Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 107

Quando finalmente furono arrivati a Bidonia, Matteo Kori decise che il soprannome era appropriato e descriveva il luogo in una forma senza dubbio corretta, anche se forse non politicamente. Avevano ormai speso alcuni mesi locali su Madre e in teoria si sarebbe dovuto abituare alla carenza endemica di eleganza nelle architetture, giusto per essere generosi, e al suo aspetto generale che ricordava un pessimo incubo da prima età industriale. Lo vedeva ogni giorno. Ne era circondato ovunque lui si girasse e anche in molte delle direzioni in cui avrebbe preferito non girarsi. Edifici orrendi e da crisi depressiva immediata erano praticamente la norma in città. Niente di nuovo, giusto?

Sbagliato. Perché Bidonia era peggio. Bidonia era Oklahoma City ricoperta da secchiate di trucco pacchiano, forse per farla sembrare allegra, forse per farti pensare a un vero luogo di divertimenti e vacanze, di quelli dove spendere una piacevole frazione di estate assieme agli amici, a ustionarti gravemente la pelle mentre rincorri invano esponenti del sesso opposto (o anche dello stesso sesso, a seconda dei gusti). Bastava uno sguardo a Bidonia per pensare a quei luoghi e domandarti perché non ne avessero edificato uno anche su Madre, invece di quella discarica a cielo aperto.

Matteo ci pensava. Tornava con la memoria al suo primo anno di università, primo anno su Lakshmi e tutto il resto, quando erano andati a Bishapur, la città di mare che gli avevano presentato come la preferita dagli studenti della regione e che, in effetti, si era dimostrata brulicante di studenti e simili scorie umane. Da un certo punto di vista era stato il luogo in cui tutto quanto aveva cominciato pian piano ad andare a puttane, per usare un termine tecnico, ma ai tempi non lo sapeva e ai tempi si era anche divertito. Si era divertito molto. Si era sentito quasi più o meno tra amici. Se soltanto in mare non ci fossero state quelle cose disgustose che spruzzavano acqua verso il cielo, e che ancora adesso non sapeva pensare se non come orrendi mostri marini, sarebbe stata forse la vacanza migliore della sua vita. Per carenza di alternative, d’accordo, ma erano dettagli secondari.

A Bishapur, però, aveva anche incontrato Kemala ed era rimasto colpito dalle... dalla sua personalità e la sua convinzione di volere inseguire un sogno, eccetera eccetera. Aveva accettato di aiutarla, per motivi del tutto disinteressati e senza avere mai pensato a secondi fini. Davvero! Senza aver pensato e basta, in effetti: era stato il primo passo verso l’abisso e da allora non aveva fatto che correre. Giù e ancora più giù, come se un fondo non esistesse neppure. Ma forse il fondo lo aveva trovato, ora.

Bidonia ne aveva tutto l’aspetto.

«Un poco diverso da Bishapur, vero?»

Matteo si girò. Sharma si era fermato accanto a lui, espressione serena e sorriso serafico che non si lasciava nascondere tra la barbetta da filosofo convinto. Gli altri erano più indietro, ancora persi in chiacchiere e bagagli: Indira, Mei e il gruppetto di ex colleghi di Davide, con cui avevano finito per fare amicizia, un poco perché all’inizio non conoscevano nessun altro e un poco perché li avevano aiutati coi lavori e la vita sulla colonia. Adesso li avevano accompagnati lì, nell’ultimo luogo in cui Davide e il suo misterioso collega Olaf erano stati visti. Con troppi mesi di ritardo perché potessero trovare ancora tracce, è vero, ma Matteo si era ormai rassegnato. Gli bastava vedere il posto. Davide era disperso chissà dove, probabilmente per avere combinato una qualche scemenza: di qualunque cosa si trattasse nello specifico, probabilmente non si sarebbero più rivisti. Pure, la curiosità restava.

«Non ha proprio niente a che fare con Bishapur,» rispose Matteo. «È come paragonare le mense di Varshi con la roba che ci tocca mangiare qui.»

«Mi sembra che all’inizio anche il cibo lakshmita non andasse molto d’accordo con il tuo apparato digerente,» disse Sharma. «Magari anche Madre, alla fine, comincerà a piacerti.»

Possibile, ma secondo il modesto parere di Matteo avrebbe richiesto un profondo ripensamento del concetto di fine, magari connesso alle dispute su ipotesi di universo chiuso o aperto e più o meno le varie concezioni di tempo che ancora circolavano e si accavallavano. «Non è che mi faccia proprio schifo Madre, come pianeta. È solo che preferirei che fosse completamente diverso. E magari senza tutti questi insetti. Non capisco perché ogni pianeta debba produrre miliardi di insetti che non hanno altro scopo nella vita che pungerti, ronzarti attorno e molestarti in ogni modo possibile.»

«E ti lamenti proprio con me? Dovresti conoscere il mio rapporto con gli insetti del posto.»

Matteo lo conosceva e sì, forse doveva ammettere che non era stata proprio la lamentela migliore, o almeno non con quel particolare pubblico. Se qualcuno aveva diritto di lamentarsi degli insetti, quel qualcuno era proprio Sharma, che aveva scoperto una strana allergia alle loro punture e che adesso si ritrovava spesso e non proprio volentieri a subire esami assortiti in ospedale. D’altro canto, aveva anche trovato un lavoro poco faticoso sempre in quell’ospedale, per cui forse non gli era andata poi così male. Anzi, sicuramente non gli era andata male. Un lavoro leggero, al coperto, seduto, di poca o nessuna responsabilità: Matteo lo invidiava. Con quello che era toccato a lui...

«Comunque è il luogo di vacanza in cui vengono tutti i coloni ed è qui che è venuto mio fratello. Fa schifo, ma tutti i posti fanno schifo, qui. E poi...» Ma Matteo si accorse di non avere idea di come finire la frase, così la lasciò in sospeso. Sharma non commentò.

Erano a Bidonia, d’accordo. E adesso? Era la domanda che sembrava fare da ritornello alla sua vita, ma in quel caso specifico una risposta l’aveva: adesso avrebbe lasciato fare agli altri. A Sebastian e il suo gruppo, che erano già stati lì una volta e avevano organizzato alloggi, prenotazioni e altro, col contributo non sempre richiesto di Indira. Tempo di scaricare i bagagli, lavarsi, magari cambiarsi: al resto avrebbero pensato poi. Non che il poi fosse una incognita: Matteo era convito di avere molto viaggiato e veduto ed essere dunque una specie di uomo di mondo (o di galassia), esperto di come il primo giorno in un posto nuovo dovesse funzionare. Passeggi a casaccio, guardi, curiosi un poco in giro, non capisci niente di ciò che vedi, ti perdi da qualche parte, ritrovi la strada, mangi qualcosa di disgustoso che ti hanno spacciato per specialità locale ma che probabilmente erano gli avanzi già scaduti rimasti in fondo alla dispensa, sperperi un poco di soldi come capita e così via. Alla fine ti ritrovi a sorseggiare alcoolici dal nome sospetto in un locale turistico, anche se forse quel finale ti capitava solo quando a guidarti era Chakra. Lo avrebbe verificato a breve.

Con enorme soddisfazione Matteo scoprì di avere indovinato quasi tutto. Selina e Tunde erano alla testa del gruppo, immerse in un ruolo autoassegnato di guide, con Sebastian che interveniva di tanto in tanto ad aggiungere battute di cattivo gusto e spesso imbarazzanti. Parlavano della loro vacanza e di dove fossero stati, di come si fossero comportati Davide (che di tanto in tanto chiamavano ancora Bruno) e Olaf, le zone che avevano insistito per visitare, i locali che avevano frequentato assieme, e così via, di ricordo in ricordo. Tutte notizie interessanti a modo loro, per carità, ma Matteo si scoprì a dover mimetizzare più volte uno sbadiglio. Sembrava una gita scolastica malriuscita.

Non ci furono soste in spiaggia, durante la prima giornata. Il mare lo videro solo come sfondo o da una distanza di sicurezza, parlandone il meno possibile e fissando subito altrove. «Ma non è così brutto come sembra, quando ci sei,» disse Selina con un tono di voce che poteva anche sembrare a tratti convinto, mai convincente. «Vicino a riva non c’è nulla di pericoloso e sì, non c’è neanche la sabbia, in effetti, non proprio quel genere di sabbia che ti aspetteresti di trovare al mare, ma poteva essere peggio, dopotutto.»

«In altri termini, è una lettiera per gatti, ma almeno è una lettiera che non è stata usata troppo e poi hanno tolto i pezzi più grossi, capite,» fu il commento di Sebastian. Le colleghe lo guardarono male, ma si astennero dal replicare. Sarebbe stato difficile difendere un posto del genere.

«L’importante è che non ci siano cose brutte e cattive in acqua, altrimenti il nostro amico qui non si vorrà neppure avvicinare,» disse Indira, accennando a Matteo. «Sapete cosa ha combinato al mare su Lakshmi?» I coloni di Madre ovviamente non lo sapevano, così si affrettò a raccontare.

«Beh, qui non troverete nulla del genere,» disse poi Selina. «La fauna di Madre non sembra molto sviluppata, al momento, né quella terrestre né marina. Abbiamo trovato resti di esemplari più grossi, ma sono solo fossili, e poi ovviamente c’erano i costruttori delle rovine, che non sappiamo quanto fossero grandi o come fossero fatti, ma dalle proporzioni possiamo ipotizzare che non fossero molto più piccoli di noi. Adesso, però,» scrollò le spalle, «non resta molto di naturale. Gli animali più grandi che troverete li abbiamo importato noi, il resto è piccola cosa. C’è chi pensa che la civiltà scomparsa abbia combinato qualche disastro ambientale prima di scomparire, e magari è scomparsa proprio per averlo causato. Se è così, il pianeta non ha ancora recuperato molto.»

Matteo valutò la saggezza di colonizzare un mondo su cui una civiltà precedente aveva combinato (forse) un disastro ambientale disastroso a sufficienza da estinguerla assieme alla maggior parte di tutto ciò che vi viveva. Una saggezza esprimibile soltanto in negativo secondo il suo modesto parere da studente di letteratura, ma in fondo anche una tipica saggezza da essere umano. Poteva soltanto augurarsi che non fossero rimaste scorie troppo dannose per la salute, gentile omaggio di chi aveva occupato il pianeta prima di loro, predecessori mai così letterali.

Il suo incontro ravvicinato col mare lo ebbe il giorno seguente. Si trovavano in una località balneare e una visita alla spiaggia era praticamente un dovere. Nonché una necessità, da un’altra prospettiva: non avevano nulla di preciso da fare e Matteo ancora non aveva spiegato come volesse cercare o più realisticamente commemorare il fratello (non ne aveva idea). Le alternative offerte da Bidonia erano scarse, nessuno desiderava davvero visitare il museo dei pesci, a parte Selina, e qualche ora al mare si presentava un sistema buono come un altro per tirare sera e non scrivere troppe volte sulle pareti “il mattino ha l’oro in bocca”. «Magari da vicino ha un aspetto migliore,» aveva dichiarato Sharma, in un impeto immotivato di ottimismo.

Ma da vicino il suo aspetto non migliorò. Non era minaccioso: era squallido. E triste. Trasmetteva ai presunti bagnanti un profondo senso di desolazione, un luogo che aveva perso ogni speranza prima ancora di averne mai acquisita una. Abbastanza affollato, perché di gente ce n’era fin troppa, in gran parte giovani e di poche pretese, ma anche loro sembravano impegnati in una strana forma di tortura in cui si costringevano a divertirsi, o a convincersi di potersi divertire. Di doversi divertire, forse. Il breve commento di Indira riassunse meglio di tutto il resto lo spirito del luogo, secondo Matteo: era un villaggio vacanze in cui ti condannavano al divertimento.

Qualcosa di positivo c’era, però, e Sebastian lo sottolineò all’arrivo: i costumi da bagno. Matteo non ebbe nulla da ridire. Apprezzò soprattutto un particolare che notò subito e continuò a notare per il resto della giornata, a ogni occasione: i costumi tendevano a essere più succinti rispetto a quelli che aveva ammirato nella vacanza a Bishapur, così tanto tempo prima. O in un tempo che adesso pareva così remoto, anche se in realtà non lo era. Sì, dopotutto non era stata una idea così brutta e il viaggio riservava sorprese positive, se osservato dalla giusta angolazione.

Ma non era venuto su Madre per guardare ragazze e donne che prendevano il sole e nuotavano: era lì a cercare notizie del fratello disperso e in qualche modo le doveva cercare, o almeno fingere di. Il problema era che ancora non sapeva neppure da dove cominciare. La fin troppo lunga escursione del giorno prima per le strade della città (per valori molto bassi di città) era stata assai deprimente anche sotto quell’aspetto. Cosa poteva avere spinto Davide a scegliere proprio un posto simile? La semplice assenza di alternative, d’accordo, ma a Matteo sembrava una spiegazione troppo banale e semplicistica. Doveva esserci qualcosa di più. Doveva esserci.

Sebastian aveva spiegato che l’idea della vacanza era stata di Davide, almeno per quanto ricordava, ma il posto lo aveva scelto Olaf. Forse. O forse era stato sempre Davide, boh. Non faceva poi molta differenza. Di certo Olaf aveva organizzato il viaggio, forse di propria spontanea scelta, forse dietro suggerimento di Davide. O qualcosa del genere. Informazioni che Matteo non aveva trovato molto utili, soprattutto perché non erano un granché di informazioni, fatte di mah, boh, forse e magari, ma neppure Selina e Tunde ricordavano come fosse andata di preciso, così si dovette accontentare. E poi aveva già deciso arbitrariamente che suo fratello e quel misterioso Olaf erano in un qualche modo in affari insieme, probabilmente tutti e due pseudoterroristi, per cui non era molto importante sapere di preciso chi avesse deciso. Fondamentalmente un concorso di colpa.

Sarebbe stato molto più importante scoprire perché avessero deciso. Non certo per guardare le altre villeggianti, anche perché Tunde aveva spiegato che di gente non ce n’era molta in quel periodo, tra la bassa stagione e il resto. Non era neppure per il museo di pesci che piaceva tanto a Selina e che a Matteo era sembrato un triste tugurio pieno di sgorbi maleodoranti. Davide era interessato ai musei tanto quanto le mosche sono interessate alla poesia dadaista. Attorno a Bidonia non c’era niente, ma proprio niente di niente: cosa poteva avere esplorato?

Voltando per un attimo le spalle al mare e alle bagnanti in costume, Matteo guardò verso sud, verso l’entroterra. Non era una giornata molto limpida e il cielo aveva quella sfumatura biancastra, come un secchio di candeggina usata, che lui aveva sempre associato all’estate a casa, quando l’umidità ti faceva nuotare nell’aria e sudavi anche solo a pensare di alzarti dal letto. Ma non c’era così caldo lì su Madre. Erano sull’equatore ed era teoricamente alta stagione, ma il clima era sopportabile. Anzi, quasi gradevole. Pianeta strano, senza dubbio.

Di città ne vedeva poca, fermo sulla spiaggia. Gli edifici sul lungomare chiudevano lo sguardo con una muraglia di colori blandi, insegne e altre carabattole per turisti. Non che avesse molta voglia di vedere la città: c’erano forse cose più deprimenti nei paraggi, ma tendevano a nascondersi sotto la superficie del mare, nonché a volte nei fondali sabbiosi, almeno secondo Selina. No, non era la città a interessarlo: era qualcosa al di là della città, qualcosa che doveva essere abbastanza vicino da aver indotto Davide a scegliere proprio quel posto. Ma cosa?

Lontano verso sud, più un riflesso che altro, saliva verso il cielo la sottile colonna di un ascensore. Non quello con cui erano arrivati loro sul pianeta, ma un altro. Tunde lo aveva chiamato il vecchio ascensore, quello che avevano installato per primo e che adesso era utilizzato soltanto dai militari. C’era una base da qualche parte lì vicino, ma a nessuno interessava, anche perché nessuno la poteva visitare. «Non che qualcuno abbia davvero voglia di visitare una base militare,» aveva aggiunto poi.

E certo non ne aveva voglia Matteo, ma sospettava. Sospettava che Davide e il suo misterioso Olaf potessero essere stati stupidi a sufficienza da decidere di voler fare qualcosa alla base militare. Non ne sarebbe stato troppo sorpreso, non dopo aver scoperto come suo fratello avesse trascorso l’ultimo periodo sulla Terra. Ma no, doveva esserci una spiegazione diversa.

Non la trovava. Così per quel giorno accettò di partecipare ai classici giochi da spiaggia, perché non voleva offendere gli amici, non perché fossero davvero divertenti. O così spiegò a se stesso. Accettò anche di fare il bagno in mare, sempre per conservare quel minimo di socievolezza necessaria e non perché sperasse in contatti puramente accidentali con le donne del gruppo, magari nel corso di vari giochi acquatici (non ce ne furono e ciò lo depresse parecchio). L’acqua aveva un colorito grigiastro ed era limpida come il minestrone in brodo che servivano nei locali più sospetti, ma almeno non si notavano segni di vita, il che era un bene. Cercò anche di galleggiare il più possibile e posare i piedi sul fondo soltanto quando proprio era necessario, giusto per sicurezza. Una volta calpestò qualcosa che sembrava una spugna ricoperta di alghe e che gli sgusciò via da sotto il piede, il che non servì a tranquillizzarlo. Un paio di minuti dopo era sulla spiaggia, all’asciutto e al sicuro, e non rientrò in acqua per più di un’ora. Pure, dovette ammettere che, nel complesso, non era stata poi una giornata così brutta. Non utile, se non in contesti molto personali e privati, ma neppure brutta.

«Allora, che cosa hai concluso nella tua epica avventura alla ricerca della verità? Non molto, direi, a parte chiuderti in bagno a stringere la mano al tuo migliore amico.»

La domanda di Indira (con annessa derisione d’obbligo) lo colse quella sera al rientro in alloggio, un buco che avrebbe fatto sembrare lussuoso persino la topaia che si erano trovati a Oklahoma City. Erano due miniappartamenti, in teoria, uno per i tre maschi del gruppo allargato e uno per le quattro femmine, ma in realtà erano soprattutto mini: la componente “appartamento” sembrava essere stata aggiunta soltanto alla fine, come ripensamento. Ma Matteo si considerava l’esperto di sistemazioni scomode, aveva girato la galassia assieme a Chakra (o almeno aveva girato due città su due pianeti, il che era praticamente la stessa cosa) e amava immaginare di aver imparato ad adattarsi più o meno a tutto. Così apprezzava gli alloggi, anche se avrebbe apprezzato una maggiore velocità da parte dei due coinquilini nel fare la doccia e liberare il bagno: siccome quella maggiore velocità pareva molto lontana dall’entrare nel cerchio dell’apparire fenomenico, trascorreva l’attesa ciondolando avanti e indietro per il corridoio, testa bassa e cervello alla deriva. Lo ricondusse in porto per rispondere alla domanda di Indira, che lo fissava a braccia incrociate.

«Beh, sto ancora riflettendo,» disse Matteo. «Mi sono guardato un poco attorno, ma...»

«Sì, lo sappiamo cosa guardavi. Ce ne siamo accorte tutte. Ce n’eravamo già accorte a Bishapur, ma stavolta lo hanno notato anche le altre due. Non che fosse una gran sorpresa, ma perfino Sebastian sembrava vergognarsi un poco per te. Vedi tu.»

Matteo esitò. Davvero Sebastian si era vergognato per lui? Eppure non gli era sembrato... Scacciò il pensiero. Non era importante, al momento. «Dicevo sul serio. Mi sono guardato attorno in città. Per capire, non so, cosa ci fosse di interessante. Se Davide è venuto qui prima di sparire, qualcosa dovrà pure esserci, no? Voglio dire. Qualcosa, non so.»

Indira sospirò. «Ti accorgi almeno che continui a dare ragione a Chakra? Siamo venuti su Madre a cercare notizie su tuo fratello, e cosa abbiamo concluso finora? Nulla. Qualunque cosa sia successa a lui e al suo amico, continueremo a non concludere nulla. Perché non siamo investigatori, neppure sappiamo da dove cominciare. Tutto quello che abbiamo combinato è stato girare a casaccio su un pianeta primitivo, fare lavoretti degradanti per campare male e perdere tempo. Fondamentalmente è solo questo che abbiamo ottenuto: perdere tempo. E continueremo a farlo finché resteremo qui.»

Matteo doveva riconoscere che era almeno in parte vero, ma non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura. Ma c’era qualcosa sotto, c’era un motivo dietro la scomparsa di Davide, e lui lo avrebbe un giorno scoperto. Forse. Possibilmente. Prima o poi. Magari. In realtà non ci credeva più neppure lui, se mai ci aveva creduto davvero. Davide era andato e non ne avrebbe più saputo nulla. Tanto valeva lasciare perdere, tornare su Lakshmi e dedicarsi a una vita da mantenuto eterno, che era in fondo la sola cosa a cui si sentisse portato. Solo che.

Solo che l’esperienza su Madre gli aveva insegnato che c’erano altre possibilità. Non migliori o più semplici, ma altre, diverse. Probabilmente glielo avrebbe dovuto insegnare già l’anno speso in giro con Chakra, e forse era proprio questo che intendeva l’amico quando lo invitava a decidere che fare della propria vita. Non aveva funzionato allora, ma forse stava funzionando adesso. Forse perché il mondo era diverso, adesso. Aveva visto soltanto pianeti già completati, prima: magari rimanevano ancora porzioni da rifinire, ma il grosso del lavoro era concluso, le città era presentabili e tutto dava la sensazione di essere così. Finito. Non trovava niente da aggiungere.

Madre era più o meno l’equivalente planetario dello spazio sotto al suo letto. Ci trovavi di tutto e il tutto era in uno stato di degradazione quasi totale. Forse anche gli altri mondi erano stati così, anzi lo erano stati di sicuro, all’inizio. Adesso li avevano sistemati, terraformati, quello che era. Adesso li guardavi e vedevi solo il prodotto finito, pronto per la vendita. Madre non sarebbe stato un mondo finito per un altro secolo almeno. E se tutto era ancora incolto e in disordine, quasi deserto, forse di spazio ce n’era anche per lui. Forse era il luogo che stava cercando.

Probabilmente no e stava solo razionalizzando in chiave romanzesca le sue fantasie, ma non aveva importanza. Ci avrebbe pensato poi, se mai fosse stato necessario. Il punto era che per adesso aveva deciso di fermarsi su Madre anche a prescindere dalla ricerca di Davide. Perché l’idea gli piaceva e si sentiva moderatamente convinto che ne sarebbe potuto uscire qualcosa di buono. Era ovvio. Così cercò di spiegarlo a Indira, mentre attendeva di poter fare una doccia.

Indira lo ascoltò senza fare battute, una espressione quasi seria sul volto. Lo interruppe un paio di volte per chiedere spiegazioni, precisazioni, chiarire alcuni passaggi che nel discorso erano ancora più confusi del resto. Quando Matteo smise di parlare, in attesa di una risposta, rimase a fissarlo per un tempo che il diretto interessato trovò troppo lungo per essere rassicurante. Alla fine parlò.

«A me sembra una idiozia completa, ma se ne sei convinto tu...»

Matteo ne era convito e ci rimase parecchio male. «Perché una idiozia completa, scusa?»

«Perché nelle tue fantasia da costruttore di mondi c’è ben poco di realistico e molto di fantastico. Ma non importa: se va bene a te, affari tuoi, giusto? Quindi vuoi davvero restare qui a vivere come colono? Per, come dici tu, costruire il tuo spazio in un mondo.»

«Ehm, sì. Almeno per adesso.»

«Almeno per adesso, giusto. Fino a che non ti sarà passata anche questa mattana.» Indira sospirò. «Come vuoi, la nostra filosofia la conosci e nessuno te lo impedirà. Significa dunque che adesso noi ce ne possiamo tornare a casa? A vivere su un mondo evoluto?»

«Sì, direi di sì. Voglio dire, lo sai anche tu, in fondo è per questo che ho scelto di trovare un lavoro aggregandomi al Teatro, come terrestre. Perché, insomma, pensavo che...»

«Pensavi già a restare qui come colono, lo so, lo so, ho capito. Ma ancora non eri sicuro, ci dovevi pensare bene, avevi qualche dubbio, palle varie e così via. Solita storia, insomma, almeno con te.»

Seguì un momento di silenzio. Lo ruppe Matteo, che si sentiva a disagio e soprattutto cominciava ad avere davvero bisogno di andare in bagno. Sperando che nel frattempo il bagno si fosse liberato, ma era ovvio che fosse così, giusto? Ormai era quasi mezz’ora che attendeva, o così sembrava. «Così, dunque, ripartirete presto? Se volete ripartire presto, insomma. Non è per farvi fretta.»

Indira scrollò le spalle. «Non dipende da me. Bisognerà sentire gli altri due, guardare quando ci sarà un volo per Lakshmi, eccetera. Io resterei fino alla conferenza del professor Chang, che me la sono dovuta perdere quando era a Varshi, e poi tanti saluti.»

«Sarebbe il tizio dei giganti gassosi, giusto? L’ho visto quando ero su Rudra con Chakra, ma non ci ho capito molto e poi è stata abbastanza noiosa come conferenza. Ma se piace a te...»

«Non è che mi piaccia, ma sono curiosa. Sarà fra un mese circa, secondo le vostre unità di misura. Se anche gli altri saranno d’accordo, direi che potremmo partire subito dopo, col primo volo che ci sarà. Sempre che nel frattempo tu non combini qualche nuovo disastro, ovvio. Da te me lo aspetto e di solito non ci deludi mai in queste cose.»

«Grazie, ma ne faccio a meno. E poi non vedo che disastri potrei combinare da queste parti.»

«Non vedevo neppure che disastri avresti potuto combinare in spiaggia a Bishapur, ma alla fine ci sei riuscito lo stesso, alleandoti con quella malata di mente per infrangere tutte le leggi che c’erano. I tuoi precedenti non sono proprio incoraggianti, sai. Se aggiungiamo tuo fratello...»

Ma Matteo non voleva aggiungere Davide e non ne ebbe bisogno. Sharma scelse il momento giusto per uscire dal miniappartamenti, fresco di doccia e con un asciugamano ancora in pugno. Il bagno si era liberato e lui aveva pensato che fosse opportuno avvisarlo, nel caso che. Non concluse la frase, perché Matteo era già scattato con tutta l’urgenza di chi deve davvero usare il bagno, unita a quella di chi è ben contento di sottrarsi a una discussione non più gradita. Sharma lo fissò sorpreso, Indira scosse la testa e spiegò. Sharma fu ancora più sorpreso, ma l’accettazione giunse in un attimo.

«Se così ha deciso, noi non abbiamo alcunché da dire. È una sua libera scelta.»

E non dissero altro. Quella sera a cena Matteo annunciò ufficialmente la propria decisione di restare su Madre; fu accolta dalla indifferenza quasi completa. La ripeté perché magari qualcuno non aveva capito, oppure avevano frainteso, qualcosa, insomma, ecco. Di nuovo seguì l’indifferenza. «Cioè, è così, voglio dire. Ho deciso di restare come colono. Assieme a voi. Ecco. Se magari, non so, avete qualcosa da dire, un commento, qualcosa... ditelo pure, eh.»

Sebastian guardò Selina e Tunde, poi scosse le spalle. «No, direi che noi non abbiamo altro da dire. Hai deciso di restare. Ok. Fai pure. Dovrebbe essere una sorpresa?»

Matteo lo guardò. «Ehm, sì.»

«Ma non lo è. Non davvero. Hai scelto di usare il Teatro per trovare un lavoro, no? Suppongo però che tu non abbia letto tutto il contratto che hai siglato. Sei diventato un colono temporaneo. E lo sai cosa significa, vero? Te lo avevamo anche spiegato, credo.»

Matteo non lo sapeva, ma adesso sospettava di saperlo. Poteva anche sentire Indira che lo fissava e il suo sorriso che a poco a poco diventava un ghigno. «Ehm, ecco...»

Sebastian sospirò. «A quanto pare i tuoi amici avevano davvero ragione su tutta la linea. Il contratto che hai siglato, in apparenza senza leggerlo tutto, impone che tu non possa lasciare Madre durante i prossimi tre anni. In altri termini, ti vincola al pianeta. È questo che significa essere un colono, nello specifico colono temporaneo: lo sei per un limitato periodo di tempo, ma in quel periodo di tempo lo sei e rimani qui a lavorare. Una volta deciso di passare per il Teatro, era ovvio il risultato. Ecco perché nessuno di noi è sorpreso: sapevamo già che saresti rimasto qui per almeno tre anni. Quella è la durata minima e a quanto pare non l’hanno alzata o abbassata.»

Adesso che ci ripensava, a Matteo sembrava di ricordare che l’impiegato gli avesse detto qualcosa di simile, che avesse parlato di un tempo minimo da rispettare, cose così. Ma non lo aveva ascoltato davvero. Aveva pensato che fosse una specie di durata massima, qualcosa del tipo “questo vale per i prossimi X anni, poi lo dovrai rinnovare, se ti interessa continuare”. Un permesso di soggiorno, in altri termini. Si era sbagliato. Si era sbagliato su tutta la linea e anche su molti angoli, tanto per stare nel campo geometrico aperto da Sebastian. E il risultato?

Tre anni. Tre anni da passare su Madre, che gli piacesse o meno. Per una volta che si era convinto di avere preso una decisione e il futuro fosse nelle sue mani... «Ah, beh, capisco. Sì, ecco, insomma, è così. Dunque. Tre anni. sì. Beh, non c’è problema. Pensavo, pensavo che magari, sì, sarei rimasto di più, magari, e insomma, beh, già. Ottimo. Non c’è problema.»

Indira scuoteva la testa e ghignava. «Cercate di tenerlo d’occhio, se vi capita,» disse. «Altrimenti ve lo potreste ritrovare nel piatto col nome di qualche strano animale del posto.»

«Di solito non mettono il nome dell’animale. Di solito è indicata solo come carne o pesce,» spiegò Selina. «Forse non ci vogliono spaventare.»

«Cercheremo di controllarlo noi, se riusciamo,» disse Tunde. «Ma non promettiamo niente. Specie se non lo trasferiranno nel nostro gruppo. Potrebbe anche accadere.»

Matteo sentì lo sconforto accomodarsi al solito posto in prima fila. Non era accaduto, per adesso. A lui era toccato un gruppo di nuovi arrivati, in buona parte incapaci (almeno secondo il suo modesto parere) e guidati da un responsabile che pareva avere la tendenza a dimenticare il cervello in bagno, quando si preparava per uscire al mattino. Il pensiero di dover passare tre anni in quel gruppo era un incubo incarnato. Peggio, era una possibilità reale, ammantata di incubo.

«Beh, non c’è problema, staremo a vedere. A me va bene tutto,» mentì. Ne parlottarono ancora per un poco, poi la cena proseguì lungo altre discussioni e alla grande e gloriose scelta di Matteo non si accennò più. Il diretto interessato ne fu contento. Era stata una delle sue consuete figure da scemo e prima la dimenticavano e meglio era. Per lui, se non forse per tutti.

Il resto della vacanza a Bidonia sarebbe probabilmente trascorso tranquillo nonché senza risultati, se non fosse stato per il ritrovamento in spiaggia, in un pomeriggio in cui le ragazze e Sharma si erano concessi il discutibile divertimento di esaminare il museo ittico locale. O quello che passava per un museo. Selina ne aveva parlato a lungo, con un entusiasmo quasi inspiegabile, e alla fine era riuscita a trascinare quasi tutti in una visita. Matteo no. Piuttosto di visitare un museo ittico, lui avrebbe con ogni probabilità mangiato le ciabatte di Chakra, o così aveva dichiarato a Indira, quando gli aveva chiesto se si voleva accodare. Esagerando, ovvio, ma il punto era che di musei non aveva voglia, la sua dose l’aveva già ricevuta con gli interessi e adesso preferiva restare in spiaggia a osservare altri tipi di reperti, ma grazie lo stesso per l’invito.

Così Matteo era in spiaggia quel pomeriggio. In teoria ci sarebbe dovuto essere anche Sebastian, ma era sparito qualche tempo prima sostenendo di avere un impegno che proprio non voleva rinviare. Il che significava quasi di sicuro una ragazza, ma Matteo aveva preferito non indagare. Affari suoi, in fondo, e buon per lui nel caso. Il pomeriggio era caldo, per una volta sembrava davvero di essere in piena fascia equatoriale, c’erano parecchi bagnanti, c’erano soprattutto parecchie bagnanti, poteva occhieggiare tutti i costumi che voleva, furtivo e mimetico come una balenottera azzurra incastrata in una piscinetta per bambini, e insomma non si poteva lamentare davvero, anche se si lamentava ugualmente per non perdere l’abitudine.

Il grido arrivò mentre stava sbirciando una vicina di ombrellone che prendeva il sole e che aveva in ogni modo (e invano) cercato di segnalargli che le sbirciate non erano gradite. La mossa successiva sarebbe stata quasi di sicuro di alzarsi e dire a quel demente di guardare da un’altra parte, ma non ce ne fu bisogno, perché il demente in questione si girò. Verso il grido. Che non era di dolore o paura, ma sembrava di disgusto, il classico strillo di chi trova uno scarafaggio nelle proprie vicinanze e ha poco amore per insetti di quel genere. Veniva dal mare, o almeno da qualche metro dalla riva. Dopo il primo ne venne un secondo, poi una serie di voci, non urlate ma ad alto volume, incomprensibili nel loro accavallarsi. Cosa stava succedendo? Matteo si alzò e mosse qualche passo verso l’origine.

Non fu l’unico. Quel lato della spiaggia si stava animando e il suo centro era ovviamente il posto da cui il grido originario era venuto. Doveva esserci qualcosa in mare, dato che tutti guardavano verso il mare e camminavano verso il mare. Sì aggregò, poco convinto ma incuriosito.

Ed effettivamente c’era qualcosa. Un corpo, umano. Rosicchiato in alcuni punti, incrostato da detriti marini in altri, ma non particolarmente gonfio. Di tempo in acqua doveva averne passato parecchio, ma forse non ci era morto. O così suggeriva a Matteo una frazione del suo cervello, mentre tutto il resto era impegnato in altre faccende, senza dubbio migliori che guardare un cadavere spinto a riva da un gioco di correnti. Altra gente fissava, occhi e bocche aperti, altri indietreggiavano, altri invece si allontanavano proprio, forse per segnalarlo a qualcuno o forse solo perché disgustati.

Ma gli umani sono fondamentalmente scimpanzé megalomani dal pelo corto e dopo una prima fase di perplessità e forse spavento cominciarono a comportarsi da umani. Un ragazzo si sistemò in posa accanto al cadavere, mentre due amici fotografavano. Altri filmavano, improvvisando commenti in una voce da cronista. Altri ancora, che in un primo momento si erano allontanati, tornavano adesso coi soccorsi, ossia amici, parenti e qualsiasi aggeggio potessero utilizzare per immortalare l’evento. Qualcuno commentò che avrebbero dovuto chiamare i militari, ma non si mosse. Un altro rispose di no, che tanto non ce n’era bisogno: sarebbero arrivati da soli in un momento, lo sai anche tu. Altri si unirono alla discussione, aggiungendo pareri o anche solo voci e confusione. Alla fine sembrarono accordarsi su un punto: era un problema altrui e non li riguardava.

Matteo lo trovò un comportamento assai discutibile. Erano umani, che diamone! Avevano davanti il cadavere di un altro essere umano. Un minimo di decenza, suvvia! Non lo diceva anche Terenzio, lì, che homo sum e qualcos’altro che al momento non si ricordava? Davvero, c’era da vergognarsi. Era proprio segno che ormai non esistevano più i sani valori di una volta e la gente pensava soltanto a se stessa. Così, a dimostrazione del più profondo sdegno morale che provava, rimase immobile sulla spiaggia a fissare il cadavere, scuotendo di tanto in tanto la testa e pensando che qualcuno si sarebbe dovuto decidere a fare qualcosa. Era indecente che nessuno agisse.

Poi qualcuno fece qualcosa: rigirò il corpo, forse per avere inquadrature migliori, forse solo perché curioso di sapere chi fosse. Matteo vide il volto. Un volto che conosceva, che riconosceva, ma che non aveva senso. Pure, lo vedeva, quindi doveva essere reale. Era un poco più vecchio di come se lo ricordava, e i pesci o qualunque altra cosa ci fosse in mare ne avevano assaggiato le orecchie e il naso, oltre a qualche altro morso qui e là, ma i lineamenti restavano, grossomodo, ed erano familiari come può esserlo il cane del vicino, che ti abbaia sempre sotto la finestra. Matteo lo aveva visto più volte in casa, ancora più spesso attorno a casa, e sempre assieme a Davide. Lo aveva visto solo sulla Terra e si era augurato di non doverlo più rivedere. Non che vi avesse mai pensato, in realtà. Era un relitto del passato, arenato nei fondali meno frequentati della sua memoria.

Vi pensava adesso. Lo rivedeva adesso, sulla spiaggia di un altro pianeta, a trent’anni luce da quella Terra su cui entrambi erano nati e cresciuti. Il cadavere portato a riva dalla corrente era Amir, amico di Davide. Matteo lo fissò ancora per un poco, poi si allontanò in cerca di un angolo tranquillo dove vomitare con decoro. Gli era passata la voglia di sbirciare le bagnanti.