Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 108

Matteo Kori spese il resto del pomeriggio in un locale a ridosso della spiaggia, circondato da altre persone che ritenevano di avere avuto la giornata rovinata dal cadavere in spiaggia. Erano meno di quante se ne sarebbe aspettato, date le circostanze, ma sufficienti per affollare la stanza non troppo spaziosa e ancora meno accogliente. Un buco, come tutta la città, ma un buco in cui la gente andava a bere e a chiacchierare quando era stanca del sole, o magari quando riteneva di avere qualcosa di cui discutere e non abbastanza orecchie da riempire. Quel pomeriggio di cose da discutere non ne mancavano. Era stato un giorno di pesca grossa in mare. Pesca pesante.

E un giorno di militari. Matteo li aveva visti arrivare quando aveva ritrovato la stabilità di stomaco necessaria ad avvicinarsi di nuovo al cadavere a riva. Come raccontavano i coloni, quando accadeva qualcosa di strano i militari accorrevano a sciami, come mosche attorno ai materiali che le mosche prediligono. Era andata proprio così. Avevano requisito (o preso in custodia) il corpo, mentre un ufficiale spiegava a nessuno in particolare e a tutti in generale come le correnti fossero anomale in quel periodo, e di disgrazie ne capitano sempre, ma è normale amministrazione e al resto avrebbero pensato loro, grazie della collaborazione, eccetera eccetera. Matteo si era mantenuto per un poco nei paraggi, fingendosi un ombrellone di passaggio, ma nei paraggi non c’era alcunché da sentire e così si era lasciato trasportare dalla corrente umana quando il grosso della folla si era disperso.

Amir. Che cosa ci faceva Amir su Madre? Soprattutto, che cosa ci faceva morto su una spiaggia di Madre? Non molto, a parte decomporsi e nutrire i pesci, ma il punto era: come ci era finito? Matteo non lo sapeva, ovviamente, ma i sospetti non mancavano, incluso quello di essersi sbagliato. Perché sì, assomigliava ad Amir, ma i pesci o qualunque altra cosa vivesse nei mari di Madre se lo erano lavorato un poco e le morti subacquee non favoriscono la corretta conservazione dei cadaveri. Era simile allo Amir che ricordava, ma la somiglianza poteva essere un inganno. Doveva esserlo. Non in virtù di una qualche spiegazione logica, ma solo perché non poteva accettare che fosse quello vero, che pure lui fosse finito assieme a Davide su Madre e... tutto il resto, sì.

Si era infilato nel locale dopo avere vagato a casaccio sulla spiaggia per almeno una mezz’ora e non averne ricavato nulla, neppure uno straccio di ragionamento logico o anche solo una scottatura sulle spalle. Berci sopra non lo avrebbe aiutato, ma almeno era un modo per passare il tempo e poi non sapeva proprio cos’altro fare, a parte tornare all’alloggio e attendere gli altri, ma l’attesa all’alloggio sarebbe stata ancora più deprimente e allora tanto valeva starsene almeno in mezzo ad altra gente e fingersi un tipo sociale. O giù di lì.

Ma in quel locale parlavano tutti e parlavano tanto. Parlavano del cadavere trovato quel giorno e dei precedenti, perché c’erano stati precedenti, altroché. Lo diceva il barista e annuivano due o tre fra il pubblico di clienti. Era il quarto quell’anno, secondo uno di loro. No, era il sesto. Secondo il barista erano sette, più altri due che forse sì, ma magari no, li avevano trovati loro per primi e si sa com’è che finisce, eh? Loro erano ovviamente i militari: Matteo non aveva neppure bisogno di chiedere. Il che era un bene, perché aveva deciso di ascoltare e basta, se possibile senza farsi notare. Gli stava riuscendo così bene che lo avevano ignorato tre volte anche quando aveva cercato di ordinare.

Chiedevano altri, villeggianti di passaggio come lui, forse alla prima esperienza a Bidonia, sempre come lui. Ce n’erano tanti? E come succedeva? Cosa succedeva? Succedeva spesso? E perché? Ma è pericoloso? Non è che...

Non è che. Il barista scuoteva la testa, tutto serio. Capelli giallicci, cornee giallicce, denti giallicci e pelle gialliccia, era un spettacolo già di suo e il modo in cui raccontava aggiungeva quel tocco quasi da storia di fantasmi attorno al fuoco. Spiegava, spettegolava, raccontava. Non era che, a qualunque “che” si riferissero. Gente che affoga ce n’è sempre nei posti di mare e le correnti, si sa, fanno cose strane, magari erano affogati da un’altra parte ma te li portavano tutti lì, chissà perché, scherzi della sorte, succede, no? Non tutti sembravano affogati, d’accordo, ma lo erano anche loro. Affogati. Era la sola spiegazione. Era la spiegazione dei militari. E strizzava l’occhio giallastro.

E giù tutti ad annuire. Dei militari, si sa. Sorrisetti scaltri attraversavano il pubblico come una fuga di metano intestinale. Affogati, ovvio. Affogati e portati dalle correnti. Chissà come avevano fatto a non pensarci subito? Che nessuno li avesse mai visti prima, che gli annegati fossero ignoti a tutti, era dettaglio secondario. Mica ti potevi ricordare la faccia di tutti i coloni, no? Ne arrivavano quasi ogni mese a vagonate. E poi, appunto, c’erano le correnti. Tutta colpa delle correnti, chiaro. Magari venivano da un’altra spiaggia ma le correnti te li avevano portati proprio lì scherzi del destino. Cose che capitano, appunto. Niente di strano. Lo dicono i militari.

Ma era strano, aveva affermato un tizio sulla quarantina, uno che aveva l’aria di vivere nei dintorni già da parecchio tempo, faccia consumata dal clima e dall’esistenza non proprio rilassata dei coloni di prima generazione su un nuovo pianeta. Era strano ed era strano parecchio. Aveva già visto altri cadaveri, sconosciuti masticati e portati a riva dalle correnti o da qualunque altra cosa fosse, e forse erano affogati, certo, forse erano proprio incidenti, per carità, ma c’era altro, molto altro, non avevi bisogno di essere complottista allo stadio terminale per capirlo. Si assomigliavano tutti, quei tizi.

Il narratore si era concesso una breve pausa, per lasciar sedimentare l’affermazione. Che non aveva avuto l’effetto sperato, perché si era affrettato a continuare quando mormorii vari avevano preso il posto del silenzio reverente che avrebbe desiderato lui. Stessa corporatura, stessa faccia, spiegava. Non come fratelli, non proprio, ma come se fosse sempre la stessa persona, più e più volte copiata, magari con qualche piccolo errore qui e là, variazioni minimi, ma era lo stesso tizio, ve lo dico io. Sempre lo stesso uomo. Anzi, ragazzo, perché non era così vecchio. E mi venite a dire che continua ad affogare nello stesso posto, allo stesso modo? Difficile da credere. Ci sarà dietro una qualche storia dei militari, vedrete. Sono sempre i soliti. Chissà cosa combinano con tutto lo spazio vuoto di questo pianeta... Brutte cose, di sicuro.

Il barista scuoteva la testa, tutto serio. È una impressione, diceva. Te lo sei sognato. Con quello che bevi, è già tanto se non vedi tua mamma uscire da quel mare. Persone diverse, persone diverse. È il mare che li rovina, li consuma. Si assomigliano perché hanno fatto tutti la stessa fine, ovvio. Dopo i giorni in acqua a farsi masticare, per forza alla fine si somigliano. E i militari sì, magari qualcosa di strano lo fanno, lo fanno in tutti gli eserciti, ma non c’entra niente con questa storia.

Ma non è così, insisteva il tizio sulla quarantina. Non è così e lo sai bene. Non farebbero tutto quel casino, i militari, se fosse come dici tu. No, no, c’è altro, c’è altro. È sempre la stessa persona, te lo dico io. Non so come faccia, ma è sempre la stessa. Vedrai se non è così. Aspetta il prossimo e poi ti dovrai scusare. Sempre lo stesso. Sempre uguali. Li ho visti, io. E ci sono dietro i militari.

Si erano aggiunti altri e la discussione nel locale si era accesa. Chi dava ragione a questo, chi invece a quello. Ne ho visto un altro anch’io e assomigliava a quello di oggi. Ma no, te lo sei sognato, sono diversi, li ho visti anch’io. No che non li hai visti. Ti dico di sì, sono diversi. Sono uguali. E così via per più minuti di quanti Matteo avesse voglia di contarne. Tutti sembravano avere visto almeno un altro cadavere, ma nessuno sembrava d’accordo su che faccia avesse. Visti da tutti, riconosciuti da nessuno. Ma si diceva. Dicevano. E si sapeva. Proseguì fino a che il barista non commentò a bassa voce che c’erano ancora tanti militari in giro, quel pomeriggio. La discussione si spense di colpo.

Matteo sorrideva fissando il bicchiere. C’era da diventare complottisti a vivere su quel pianeta. E in fondo poteva essere un modo come un altro per passare il tempo: non c’era molto altro da fare in un posto divertente come una discarica abusiva di rifiuti tossici. Perché non inventarsi storie strane, un poco di mistero, fantasia in libera uscita e condita con un pizzico di paranoia? Poteva farti sentire un poco più importante, al centro dell’attenzione. Invece di un disperato disperso in mezzo al nulla, un sano complotto mondiale ti faceva diventare protagonista di una storia emozionante, viva, attiva, un eroe per poveri. Matteo poteva capire. Probabilmente anche lui si sarebbe inventato di tutto, per non arrendersi al nulla che aveva attorno. Anche storie di cadaveri in serie, tutti identici tra loro, su uno sfondo di militari minacciosi che insabbiavano tutto. Ah, la fantasia umana!

Ma la realtà era un’altra cosa ed era che la faccia del cadavere assomigliava ad Amir e non riusciva più a togliersela dalla testa. Ascoltò ancora, chiacchiere che si ripetevano, che si accavallavano, si confondevano, a volte si ammutolivano di colpo, per riprendere qualche minuto dopo. Era la fine del pomeriggio e quasi non sapeva più neppure lui cosa pensare, cosa fosse successo davvero quel giorno in spiaggia. Storie, misteri e confusione: tre parole per descrivere Madre. Non gli piaceva il posto, il pianeta, la sua colonia. Ma ci sarebbe dovuto restare per almeno altri tre anni. Deprimente. E più pensava a Davide e alla sua misteriosa scomparsa, quel fratello disperso a cui nessuno pareva pensare a parte lui e gli ex colleghi, più la confusione aumentava. Forse era normale che la gente sparisse così su Madre. Forse. Trovarsi davanti il cadavere di qualcuno che assomigliava al migliore amico terrestre del fratello, però, non sembrava normale, né migliorava le cose.

Assomigliava. Assomigliava e assomigliava. Non era Amir: gli assomigliava e basta. Così Matteo aveva deciso di pensare e così avrebbe pensato, fino a prova contraria. Siccome i militari lo avevano portato via e di prove non ce ne sarebbero state proprio, contrarie o favorevoli, riteneva di potersi mettere il cuore in pace e non pensarci più. Col tempo. Alla fine. In realtà non lo riteneva davvero e fu costretto ad ammetterlo almeno davanti a se stesso: lo auspicava, che non è proprio la stessa cosa e non dà proprio gli stessi risultati. Un giorno forse la speranza sarebbe diventata realtà, un giorno se ne sarebbe dimenticato proprio, ma non adesso, non con un cadavere nudo e gettato in spiaggia dalle onde, ancora impresso e dettagliato nella memoria. Adesso ci pensava. E ci pensava.

Ci pensava ancora al rientro in alloggio e si era lasciato così bene alle spalle il problema che fu la prima e quasi unica cosa di cui parlò, quando anche gli altri furono tornati da un pomeriggio che di sicuro era stato migliore del suo. Non che ci sarebbe voluto molto: persino un museo dei pesci non poteva che essere migliore di un cadavere in spiaggia, un cadavere che avevi creduto di riconoscere. Persino un clistere non poteva che essere migliore. Beh, forse un clistere no, ma ci siamo capiti.

«Hanno trovato un cadavere in spiaggia, oggi,» disse Matteo. «Io l’ho visto.»

La sua dichiarazione fu accolta in uguale misura da sopracciglia alzate e sguardi di indifferenza. «È di una nuova specie marina?» chiese Selina, in apparenza la più interessata del gruppo. o la meno non interessata, a seconda dei punti di vista.

«No, è un… cadavere cadavere, sai. Di homo sapiens. Una persona, insomma. Morta.»

«È un bene che fosse morta, allora. Trovare cadaveri vivi in giro sarebbe molto fastidioso.»

La battuta di Indira era a un livello degno di Chakra e Matteo glielo fece notare. Lei scrollò le spalle e lo fissò. «Le tue capacità espressive sono a un livello inferiore di quelle di Chakra e questo è ben più preoccupante, a mio parere. Specifichi in continuazione l’inutile, ma dai per scontati i dettagli che hanno rilevanza. Tutti i cadaveri sono morti: è per questo che sono cadaveri. Non tutti i cadaveri sono di esseri umani: questo lo avresti dovuto specificare subito, invece di sottolineare soltanto che è un cadavere ed è morto.»

«Adesso sembri un misto di Chakra e Sharma. E comunque, se vuoi fare la pignola, i cadaveri non sono morti: i cadaveri sono ciò che diventi quando muori.»

«Perché dovrebbe essere un misto di me e Chakra?» chiese Sharma.

Matteo lo guardò, poi chiuse gli occhi e contò fino a dieci. No, non poteva lasciare che anche questo discorso finisse dirottato nella spazzatura. Stavolta sarebbe andato in fondo. Stavolta avrebbe detto e raccontato ogni cosa, resistendo con le unghie e coi denti (virtuali) a ogni tentativo di trascinare a fondo ogni cosa. Quindi doveva ignorare le interruzioni. Ci provò, misurando ogni singola parola.

«Dicevo del cadavere umano. In spiaggia. Oggi pomeriggio. Assomigliava a un amico di Davide. Di mio fratello. Un suo amico terrestre.»

Ottenne silenzio e attenzione. «Era Olaf?» chiese Tunde a voce bassa.

«Non ho mai visto Olaf, per cui non lo saprei riconoscere. No, era di un suo amico di prima, un suo compagno di scuola. Uno che dovrebbe essere ancora sulla Terra, per quel che ne so io, ma magari è finito qui su Madre per qualche altra ragione, o forse anche la stessa per cui ci è finito Davide.»

«Ex terrorista pure lui? O ex quel che era.» Selina alzò un sopracciglio. «La storia sta diventando un po’ troppo assurda e contorta per i miei gusti.»

«Anche per i miei, se è per questo,» sospirò Indira. «Spiega tutto dall’inizio e sentiamo.»

Matteo spiegò tutto dall’inizio e sentirono. Partì dalla storia di Amir, chi fosse e che rapporto avesse con Davide: compagni di scuola, amici, moderatamente vicini di casa, blablabla. Niente di utile o di importante, almeno a suo parere. Amir e Davide tendevano a seguirsi ovunque, per cui se uno si era mischiato a questi Isolazionisti, allora era quasi sicuro che anche l’altro lo avrebbe fatto. O così la pensava Matteo. Come fosse poi finito su Madre era un altro discorso e comunque non era certo che ci fosse finito davvero. Il cadavere assomigliava ad Amir, ma poteva anche non esserlo. Passò così a spiegare gli eventi del pomeriggio in spiaggia, che erano pochi, e le chiacchiere raccolta al bar, che erano molte di più e soprattutto colorite e interessanti al punto giusto da catturare gli ascoltatori e impedire che si disperdessero, almeno secondo lui. «E questo è più o meno tutto,» concluse.

Per un poco lo fissarono in silenzio. «Così ci sarebbero stati già diversi cadaveri portati a riva dal mare?» chiese poi Selina. «Non ricordo di averne mai sentito parlare. Ti aspetteresti che una notizia del genere dovrebbe circolare un poco, no? Invece non mi pare che abbiano mai parlato di morti in spiaggia. O di morti portati in spiaggia.»

Sebastian scrollò le spalle. «Se sono affogati non è un gran notizia. Lo è magari in un posto dove non succede mai nulla e anche il raffreddore di un ottantenne è una notizia, ma su una colonia come questa, dove ci sono di continuo ritrovamenti strani? Non frega a nessuno se anneghi.»

«Ma non eri anche tu in spiaggia, oggi? Non lo hai visto?»

«Ero... affaccendato in altre faccende, come si dice.»

Ci fu un momento di silenzio. Lo ruppe Tunde. «Comunque sono arrivati subito i militari e lo hanno fatto sparire, giusto? Come dicevamo noi. Ogni volta che succede qualcosa, arrivano i militari.»

«Sì, beh, anche nelle storie che ho sentito al locale lo dicevano. Avevano trovato altri cadaveri, ma se li sono sempre presi i militari, con spiegazioni vaghe e che, beh, non spiegavano molto.» Matteo esitò. «Non capisco cosa se ne facciano e che problemi ci siano se qualcuno affoga, ma...»

«Se sono affogati davvero,» disse Indira. «E poi dipende da chi è il qualcuno in questione. Se era un amico del tuo fratello scemo, ad esempio, allora poteva essere qualcuno che dovevano fare sparire. Un po’ come è successo anche al tuo fratello scemo.»

Matteo scosse la testa. «Non mi piacciono queste storie di complotti, lo sai.»

«Il fatto che una cosa non ti piaccia non significa che non sia vera,» disse Tunde. «Potrebbe esserci qualcosa, dopotutto. Magari...»

Ne seguì una lunga e noiosa parentesi di complotti, intrighi e allucinazioni varie, che Matteo seguì da lontano, con tutto l’interesse di chi non aspetta più nulla e cerca solo un albero da abbracciare per lasciarsi morire. Non fu sorpreso di scoprire il medesimo disinteresse sulla faccia di Mei, che da sua abitudine sedeva silenziosa in un angolo, come uno strano soprammobile vivente. Ma erano la minoranza, per di più molto silenziosa, e dovevano attendere che il vento cambiasse.

«Senti, ma che tipo era di preciso questo Amir?» chiese Tunde.

Matteo tornò di colpo al presente. Tutti lo fissavano, in attesa di una risposta. Ripeté nella propria mente i frammenti di conversazione che gli erano rimasti impigliati nelle orecchie, verificò che non gli bastavano neppure per farsi una vaga idea di cosa stesse accadendo, rinunciò a ogni tentativo di capire e rispose alla domanda, sperando in bene. «Era un cretino.»

Dal modo in cui tutti lo guardavano, Matteo dedusse che non doveva essere la risposta che si erano aspettati. Cercò di precisarla e motivarla aggiungendo altri dettagli. «Era più vecchio di Davide, ma erano in classe assieme, perché aveva perso uno o due anni per strada, non ricordo quanti. Aveva un quoziente di intelligenza a temperatura ambiente, muoveva le labbra quando tentava di pensare, era incapace di concentrarsi su qualcosa per più di dieci secondi consecutivi, era...»

«Abbiamo capito che ti era simpatico e andavate molto d’accordo,» lo interruppe Indira. «Geloso di lui perché ti aveva portati via il fratellino?»

«Il mio è un parere oggettivo e imparziale!» Indira lo fissava in silenzio. «E va bene, non mi era poi così simpatico, ma questo non cambia che era una persona stupida, incapace di ragionare con la sua testa, un burattino che si lasciava manovrare da chiunque.» Indira continuava a fissarlo in silenzio. «È inutile che mi guardi così! È vero. E comunque per quanto ne sappiamo è ancora vivo e non c’è bisogno di usare il passato. Gli assomigliava e basta, il cadavere sulla spiaggia. Figurati che poi nel bar sulla spiaggia c’era chi diceva che tutti i cadaveri gli assomigliavano, per cui vedi tu.»

«Cos’è questa storia che tutti i cadaveri si assomigliavano?» chiese Sebastian.

Una storia che Matteo aveva rimosso dal racconto iniziale, perché era francamente troppo stupida e assurda per prenderla sul serio. La riesumò adesso, con poca voglia e tanti scuotimenti di testa. Una storia in cui tutti i cadaveri ritrovati, per quanti fossero (nessuno tra gli allegri bevitori al bar aveva saputo concordare sul numero), avevano la stessa faccia. Anzi, erano la stessa persona. Anzi, non lo erano proprio, ma quasi uguali, magari piccole differenze qui e là. Aggiunse tutto lo scetticismo che gli riuscì di inserire, a sottolineare che sì, lo dicevano, ma soltanto uno stupido li avrebbe presi sul serio. Era ovvio, no? Una storia del genere, poi...

Alla fine Sebastian lo fissava a sopracciglia alzate. «Dunque allora tutti questi cadaveri gettati sulla spiaggia durante gli ultimi... quanto? Uno, due anni?»

Matteo scosse la testa. «Non lo so di preciso.»

«Facciamo due anni, allora. Tutti i cadaveri trovati in spiaggia negli ultimi due anni, che siano sette, otto o venti, sarebbero uguali all’amico di Davide. Che dovrebbe essere ancora sulla Terra. Giusto?»

«Se vogliamo credere alle chiacchiere di un bar, sì.»

Sebastian guardò gli altri «Vogliamo credere alle chiacchiere di un bar?»

Indira sospirò. «Questo è veramente stupido, lo sapete? È un pianeta con grossi problemi e di cose strane ne capitano di certo, per carità, e ancora di più sono insabbiate per chissà quale ragione, ma la stupidità ha limiti. Cadaveri di una persona qualunque, duplicati e buttati in spiaggia a intervalli più o meno regolari...»

«Sì, questo è francamente troppo. Non puoi ascoltarlo e tenere una faccia seria,» disse Selina. «Che capiti di trovare cadaveri in spiaggia è accettabile, succede. Dopo molto tempo in mare si possono pure assomigliare tra loro, con l’acqua che li gonfia e cancella le impronte digitali, i pesci che se li mangiucchiano e così via. Ma non diventano uguali.»

Matteo alzò una mano. «Non ho mai detto di crederci. Sto solo riportando le storie che ho sentito. Io non ci credo proprio, sia chiaro. Cioè, potrei anche accettarlo se fossero tutte copie di una qualche persona importante, magari sperimenti per replicarlo o qualcosa del genere, ma un deficiente come Amir no. Nessuno vorrebbe mai replicare quell’idiota. Non ci sarebbe neppure bisogno di replicare un idiota: lo facciamo già da soli in continuazione. Voglio dire, quante persone stupide nascono ogni giorno? Succede al naturale, non c’è bisogno di ingegneria genetica. Amir, proprio...»

Indira sospirò e si girò verso Tunde. «Un perfetto esempio di parere oggettivo, come hai sentito. Ti basta o preferisci che il nostro amico imparziale e oggettivo sparli ancora un poco dell’amico di suo fratello? Scommetto che avrà ancora chissà quanti pareri imparziali da esprimere, se ti restano altri dubbi su come sia quella persona.»

«Direi che basta. Comunque non ci capisco proprio niente in questa storia.»

«Mettiti in fila e aspetta il tuo turno senza sgomitare: nessuno ci sta capendo qualcosa.»

Sharma si accarezzava la barba, serio serio. «È una storia che ha troppo poco senso per ricavarne un qualcosa di logico e completo. Non ne sappiamo abbastanza e quello che sappiamo potrebbe essere falso, o almeno molto alterato. Non vedo cosa ci potremmo fare.»

«Un altro che può mettersi in fila e attendere il proprio turno,» commentò Indira. «Ma in fondo non siamo noi a dover decidere cosa farne, ammesso che ci sia qualcosa da fare. Direi che la decisione è a carico del diretto interessato, qui: l’uomo che ha viaggiato anni luce per cercare il caro fratellino. Allora, vuoi farne qualcosa? E se sì, cosa?»

Di nuovo tutto si girarono verso Matteo, che non apprezzò l’attenzione. Non voleva fare niente, lui. Primo perché probabilmente non era neppure Amir, ma solo qualcuno che gli assomigliava; secondo perché, se anche era davvero Amir, ormai lo avevano portato via i militari; terzo perché non voleva attirare l’attenzione di nessuno, men che meno dei militari, e se avesse cominciato a fare domande sul cadavere ne avrebbe attirata anche troppa di attenzione. Infine... infine c’era anche una qualche altra ragione, ne era sicuro, ma al momento non se la ricordava e comunque erano affari suoi, no? A Davide e tutto ciò che lo riguardava aveva ormai messo una bella pietra sopra e in effetti si sarebbe anche potuto dimenticare di Madre e tutto il resto e tornare su Lakshmi a fare la vita del mantenuto, se solo non fosse stato per il Teatro e il contratto, e poi...

Matteo si bloccò nel mezzo del monologo interiore. E poi cosa? Non lo sapeva. Sapeva di non voler seguire la possibile pista del possibile cadavere del possibile Amir; sapeva di non voler seguire la pista di una possibile escursione fallimentare di Davide verso la base militare (era da pazzi anche il solo pensiero!); sapeva di non voler seguire deliri febbricitanti sul padre che sarebbe stato militare di stanza su Madre (ancora più allucinante). Erano molte le cose che sapeva di non voler fare e tutte riguardavano i possibili indizi che aveva raccolto sul conto di Davide. Cosa voleva, dunque?

In apparenza, non voleva sapere nulla della scomparsa del fratello, anche se in teoria era venuto sul pianeta proprio per quel motivo. Assurdo, giusto? Matteo lo doveva riconoscere. Assurdo, sì, ma era anche vero. Non voleva più sapere nulla di Davide. Aveva paura di sapere qualcosa di Davide. E se a cercare di scoprire cosa fosse successo al fratello dovesse succedere anche a lui la stessa cosa? O magari qualcosa di peggio, eh? Tutto ciò era probabilmente paranoico, ma probabilmente era molto diverso da sicuramente. E lui non era un eroe. Ma neanche per sbaglio. Non era avventuroso né lo voleva diventare. La sua massima aspirazione era sempre stata una vita tranquilla e benestante. La cosa migliore da fare, dunque, era non pensarci più e limitarsi ai fatti propri. Chakra glielo aveva detto fin dall’inizio, ma lui non aveva ascoltato. Mossa sbagliata.

Dunque cosa avrebbe fatto? La risposta era «niente», ma doveva trovare una buona impanatura per renderla digeribile anche agli altri. Si sarebbe inventato un qualche discorso a effetto che significava di fatto la stessa cosa, ma facendola suonare nobile, pura e magari persino eroica. Esisteva di sicuro un metodo. Bastava trovarlo. Peccato che il suo cranio non ne contenesse neppure una traccia.

«Gli si è spento di nuovo il cervello, non fateci caso,» stava dicendo Indira. «Fa sempre così quando gli chiedi qualcosa che non sa e cerca di inventarsi una risposta che sembri intelligente.»

«Non mi si è spento il cervello e stavo pensando,» rispose Matteo. «Ho anche già deciso cosa fare, anche se sì, ammetto che stavo cercando un bel modo per presentare la risposta.»

«Dunque la risposta non è particolarmente bella, o pensi che non lo sia.»

«Penso che potrebbe non esserlo, già.»

«E intendi darci la risposta, oppure dobbiamo procurarci qualche strumento di tortura per estrartela con la forza? Decidi tu, per me fa lo stesso, anche se forse con gli strumenti di tortura ci potremmo divertite tutti quanti per un poco, giocando all’allegro inquisitore.»

Matteo sorrise. «No, niente strumenti di tortura. Ho deciso di non fare niente. Davide è scomparso, nessuno ne sa qualcosa, ogni traccia sembra portare a vicoli ciechi o a strade in cui non ritengo sano entrare. Come se non bastasse, ogni tanto mi capitano cose del tutto assurde come oggi. Cosa volete che faccia, scusate? Niente. Se mai troverò un qualche indizio sensato, allora lo seguirò, ma adesso non ne vedo proprio. Quindi non farò nulla. Davide è scomparso. Stop.»

Indira lo fissava. «Hai bisogno che ti ricordi quello che ti avevamo detto io e Chakra, quando stavi decidendo di venire qui? Oppure te lo ricordi da solo?»

«Me lo ricordo da solo, sì. Avevate ragione voi: venire qui è stato inutile. Non ho scoperto nulla e credo che non scoprirò mai nulla. Buco nell’acqua, perdita di tempo, mettetela pure come preferite. Ma è andata così e adesso sono qui e ci dovrò restare ancora per un po’ di tempo. Non mi lamento e lo accetto. Chissà, magari alla fine ne ricaverò qualcosa di buono.»

«Io non ci conterei troppo, però è vero: ormai è andata così e devi accettare le conseguenze della tua scelta, che ti piacciano o meno,» disse Indira. «Dunque al fantomatico cadavere di questo Amir non penserai più? O stai preparando qualche nuova scemenza da fare?»

«No, non intendo pensarci più. A meno che non ne spuntino davvero altri.»

Sebastian si schiarì la gola. «Io ti consiglierei anche di non raccontare a nessuno che conoscevi quel tizio, o che assomigliava a qualcuno che conoscevi. Non si sa mai, sai com’è.»

«Sì, lo trovo un consiglio saggio,» disse Indira. «Meno ne parli e meglio è. Per sicurezza. Se non ne parli proprio, poi, è ancora meglio. Anche se immagino che conosceranno già tutti i tuoi legami con questo Amir, se sapevano tutto di quello che combinava tuo fratello. Tacere però è sempre utile.»

Non sembrava esserci altro da aggiungere a quel punto, così non aggiunsero altro. Sul cadavere in spiaggia calò il silenzio, almeno all’interno del gruppo, anche se nei due giorni restanti di vacanza si sentì ancora parlare della storia nei locali in città. Ma piano e solo dopo dosi abbondanti di alcoolici e derivati. Si poteva quasi fingere che non fosse successo nulla e Matteo lo finse, anche se scoprì di non avere più così tanta voglia di stare in spiaggia a spiare le bagnanti. Di entrare in acqua aveva ancora meno voglia. Tornare al più presto in città e al lavoro era la sola cosa che desiderasse: strano ma vero. Ma in città avrebbe potuto fingere che nulla fosse accaduto e che la faccia di Amir (simile ad Amir, solo simile, simile) non lo stesse più fissando dal bagnasciuga.

O così sperava.

Poi rientrarono, un nuovo lavoraccio immondo attendeva il gruppo di neocoloni a cui lo avevano assegnato, la ritmica regolarità della vita riprese il sopravvento e la vacanza fu dimenticata davvero, almeno per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto gli capitava ancora di domandarsi che cosa fosse successo davvero, ma era una domanda oziosa, disinteressata, che si lasciava scacciare senza opporre resistenza. Niente di importante, ecco cos’era successo.

Sharma intanto continuava il suo lavoro in ospedale, ma soprattutto gli esami di controllo e gli altri test che si ripetevano a intervalli regolari. Aveva discusso di quando sarebbe potuto partire, ma non aveva ricevuto risposte precise. A breve, prima o poi, quando avremo finito, ancora non è chiara la causa e la dinamica, capiamo che sia fastidioso ma non c’è niente da fare, ci scusiamo per il disagio.

«Comincio a pensare che finirò per rimanere qui altri tre anni anch’io, come Matteo,» disse una sera a Indira, di ritorno da un cena in un pessimo locale. Il resto del gruppo era poco più avanti, intenti a ridere di un buffo incidente che era capitato a un collega di Matteo (non a lui, sia chiaro: era un suo collega, capito?). La sera era tranquilla e odorava di cantina ammuffita, più o meno come ogni altra fase del giorno su Madre. Pianeta strano, pianeta spiacevole.

«Non resterai qui perché non hanno alcuna autorità per trattenerti,» rispose Indira. «Partiremo, ce ne torneremo a casa e tanti saluti a tutti, in particolare ai tuoi presunti dottori.»

«Ma se ci sono ancora esami da terminare...»

«Puoi farli anche su Lakshmi. Anzi, li farai meglio su Lakshmi, dove ci sono ospedali veri e non buchi della disperazione come questi. Figuriamoci! Che poi, che esami sarebbero?»

Sharma non lo sapeva spiegare. Aveva avuto un qualche tipo di reazione allergica a un qualche tipo di puntura di un qualche tipo di insetto locale. Una cosa rara, importante, da studiare. O giù di lì. Le ragioni che gli avevano dato erano state molto vaghe, lo ammetteva, ma in fondo di medicina non sapeva molto e probabilmente non avrebbe capito neppure se gli avessero spiegato tutto in dettaglio. Era un po’ un campo in cui si andava in fiducia, no? Indira non era decisamente d’accordo.

«Qualunque cosa sia, te l’ho detto: sarà curata meglio su Lakshmi. Nel peggiore dei casi, potrebbero trattenerti alla stazione di arrivo, ma anche lì abbiamo cliniche migliori di queste. Fatti consegnare o spedire la documentazione, quello che preferiscono, e poi tanti saluti a tutti. Ce ne torniamo a casa e partiremo dopo la conferenza del professore di Svarga. Quella ormai la voglio vedere, già che siamo qui: me la sono persa a casa, almeno qualcosa lo devo recuperare, no? Così avrai anche il tempo per far capire ai tuoi cari medici che ti sei rotto le palle di loro.»

Sharma continuava a esitare. Problemi fisici non ne aveva più avuti, si sentiva sano, anzi: non si era neppure mai accorto di problemi veri, non dopo la prima crisi allergica (se era allergica) che aveva portato al ricovero. Sostenevano che fosse un caso raro e lo volevano studiare al meglio, il che lo poteva anche capire, ma doveva ammettere che Indira aveva ragione a parlare di troppi misteri e sì, a casa su Lakshmi lo avrebbero curato meglio, se ci fosse stato ancora qualcosa da curare. Eppure...

«Se ti sei preso una malattia, deve avertela attaccata Matteo,» disse Indira. «Stai diventando pieno di esitazioni e incertezze, proprio come lui. Hai la risposta sotto al naso e non sai cosa fare.»

Alla fine si arrese, non convinto ma vinto. Avrebbe espresso ai medici che lo seguivano il desiderio di tornare su Lakshmi e poi ne avrebbe valutato le reazioni. Non avevano basi per trattenerlo contro la sua volontà, secondo Indira, ed era vero: sarebbe stato diverso in caso di malattia contagiosa, ma di diagnosi non ce n’erano state, era libero di circolare sul pianeta, dunque i precedenti erano tutti in suo favore, come forse avrebbe notato Chakra. Come forse avrebbe anche notato Chakra, a volte i precedenti contano solo se il pianeta ha voglia di accettarli: se non ne ha voglia, fine del discorso.

Ma in ospedale nessuno gli fece problemi. Ci fu un blando tentativo di convincerlo a restare, più un pro forma che altro, ma alla fine (una fine che arrivò molto in fretta) convennero che sarebbe stato meglio tornare a casa, per il suo benessere psicofisico. Se ciò rappresentava davvero la sua volontà, beninteso. Sharma confermò che sì, rappresentava la sua volontà. I medici promisero che avrebbero inviato tutta la documentazione su Lakshmi al più presto, seguirono ringraziamenti e frasi fatte di ogni tipo, strette di mano, la necessaria quantità di balle socialmente approvate, si concordò la data per gli ultimi due esami, infine tanti saluti. Era fuori. Era anche libero?

«Ci sarà di sicuro qualche fregatura, vedrai,» commento Indira, quando lui le raccontò dell’incontro coi medici e la loro reazione. «C’è sempre una fregatura di qualche tipo.»

Il che era forse vero in termini generali, ma non lo sembrava in quel caso specifico, perché tutto si svolse come concordato e nei tempi concordati. Sharma rimase a lavorare all’ospedale e sì, i medici sembravano guardarlo più spesso di quanto fosse strettamente necessario, ma era un fastidio ridotto e lo poteva sopportare, se significava un rapido ritorno a casa. Siccome sembrava significare quel rapido ritorno a casa, Sharma lo sopportò. Non fu un problema.

Nel mentre, Matteo continuava a non divertirsi al lavoro, Indira proseguiva con le sue battute e vari commenti di dubbio gusto, gli altri coloni terrestri facevano quello che dovevano fare e si vedevano di rado, quasi soltanto di sera e nei giorni di riposo. E Mei continuava la sua personale e silenziosa campagna in cerca di informazioni sulla pietra: nei tempi morti frequentava il museo provvisorio di archeologia, conversava con Marijn Asanga quando si trovava a passare da quelle parti (cosa che, va detto, accadeva piuttosto spesso), di tanto in tanto anche con un certo Bodil Emereck, terrestre e collaboratore di Marijn (o così si presentava lui). Qualche informazione la raccolse, ma la pietra la vide soltanto in un modello in miniatura, che Asanga portava spesso con sé.

«Non è proprio la stessa cosa, lo so, ma è la copia più fedele che abbiamo potuto realizzare,» spiegò Marijn. «E poi, diciamolo pure: quello che ci hanno spedito su Agni era pure peggio. Non hai idea di come ci trattino, gli archeologi di Madre. Neanche fossimo qualcosa che si sono trovati attaccato alla suola delle scarpe, davvero!»

La successiva, lunga dissertazione sulle ingiustizie profonde che avvengono tra pianeti e che spesso e volentieri ricadono soltanto sulla testa di poveri, onesti e disinteressati ricercatori, lasciò Mei del tutto indifferente, ma anche parecchio annoiata. Finivano sempre con monologhi interminabili sulle sofferenze e i dolori del giovane Asanga, le sue conversazioni. Lei avrebbe soltanto voluto vedere di persona un ritrovamento certo importante e forse fondamentale per ricostruire la storia di un piccolo angolo di galassia... Così in quelle occasioni spegneva il cervello e lasciava scorrere il tempo, certa che prima o poi la sorgente si sarebbe inaridita. Di solito succedeva.

Un pomeriggio, rientrando da una visita al museo in cui Marijn Asanga si era lamentato molto più del solito e aveva delirato di presunte ingiustizie ricevute da una certa Bahgat, chiunque ella fosse, Mei Saddhatissa si sentiva particolarmente stanca e sfiduciata. A breve sarebbero tornati a casa su Lakshmi, che era una ottima cosa, ma vi sarebbero tornati senza avere risolto alcunché su Madre, il che non era una buona cosa. Che senso aveva avuto quel viaggio? Più o meno tanto quanto ne aveva il tizio che stava uscendo proprio in quel momento dal tombino.

Mei si fermò e guardò meglio. Sì, un tizio stava davvero uscendo da quello che pareva un tombino. E non era vestito da operaio, o anche solo in abiti da lavoro, stilavi o altre cose che sarebbe saggio indossare, se si ha in programma una esplorazione fognaria. Indossava pantaloni e una maglietta, e scarpe ricoperte di sostanze che era meglio non esaminare troppo da vicino. Pure il resto in effetti ne era coperto. E il vento soffiava dalla direzione sbagliata e c’era un odorino in arrivo che...

Mei si allontanò un poco per vari motivi, non ultimo il fetore. Era sola in quel tratto di strada, sola con un tizio appena uscito da una fogna. Non proprio rassicurante, anche se non pareva un tizio così minaccioso. Patetico, semmai. Alto e magro, faccia lunga da cavallo, occhi da pecora a cui è appena successo qualcosa di inaspettato e spiacevole, sembrava un ragazzino fuggito da una discarica. Che corrispondeva quasi alla verità, essendo un ragazzino uscito da un tombino. Si guardava attorno un poco perplesso e stordito, per adesso. Cosa avrebbe fatto dopo era un altro discorso e Mei decise di non volerlo scoprire, ma grazie lo spesso per l’offerta.

Avanzò in silenzio di qualche passo. Il ragazzino non si girò verso di lei. Continuò ad avanzare di altri passi. Il ragazzino continuò a ignorarla. Mei accelerò, guardandosi spesso dietro le spalle. Non successe nulla. Poi fu fuori dalla strada, altra gente passava nei paraggi, la città sembrava quasi una zona normale e Mei proseguì verso l’alloggio al passo più veloce che potesse mantenere.

Era proprio un pianeta di pazzi, Madre. Tornare su Lakshmi non le era mai parso così affascinante. E pazienza se non era riuscita a vedere tutto ciò che avrebbe voluto vedere: aveva visto fin troppo che non avrebbe voluto vedere e questo le bastava. E al tizio che usciva dalla fogna non pensò più, almeno a livello conscio. Meglio dimenticare, se possibile.

Nell’immediato sembrava possibile e questo le bastò.