemi e altre scemenze di politica interplanetaria e palle varie. Sospirò.
«Mah, sa, è stata solo una discussione che ho avuto con un ex collega, che mi ha lasciato un poco, come dire, amareggiato, capisce. Niente di importante. Divergenza di vedute, ecco. Divergenza di vedute. Cose così. Niente di importante, davvero.»
Ajibade annuiva. «Già, capisco. Succede anche a me, ogni tanto. Del tipo che io dico verde e quello capisce rosso. Sì, una storia fastidiosa, quando capita.»
Thoreau sorrise. «Nel mio caso è più che io dico verde e lui mi tira un pugno nello stomaco, ma sì, è una cosa del genere. Molto, molto fastidioso.» Scosse la testa. Fastidioso era un eufemismo, ma un eufemismo andava più che bene, nelle circostanze. Anche se lo avevano cacciato, lui non si sarebbe mai messo a raccontare i fatti dell’Ufficio al primo che passava. Aveva pur sempre una immagine da difendere e la fedeltà al suo gruppo era un qualcosa (non necessariamente un pregio, ma qualcosa) che ormai era diventata parte di lui, parte di quello che era. Aveva la bocca sigillata, lui.
Vero, aveva raccontato ad Ajibade di avere lavorato molto a lungo su Madre. Vero, gli aveva anche raccontato di essere stato un professore universitario, nella vita precedente (era così che ormai stava imparando a pensare il periodo lavorativo, terminato forse del tutto). Vero, il vecchietto gli si era da quel momento appiccicato proprio per curiosità, perché voleva sentire storie di quel mondo ignoto, su cui non era mai stato. Thoreau raccontava volentieri. Non erano segreti di stato. Che su Madre la struttura di governo fosse divisa almeno in due fazioni, invece, era molto più vicino a essere segreto di stato, e comunque non certo un argomento di cui parlare col primo che passa.
Storie curiose e buffe sulla vita nella colonia, tuttavia...
Così Thoreau trascorse il resto del pomeriggio assieme all’innocuo vecchietto, parlandogli di come fosse lavorare su Madre, quali strani animali gli fosse capitato di studiare, altri aneddoti divertenti o meno sugli specializzandi che gli capitavano, i colleghi, questo e quello. Non perché davvero avesse voglia di raccontare, ma perché aveva voglia, anzi bisogno di distrarsi, di pensare ad altro, qualsiasi cosa che non fosse il recente colloquio con Leonardi. Ajibade ascoltava e sorrideva, sul suo volto il doveroso fascino che ogni ascoltatore deve mostrare mentre una persona colta e importante lo onora concedendogli il privilegio di condividere assieme a lui piccole briciole della propria vita.
Come ogni altro giorno, si concluse con Ajibade che insisteva per offrire un caffè al gentile Thoreau e Thoreau che si scusava, non era necessario, davvero, ma guardi che insisto, le sue storie sono così interessanti, mi pare il minimo, ma no, davvero, non c’è bisogno, sono solo raccontini, piccole cose da niente, si figuri, insisto proprio. Bevevano il caffè e Thoreau pagava, sentendosi nobile e buono, un vero cavaliere d’altri tempi, anche se il caffè non è che fosse proprio squisito, ma sempre meglio della roba che gli toccava bere su Madre. Poi si salutavano e ognuno per la propria strada.
La strada di Thoreau lo condusse all’alloggio che gli avevano assegnato, dopo un paio di cambi e un viaggio non del tutto scomodo sui mezzi pubblici. Prendeva sempre mezzi pubblici, anche se poteva permettersi di meglio. Era un modo per restare a contatto col proprio io, non montarsi la testa e dire che, nonostante tutto, lui restava sempre la stessa persona. O così amava pensare, perché ammettere l’alternativa, cioè che era soltanto una vecchia abitudine senza significato, gli pareva deludente. E al gentile signor Ajibade non avrebbe pensato più, fino al prossimo incontro accidentale.
Pensava invece a Leonardi e al lavoro che gli aveva rubato. Pensava anche alla carcassa di insetto, o ai resti della carcassa di insetto, che conservava ancora al freddo. Avrebbe dovuto farne qualcosa, lo sapeva, ma non sapeva cosa farne e soprattutto come farla. Spedirla su Madre, dove Ada Bapchuck o chi per lei l’avrebbe potuta analizzare: questo il progetto, in termini generali, ma come attuarlo? I normali mezzi di comunicazione non gli piacevano più. Non se ne fidava più, dopo i guai in cui era finito dopo il messaggio a Kaya Farrell. Se spediva qualcosa adesso, all’ombra dell’Ufficio, chissà dove sarebbe finito e chi ci avrebbe messo il naso. E quindi?
Alla fine scelse una strada non facile, ma certo più sicura, se funzionava. Avrebbe contattato Hass, il ministro, e si sarebbe fatto consigliare qualcosa da lui. Anzi, se possibile, avrebbe scaricato tutto il problema a lui: se il ministro della Difesa non lo sapeva risolvere, allora nessuno ci sarebbe riuscito. O così pensava Thoreau, a ragione o torto. Lo contattò la sera stessa, debitamente in chiaro perché il concetto di crittografia gli risultava ancora alieno, e Hass non rispose. Rispose al suo posto qualche dipendente del ministero, che lo ringraziò per l’interessamento e lo congedò con la promessa che si sarebbero fatti sentire più avanti. Thoreau lo considerò un ottimo risultato.
Controllò di nuovo in frigorifero, più per abitudine che per scrupolo. I resti miserabili dell’insetto si conservavano bene, in apparenza. Non che in effetti ci fosse molto da confermare e non era sicuro che quel poco sarebbe servito a qualcosa, ma tentare doveva e poi chissà, ai primi tempi su Madre si erano trovati a dover lavorare in condizioni ancora peggiori. Allora ci avrebbe messo la firma, per un insetto spiaccicato ma così ben tenuto. Quindi sì, tutto sarebbe andato per il meglio, il ministro si sarebbe occupato di spedire su Madre i resti e un qualche esperto di insetti li avrebbe esaminati. Se non ci fossero stati imprevisti, era moderatamente convinto di poter ricevere una risposta entro due o tre mesi al massimo. Erano bravi, i suoi ex dipendenti.
Dei due messaggi che il ministro Hass ricevette il giorno dopo, fu quello di Thoreau a preoccuparlo di più. Che Leonardi avesse accettato l’incontro era previsto: imprevedibile era almeno in parte ciò che avrebbe detto o fatto all’incontro, ma Hass non aveva avuto alcun dubbio che si sarebbero visti. Il vecchiaccio aveva bisogno di parlare con lui tanto quanto lui aveva bisogno di parlargli, anche se quasi di certo per motivi assai diversi. No, l’incontro non era mai stato in dubbio.
Thoreau era un imprevisto. Era anche un imbecille, perché non aveva la minima idea di cosa fosse la segretezza o anche solo la sicurezza, e neppure le brutte esperienze con Leonardi glielo avevano insegnato, ma certa gente era fatta così e bisognava imparare a sopportarle e sforzarsi per ridurre il danno che causavano. Ma il contenuto del messaggio era molto più preoccupante della sua forma e su questo il ministro si doveva fermare a riflettere. Un insetto madriano. Nei palazzi dell’Ufficio.
Era la prima volta che ne sentiva parlare. Sarebbe stato un problema anche se si fosse trattato di una specie innocua e normale, ma Hass sospettava che non fosse una specie innocua e normale. Non se proveniva da Madre e non se era arrivata all’Ufficio solo di recente. Dopo il viaggio di Leonardi sul pianeta, per caso? Un ricordino che avevano portato a casa? Ecco un altro argomento interessante e di cui avrebbero parlato nell’incontro imminente. O almeno di cui lui avrebbe parlato: che Leonardi dicesse qualcosa era tutto da dimostrare, nonché piuttosto improbabile. Non qualcosa di utile, per lo meno, e non qualcosa che Leonardi avrebbe preferito tenere nascosto.
Restava da pensare all’insetto. Avrebbe dato ordine che fosse preso in consegna e inviato su Madre, magari alla ex assistente di Thoreau o a qualche altro superstite del suo gruppo. Dettagli di cui altri si sarebbero occupati per lui. Il problema reale era l’esistenza dell’insetto e cosa potesse significare la sua presenza sulla Terra. Con ogni probabilità Leonardi ne era consapevole e consenziente, ma se per caso non lo fosse stato (difficile da immaginare, ma ipotesi che meritava di essere considerata), allora la situazione sarebbe cambiata di parecchio. Per la prima volta Hass si sorprese a pensare che forse la decisione di isolare Madre non era poi del tutto sbagliata, anche se sbagliati erano i motivi di Leonardi. Forse, e in una direzione diversa, era addirittura saggio.
Ma ne avrebbero discusso nel loro incontro, anche se il vecchiaccio avrebbe di sicuro cercato di non discuterne. A meno che non gli tornasse comodo, ovvio, ma aveva ancora tempo per prepararsi e il ministro Hass era convinto di poter fare un ottimo lavoro, o almeno un lavoro buono a sufficienza per ciò che desiderava ottenere. Sorrise.
Poi pensò agli insetti che trovava spesso sulla finestra di casa e non sorrise più. Leonardi sapeva e approvava, questo era indubbio, ma forse non sapeva tutto ciò che c’era da sapere, e questo era assai preoccupante. Anzi, togli il forse: quasi di sicuro non sapeva tutto. Madre non avrebbe detto tutto. A essere sinceri neppure lui sapeva tutto, anzi era probabile che sapesse ancora meno del vecchiaccio, ma aveva sospetti, tanti sospetti, e a volte i sospetti sono sufficienti. Aveva anche una figlia, e aveva visto più di Leonardi, anche se forse sapeva meno. E dunque...
A cosa servivano gli insetti? Riceveva regolarmente i risultati delle ricerche condotte su Madre e gli ultimi suggerivano un possibile uso degli pseudotafani come rete di sorveglianza. Il ministro Hass non lo poteva escludere, anche se sapeva che non era la loro funzione principale: Madre li usava per prima cosa per raccogliere materiale genetico, il resto era al massimo un comodo extra. Ma quelli che si trovavano sulla Terra a cosa servivano? A raccogliere anche loro? Oppure...
Meglio ordinare a Thoreau di inoltrargli subito il suo esemplare. Prima lo faceva arrivare su Madre e prima avrebbe ottenuto una risposta. Non la sola risposta che attendesse, ma forse la più urgente. I giganti gassosi erano importanti, ma la loro importanza si proiettava verso un futuro distante milioni e milioni di anni, se i sospetti che avevano lui e Leonardi erano fondati. Gli insetti invece potevano essere un pericolo immediato. Specie se gli esemplari trovati sulla Terra non servivano a prelevare, ma a depositare. Che fosse quello il nuovo accordo tra Leonardi e Madre?
Il ministro Hass temeva che, per una volta, il vecchiaccio fosse stato fregato. E molto più di quanto pensasse. Il che non sarebbe stato male, in teoria. Peccato che non sarebbe stato il solo a pagarne le conseguenze, in quel caso.