Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 54

Bogdan Stratos era moderatamente calmo, quando entrò nell’ambasciata terrestre di Guan Yu, mani in tasca e occhiali a proteggerlo dalla luce eccessiva della città e del pianeta in generale. E sorriso? Quello no, non proprio, ma era sceso in tutta tranquillità dalla collina, si era lasciato trasportare fino alla piazza in cui sorgeva l’edificio, aveva anche accettato di fermarsi per lasciare la precedenza a un paio di coleotteri cresciuti troppo e male, o almeno a due cosi che, con una certa dose di fantasia, potevano ricordare i coleotteri terrestri. Senza fretta, senza scomporsi, imperturbabile quasi come la statua che ha sopportato secoli di piccioni e resiste ancora. Si sentiva anche come una statua, a dire il vero: ricoperto di escrementi. Virtuali, ma sempre escrementi.

Era ancora moderatamente tranquillo, sedendo nell’ufficio di Hideki Einarsson e annunciando la decisione di tornare sulla Terra al più presto, perché il suo lavoro lì era finito. La maschera di puro e buddhistico distacco dalla impermanenza del tutto si scostò soltanto un poco mentre parlava, ma nel complesso mantenne la propria posizione, coperchio sulla pentola che bolliva. A guardarlo, pareva quasi che avesse assorbito bene il colpo, digerendolo con uno stomaco da struzzo. Il che non era vero, ma ci andava abbastanza vicino. Bogdan non aveva digerito un bel niente, né pensava che lo avrebbe digerito mai, al momento, ma contava sulla divina retribuzione che sarebbe giunta a breve dall’Ufficio per la Colonizzazione, a colpire il colpevole e scuoiare il ladro Muzafar Chang. Perché sarebbe giunta, giusto?

La risposta di Hideki Einarsson fu un mazzapicchio in piena fronte, che gli frantumò la maschera di divina indifferenza e lo consegnò a una realtà di agitazione con brio e sottofondo di viva rotazione gonadica. Bogdan lo fissò come se un pupazzo a molla gli fosse appena uscito dal naso.

«Come sarebbe che per adesso Leonardi non farà niente?»

«Sarebbe esattamente come ho appena detto,» gli spiegò Einarsson. «Tornare sulla Terra subito o tra due mesi non farà alcuna differenza, perché per adesso il dottor Leonardi non prenderà decisioni e non darà alcun permesso di andare su Madre, sondare i giganti gassosi o qualunque altra azione tu abbia in mente di svolgere. Almeno, nel caso questa azione richieda un intervento dell’Ufficio: se ti vorrai andare a ubriacare in solitudine nel tuo bar terrestre preferito, invece, allora nessuno ti vieterà di farlo dato che, per l’appunto, è un’azione che non richiede un intervento dell’Ufficio.»

«Cosa significa?»

«Significa che il tuo amico, il professor Chang, ha scelto il momento giusto per presentare i risultati della sua ricerca e raccogliere onori e gloria per la sua scoperta, partendo per un ciclo di conferenze qui e là sugli altri mondi coloniali. Ha scelto un momento sospettosamente giusto, aggiungerei: il dottor Leonardi non è nelle condizioni fisiche per poter intervenire di persona e questo garantirà a Svarga un certo intervallo di impunità, prima che l’Ufficio possa intraprendere una eventuale azione legale contro questo Muzafar Chang o chi per lui.»

«Non è nelle condizioni fisiche? Spiega.»

Hideki Einarsson spiegò. Leonardi era in discutibili condizioni di salute già da qualche tempo, forse da parecchio tempo, anche se aveva sempre cercato di nasconderlo. Adesso, però, ogni tentativo di camuffamento era andato in pezzi, così come una bella fetta del suo intestino, ed era stato costretto obtortissimo collo ad accettare il ricovero, in vista di un intervento chirurgico che avrebbe sostituito circa quattro metri delle sue budella. La nuova copia della sua personalità era stata salvata, per ogni evenienza, e in teoria avrebbe potuto prendere il posto del Leonardi corporeo almeno per il periodo che avrebbe trascorso in clinica, ma la situazione era ancora piuttosto complicata e l’Ufficio per la Colonizzazione galleggiava in una vaga incertezza esistenziale, che lo rendeva più o meno nullo sul piano pratico. Temporaneamente, sia chiaro, ma temporaneamente poteva bastare, almeno a Svarga.

«Queste, naturalmente, sono le notizie che ho ricevuto io. Potrebbero esserci stati aggiornamenti dopo l’ultimo messaggio, è probabile che ci siano stati, ma al momento siamo tutti in uno stato di attesa e sospensione, qui all’ambasciata. Il Direttore Gemelos non è proprio un uomo di azione, men che meno di azione rapida e diretta, e... Beh, il ricovero di Leonardi è stato alquanto improvviso e imprevisto e non tutti lo hanno già assorbito e metabolizzato.»

«Quindi non si farà nulla contro Muzafar?»

«Si farà, ma non subito. Svarga ha scelto il momento giusto per colpire, se la vuoi mettere in questi termini. Sospettosamente giusto, come dicevo prima. Ci sarà un procedimento legale ed è certo che l’Ufficio lo vincerà, alla fine, ma... Alla fine, appunto, mentre noi qui non siam neppure all’inizio. Per adesso, tutto è immobile: anche tornando sulla Terra domani stesso, se mai fosse possibile, il tuo lavoro non accelererà. Sei in lista di attesa, come parecchie altre attività più importanti della tua, e resterai in lista di attesa fino a che Leonardi non si sarà ripreso, o fino a che l’Ufficio non si sarà riorganizzato senza di lui o attorno alla sua assenza, mettila come preferisci.»

«Andare o restare non fa alcuna differenza, dunque. Dovrò girare i pollici per chissà quanto, mentre Muzafar continua il suo tour e magari mi precederà in nuove scoperte. Fantastico, davvero.»

«Improbabile che ti preceda in uno studio diretto dei giganti gassosi, no? Se non li puoi raggiungere tu, che lavori per l’Ufficio, figurati uno come lui, che ha appena pubblicato uno studio censurato da Leonardi. No, non ti precederà di sicuro, non sul posto, a meno che non ci siano sconvolgimenti più che incredibili nelle politiche interplanetarie e nelle leggi che disciplinano l’autorità dei mondi sul proprio territorio. O a meno che Madre non si ribelli alla Terra e proclami l’indipendenza, il che non potrà succedere ancora per almeno qualche anno, data la sua quasi nulla autosufficienza economica ed energetica. No, di questo non ti devi preoccupare, davvero.»

Bogdan si sgonfiò sulla sedia, strofinandosi la faccia. «E il ministro Hass cosa dice?»

«Il ministro Hass si rammarica per come si è conclusa la vicenda della tua presentazione, esprime il suo disappunto per il furto di cui sei stato vittima e auspica che l’intera faccenda possa comunque concludersi in una vittoria per la scienza e la conoscenza umana, che ha mosso un altro passo verso una più profonda comprensione dell’universo e delle leggi che lo regolano. È un brutto colpo per un uomo, defraudato del successo che avrebbe meritato, ma un grande passo per l’umanità. E così via.» Hideki Einarsson sorrise, Bogdan Stratos no.

«Quindi pure lui non farà niente.»

«Oh, prenderà sicuramente le tue parti, quando si arriverà a un processo, ma non bloccherà la libera circolazione della tua ricerca, né si opporrà alle conferenze del professor Chang. Non che comunque potrebbe farci molto: è il ministro della Difesa terrestre, non lo sceriffo della galassia.»

«Pensavo che gliene fregasse qualcosa di me.»

«Pensavi male. Al ministro interessa il risultato della ricerca, non la mano che glielo porge. Vuole scoprire il più possibile su Madre e il suo sistema solare, di qualsiasi cosa si tratti: che lo studio di Madre sia aperto al maggior numero possibile di scienziati e di pianeti è nel suo interesse, capisci? Chi sia effettivamente a raccogliere questi risultati è del tutto indifferente. Comunque, il ministro è un uomo che conosce la parola “riconoscenza” e si ricorda anche di utilizzarla, forse non sempre ma piuttosto spesso: il merito di avere aperto una nuova frontiera per gli studi su Madre è tuo e lui si impegnerà perché la paternità ti sia riconosciuta.»

Bogdan sbuffò. Fantastico. Stupido lui a illudersi che potesse andare diversamente, ma ricevere una conferma ufficiale del proprio ruolo di strumento non è mai piacevole, specie per l’autostima. Più stupido ancora era stato fidarsi di Muzafar, all’inizio, e pensare che fosse una brava persona, nonché uno scienziato migliore di Vihersalo. Scienziato migliore lo era, d’accordo, perché almeno era uno scienziato, ma brava persona? Bravo attore, semmai. Bravo simulatore.

«Quindi dovrò starmene qui ad aspettare.»

«Non devi: puoi. Se vuoi tornare subito sulla Terra, potrai farlo alla prima occasione utile: non so quando partirà il prossimo volo dalla stazione di Yi-Wu, ma si può scoprire in un attimo. Sappi però che anche sulla Terra dovrai restare seduto in un ufficio ad aspettare, dato che la situazione adesso è piuttosto confusa e la tua priorità è molto bassa. Vedi tu dove preferisci metterti comodo a girare i pollici, insomma. Per me non fa alcuna differenza, come ti ho detto.»

Bogdan Stratos uscì dall’ambasciata di un umore che prometteva violenti rovesci anche a carattere temporalesco, più o meno opposto alle condizioni meteo della tiepida giornata di soli che si apriva attorno a lui. Avrebbe scalciato o calpestato più che volentieri gli insetti che di tanto in tanto gli attraversavano la strada, adesso, altro che spostarsi e lasciarli passare come aveva fatto all’arrivo. Li avrebbe calpestati soprattutto quando si fermavano e si giravano verso di lui a fissarlo, forse anche a deriderlo. No, ok, probabilmente a deriderlo no, ma avere quegli occhi che lo seguivano, anche solo per un momento, era alquanto fastidioso. Si sentiva studiato e analizzato, questo sì, e al momento l’idea di essere studiato e analizzato da quegli affari svarghiani gli appariva fastidiosa oltre ogni misura. Perché il loro sguardo gli ricordava vagamente gli occhi semiartificiali di Muzafar Chang, mister Ladrone, il signor Famoso-A-Spese-Tue.

Ce n’erano parecchi per strada, quel giorno. Era una specie di festività locale? La sagra degli sgorbi a tante zampe? La giornata mondiale degli insetti? Fosse come fosse, a volte era costretto a cedere il passo anche contro la propria volontà e i propri istinti, nei punti in cui le piste insettabili (o come cavolo le dovevi chiamare) incrociavano il marciapiede per gli umani. In condizioni normali non gli avrebbe dato fastidio, non era poi così irritabile e gli insetti non gli avevano mai causato problemi, neppure nelle estati lakshmite, dove ti circondavano a sciami, ma al momento lui non si trovava in condizioni normali. Non sei in condizioni normali, dopo che il tuo tutore ha rubato e pubblicato a nome proprio la tua scoperta e tu non ci hai potuto fare niente, perché i tuoi diretti superiori ti hanno chiesto (o intimato, a seconda dei punti di vista) di non pubblicarla fino a che non avessero potuto accertare, verificare o qualcosaltrare.

No, Bogdan non si sentiva decisamente in condizioni normali. Si sentiva però in condizioni perfette per sfogarsi su qualcosa, carico di una tensione che cercava solo un bersaglio su cui scaricarsi. O contro cui scaricarsi, che è la stessa cosa. Tipo quegli insetti che giravano ovunque e sembravano lì proprio per questo, come mostri anonimi di un videogioco. Li avrebbe macinati sotto la suola delle scarpe, girando e rigirando fino a trasformarli in macchie espressioniste sul marciapiede, magari con un crac molto soddisfacente quando il suo piede li comprimeva. Non perché avesse qualcosa in particolare contro gli insetti svarghiani in quanto tali, ma solo perché avrebbe voluto danneggiare in qualche modo il pianeta che lo aveva danneggiato, rubandogli la scoperta, e gli insetti sembravano fatti apposta gridavano «Sono qui! Schiacciami, schiacciami!» o qualcosa del genere.

Posizione infantile, certo. Posizione inutile, ovvio. A volte, però, il bisogno di sfogarsi va al di là di razionalità e utilità: a volte avverti solo il bisogno di rompere qualcosa, per illuderti di avere più o meno pareggiato i conti tra te e l’universo, o almeno di averli riequilibrati un poco. Ne avvertiva il bisogno, Bogdan, ma non lo fece: come gli aveva spiegato Anna Lindtner, c’erano multe orribili per chi uccideva un insetto e non era il caso di peggiorare la situazione, rimettendoci anche su un piano economico. Grazie per l’offerta, ma passo.

Non sembravano però esserci multe orribili per chi rubava il lavoro di un’altra persona. O forse non c’erano per chi rubava il lavoro di un terrestre. No, pessima corrente di pensieri: meglio fermarsi al banale e tradizionale furto accademico, senza buttare nella macedonia anche elementi di razzismo, complotti planetari e palle varie. Muzafar Chang voleva studiare i giganti gassosi di Madre, gli era capitato sotto mano un ricercatore in trasferta, che disponeva di tutti i dati che interessavano a lui, e il buon professor Chang aveva deciso di allungare la manina e servirsi a proprio piacimento, specie dopo che il giovane ricercatore aveva deciso di non pubblicare subito la sua ricerca. Per tacere poi di Hu Chen, il luminare della planetologia.

Sì, Bogdan preferiva tacere del professor Hu Chen. Non era stato proprio un suo idolo, non aveva mai avuto idoli veri e propri, ma una persona rispettata e stimata? Questo sì. Un esempio di come un planetologo si sarebbe dovuto comportare, a differenza dei tizi che aveva attorno all’Ufficio. Poi c’era stata la discussione sulla ricerca da pubblicare e tutto era cambiato. Era passato Nietzsche col suo martello e aveva fatto a pezzi tutto ciò che vedeva, schiacciandosi un paio di volte il pollice.

Il dottor Leonardi vuole tenere nascosti i risultati, fino a che non li avrà verificati lui o quant’altro. Lascia che ce ne occupiamo noi della fondazione Chen-Cohimbra: li attribuiremo a uno dei nostri e li diffonderemo a nome suo. Poi, quanto tutto si sarà calmato, vedrai che il merito sarà riconosciuto a te, come è giusto che sia. Questo gli aveva proposto il professor Hu Chen, ma lui aveva rifiutato. Si sarebbe bruciato la possibilità di studiare il nucleo dei giganti gassosi con una sonda, un drone o una cosa del genere, perché qualche metodo doveva pur esserci, ma l’Ufficio gli avrebbe sbattuto la porta in faccia o sulle dita, se avesse accettato un giochetto di Svarga.

Evidentemente, Hu Chen aveva deciso di gettare la seconda parte della sua offerta ma attenersi alla prima: ricerca pubblicata a nome di Muzafar Chang, onori e gloria a lui... E a Bogdan? Tanti saluti e sentiti ringraziamenti, aha. E Leonardi era andato a scegliere proprio quel momento per ammalarsi, farsi operare o quello che era. C’era ancora qualcosa che potesse andargli male?

La risposta era sì, ma l’avrebbe scoperto solo più tardi.

E dire che, da parte sua, riteneva di essersi comportato nel migliore dei modi, con un atteggiamento adulto e responsabile anche davanti ai colpi più bassi. Come quello che gli aveva rifilato Muzafar stesso, due giorni dopo la conferenza. Si era presentato alla porta dello sgabuzzino che fungeva da ufficio personale di Bogdan, ancora vestito a festa e preceduto da un sorriso che pareva pronto per la pubblicità di un dentifricio. E come va, e come non va, ma che piacere vederti ancora qui, temevo che tu, magari, ma invece sei rimasto, eh, lo so, lo so, non me ne parlare. E blablabla, blablabla.

Bogdan aveva avvertito un impulso quasi resistibile a verificare se le sue nocche potessero formare un pezzo unico con le labbra del dottor professore grande scopritore, ma aveva saputo rimuovere il quasi e resistere, in quella particolare circostanza. Rimodellare la dentatura di Muzafar sarebbe stato di certo gratificante a breve termine, ma era probabile che gli avrebbe causato problemi sul lungo periodo. Così gli aveva risposto mostrando le zanne in quello che poteva sembrare un sorriso, poi una stretta di mano, poi tutta l’altra paccottiglia che accompagna sempre i rapporti interpersonali, soprattutto se fasulli, e qui e là, amici come prima, che ti esplodesse una vena nel cervello. Ma era stato ben difficile, quando quel verme svarghiano aveva avuto pure il coraggio di ringraziarlo per il prezioso aiuto nelle ricerche. Il prezioso aiuto.

«Non sarei mai arrivato a questa grande scoperta, senza di te,» aveva detto Muzafar Chang. «È stata una vera fortuna poter lavorare con un ricercatore del tuo calibro, davvero. Chiederò al professor Hu Chen in persona di ricompensarti per la tua collaborazione con le migliori referenze possibili.»

Il che era vero, così vero da suonare offensivo. Muzafar non sarebbe mai arrivato a quella grande scoperta senza di lui, dato che era stato lui a fare la grande scoperta: Muzafar aveva solo raccolto e intascato. Ma era il caso di farglielo notare? No, perché lo sapeva già. Era addirittura possibile che il buon tutore glielo avesse detto con una punta di ironia, ammesso e non concesso che possedesse un reale senso dell’umorismo. Aveva saputo solo sfornare battute deprimenti, nei lunghi mesi in cui avevano collaborato, ma non si poteva mai dire, giusto?

Bogdan aveva ringraziato, mostrando le zanne che ancora mancavano e recitando nel segreto della propria mente un mantra di bestemmie e maledizioni, tutte dedicate al chiarissimo professor Chang. Non aveva una faccia: aveva le natiche di almeno quindici elefanti appiccicate sulla parte anteriore del cranio. Poi Muzafar gli aveva fatto almeno il favore di levarsi dalle palle e sparire dalla sua vista per sempre, se c’era giustizia nella galassia. Tanti viaggi lo attendevano, molte conferenze su questo e quel pianeta: troppe cose da fare e troppo poco tempo per farle, ma aveva almeno voluto passare dal suo caro collaboratore terrestre per ringraziarlo dell’aiuto.

Così il professor Chang si era allontanato, camminando come se avesse un grappolo di emorroidi pronte a scoppiare, salutando con un cenno di mano e un sorriso chiunque trovasse sulla sua strada. Nell’ufficio-loculo verticale era tornata la calma. Bogdan aveva speso quasi un’ora a spostare qui e là oggetti che non avevano bisogno di essere spostati e ad aprire e chiudere files, senza avere alcun motivo per aprirli o per chiuderli. Sarebbe stato più utile cominciare a lavorare sul progetto con cui si sarebbe dovuto presentare all’Ufficio, una volta tornato sulla Terra, ma non ne aveva la forza, né la concentrazione. Non in quel momento, almeno.

Ciò che lo aveva mantenuto moderatamente sereno e non violento, fino all’incontro con Einarsson presso l’ambasciata terrestre, era la consapevolezza che, presto o tardi, la vendetta di Leonardi si sarebbe abbattuta su Muzafar e magari anche su tutta la sua fondazione. Perché il dottor Leonardi lo sapeva bene chi fosse l’autore della scoperta, sapeva bene che l’autore aveva accettato di mantenere nascosta la scoperta, come richiesto dall’Ufficio stesso, e sapeva o almeno immaginava perché lo avesse fatto: perché l’Ufficio gli concedesse uno studio diretto dei nuclei. Di conseguenza, l’Ufficio avrebbe sicuramente denunciato Muzafar, o querelato, o come cavolo si diceva. Giusto? Perché la scoperta era stata rubata a un dipendente del suddetto Ufficio e l’Ufficio tutela sempre i dipendenti, soprattutto quando di mezzo c’è Madre. O forse tutelava Madre e indirettamente anche gli eventuali dipendenti che vi avessero qualcosa a che fare. Dettagli.

Poi Einarsson arriva e gli dice che per adesso non si sarebbero mossi, perché Leonardi era malato, moribondo, mummificato, qualcosa del genere. E lui? Cosa doveva fare, lui? Inghiottire e tacere, ecco cosa avrebbe dovuto fare. E aspettare il giorno della vendetta. Compito molto più facile da dire che da realizzare in concreto. Oh, poteva anche fantasticare su un qualche accidente o incidente che sarebbe potuto capitare a Muzafar durante il suo tour glorioso tra i mondi coloniali. Qualcosa che fosse doloroso e umiliante, ma soprattutto definitivo. Stroncato da un infarto mentre è seduto sulla tazza del bagno in preda a una orribile colite. Soffocato da una nocciolina che gli si conficca tra le corde vocali, mentre si vanta dei propri trionfi a un ricevimento lussuoso. Una morte peggiore che al momento non riusciva ancora a visualizzare. Poteva, certo.

Ma non gli dava alcuna soddisfazione, perché Muzafar si godeva il trionfo, il suo trionfo, mentre lui era costretto ad aspettare e ad ammuffire all’ombra, con solo una vaga speranza che qualcun altro lo avrebbe vendicato. Il che era umiliante. Non poteva farci qualcosa lui? Non riusciva a pensare a un modo per pareggiare un poco la situazione? Rivendicare la propria scoperta no, al momento era ben al di là delle sue possibilità, ma qualcosa? Avrebbe desiderato, ma non sapeva cosa.

Mugugnando e meditando sulle ingiustizie della vita, Bogdan era arrivato di nuovo alla fondazione Chen-Cohimbra, sulla collina. Un tempo, mesi prima, aveva guardato a quell’edificio come alla sua terra promessa, il luogo in cui avrebbe realizzato tutti i suoi sogni. Si era sbagliato. Era soltanto un edificio basso, tozzo, luccicante e puzzava un poco di formaggio, grazie alla mensa e all’alimento principale di tutti i pasti, dalla colazione fino allo spuntino di mezzanotte. Ed era anche infestato di insetti, maledizione! Che voglia di sterminarne il più possibile.

Chissà come se la passavano i suoi ex amici su Lakshmi? Era un pensiero a cui non si dedicava mai, o quasi mai, ma l’immagine del suo recente fallimento gli aveva inevitabilmente riesumano nella coscienza il volto di Matteo Kori, lo strano tizio che era andato su un altro pianeta a studiare una tra le cose più inutili che Bogdan riuscisse a concepire: letteratura. Letteratura dei mondi coloniali, un argomento che forse solo una manciata di persone al mondo poteva trovare interessante. Sì, ecco un tizio che nella vita non avrebbe mai combinato nulla. Era consolante. Non migliorava il suo umore, ma almeno era qualcosa di positivo: il ruolo di buco del culo della galassia non apparteneva a lui, per lo meno. E piuttosto che niente...

Una specie di libellula formato famiglia gli passò davanti al naso, quasi sfiorandolo. Bogdan ritornò al presente di Svarga, abbandonando ogni pensiero blandamente nostalgico della vita da studente su Lakshmi. Era nel giardino, o in quella porzione di terra piena di erba e alberi che faceva funzione di giardino per la fondazione, e una libellula gli girava attorno. Ed era solo, con le piante che offrivano un riparo passabile, rendendolo difficile da notare o riconoscere per un eventuale guardone che, per motivi tutti suoi, magari aveva deciso di perdere tempo vicino alle vetrate, invece di studiare.

Bogdan respirò a fondo, concentrandosi sulla libellula che non era una libellula, ma la ricordava alla lontana, con una discreta dose di creatività. Era lunga quasi come un passero, con otto paia di ali e pure quattro zampe, tanto per non farsi mancare nulla. Poteva averne già visto alcuni esemplari, in precedenza, ma gli insetti non rientravano tra i suoi interessi e ricordarli sarebbe stato un spreco di tempo e di energie mentali. Sapeva però che la libellula era davanti a lui, nessuno lo guardava e, per quanto ne sapeva, nel giardino non c’erano telecamere o droni di sorveglianza. E quindi.

Agì con la rapidità di un rospo, che scaglia la lingua per afferrare una mosca di passaggio. Ma non era la lingua e non era una mosca: erano le sue mani, che si chiusero in un applauso attorno al corpo della libellula. Il ciac che ne seguì fu gratificante, quasi tonificante: come schiaffeggiare la faccia di Muzafar, sorridente, se entravi nel corretto stato mentale e correggevi un poco le sensazioni tattili che la pelle ti trasmetteva, perché schiacciare quell’affare non era proprio come colpire con forza la guancia di un essere umano. Molto più simile a un frutto in avanzato stato di decadimento, semmai, e con una buona dose di lati negativi, come la macchia alquanto sgradevole e larga sui palmi delle mani, verdognola e rossastra, o i frammenti che gli finirono in faccia, o anche il fetore vagamente escrementizio che si liberò nell’aria. Dettagli. La pura gioia della caccia e il sapore di una vendetta infantile e insensata cancellarono ogni effetto collaterale, almeno per il momento, riempiendolo di soddisfazione genuina, non adulterata da pensieri.

Quelli arrivarono subito dopo, mentre cercava di ripulirsi alla meglio con un fazzoletto. Azione che non diede i frutti sperati, ma gli concesse tutto il tempo per assaporare il gesto, i suoi risultati, le sue proiezioni psicologiche e deformati. In altri termini, fantastico su quello che aveva spiaccicato e lo proiettò verso i bersagli reali, ma inspiaccicabili, che danzavano oltre la sua portata manuale.

Prendi questo, Svarga! Prendi questo, pianeta di ladri senza dignità! Prendi questo, fondazione che ti arricchisci e ti ingrassi succhiando il lavoro dei ricercatori che un altro mondo ti ha prestato. Spiaccicare un insetto non aveva molto senso come vendetta, ma non cercava certo un senso: solo la soddisfazione, solo un mezzo per scaricare i nervi, i giorni e giorni di frustrazioni accumulate e represse. Peggio per la libellula, che si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. O nel posto giusto al momento giusto, a seconda della posizione che assumevi. Smise di ripulirsi le mani col fazzoletto, capendo l’inutilità del suo tentativo: le avrebbe dovute lavare e disinfettare per una decina di minuti sotto l’acqua calda, una volta tornato all’alloggio, aggiungendo per sicurezza una doccia completa. Faceva davvero schifo, quell’insetto.

Non le avrebbe lavate e disinfettate, né al rientro in alloggio né poi. Altri lo avrebbero forse fatto al posto suo, ma lui non sarebbe stato nelle condizioni di preoccuparsi delle mani. Perché dietro di sé sentì un ronzio, un forte ronzio, quando aveva quasi raggiunto un ingresso dell’edificio. Che poi, se lo ascoltavi meglio, non sembrava proprio un ronzio forte, ma una somma di ronzii normali, la cui combinazione li faceva sembrare un rumore unico e intenso. Bogdan non ascoltò meglio, o anche solo bene. Era ancora perso in pensieri di rivalsa e il suono era soltanto un dato curioso e un poco fastidioso, verso cui si girò, distratto e disinteressato.

Qualcosa lo schizzò negli occhi. Era un liquido caldo, un poco appiccicoso, ma soprattutto bruciava come neppure l’acqua salata su una ferita sanguinante. Bogdan strinse le palpebre e si portò le mani alla faccia, la strofinò, cerco di ripulirla dal succo doloroso che la copriva. Gli avevano spruzzato acido in faccia? E chi? Cosa? Perché? Gemeva e bestemmiava sottovoce, troppo cieco per guardarsi attorno, troppo sorpreso per capire cosa stesse succedendo.

Cos’era quella roba? Gli occhi! Cosa gli avevano schizzato negli occhi? Non vedeva e al momento non pensava neppure con lucidità: un dolore schifoso sembrava scorrergli lungo i nervi ottici, fino a piantargli spilloni nel cervello, e non era certo un buon viatico per il pensiero calmo e raziocinante, o per il pensiero e basta. Si riempì i polmoni per urlare, chiamare aiuto, ma non urlò. Sentì un ago, una puntura sul collo. Poi un’altra, stavolta sul braccio destro. E sul sinistro. E ancora sul collo, e ogni puntura era un chiodo rovente, supplizio da santa inquisizione somministrato nel buio dei suoi occhi che bruciavano. Buio e dolore che gli consumavano la calma e la razionalità. Era spaventato, quasi terrorizzato. Punto.

Con un grido soffocato, il massimo che la sua gola potesse produrre, Bogdan si accasciò sulla ghiaia del giardino, di fronte a un ingresso secondario della fondazione Chen-Cohimbra. Se lo punsero di nuovo, lui non lo sentì: si era preso una vacanza dal mondo e dalla coscienza. Non la più piacevole delle vacanze, nel caso specifico, ma vacanza fu e ben meritata.

Hideki Einarsson accompagnò con lo sguardo l’uscita di Bogdan Stratos, poi si rilassò nella sedia. E anche quella pratica era smaltita. Si sarebbe aspettato maggiori resistenze, maggiori problemi, ma il suo sorvegliato era stato piuttosto comprensivo e calmo, nella circostanza. Il suo ex sorvegliato: il messaggio del ministro Hass lo aveva sollevato dall’incarico, adesso che l’utilità del planetologo su Svarga era terminata. Aveva scoperto quello che doveva scoprire, la notizia era stata diffusa, tutto è bene quel che finisce bene, eccetera eccetera. Ci sarebbero stati ulteriori usi per il giovane, dopo il rientro di Leonardi o comunque una volta che l’Ufficio avesse ritrovato l’ordine necessario per una seria campagna di esplorazione dei giganti gassosi. Per adesso, però, controllare Bogdan Stratos da vicino non serviva più. Che si arrangiasse da solo.

A Hideki andava benissimo. Aveva inoltrato al ministro Hass anche un rapporto su quanto scoperto fino a quel momento in merito agli insetti di Svarga e al loro possibile utilizzo, chiedendo che gli fosse concesso un prolungamento della permanenza sul pianeta, per approfondire e investigare. Una richiesta che Hass aveva accettato, senza discutere. Poteva restare su Svarva finché voleva, diceva il ministro: non c’erano altri incarichi per lui, al momento, ed era libero di continuare quel lavoro che si era autoassegnato. Avrebbero provveduto loro a informarlo, quando era tempo di tornare all’ovile per un nuovo lavoro. Intanto poteva usufruire di un periodo di riposo semipagato.

Semipagato. Hideki aveva sorriso. Ministro o meno che fosse, Hass restava sempre Hass. Oh beh, non aveva in programma spese folli, anche se il costo della vita su Svarga non era proprio basso. Se gli consentivano di mantenere un alloggio all’ambasciata, con vitto incluso, il resto non gli avrebbe richiesto molti soldi: giusto le spese per i viaggi e affini. Poca roba.

Con quel pensiero contattò il professor Tjan Tjoe Som, che insegnava sociologia entomologica alla locale università e che Kaya Farrell gli aveva indicato, nel corso della sua visita. Solo uno dei nomi che gli aveva fornito e forse neppure il più importante, ma da qualche parte bisognava cominciare e il nome del suo corso suonava almeno promettente, magari anche interessante. E utile? Chissà, con un poco di fortuna sì, ma in ogni caso lo avrebbe aiutato a stabilire un piano per i prossimi incontri.

Anche al di là di un eventuale utilizzo militare o civile degli insetti, scoprire quanto più possibile sul pianeta e i suoi punti di forza (e debolezze, ovvio) sarebbe tornato comodo nel suo lavoro. Sarebbe stato ancora più vantaggioso vista la tensione tra Terra e Svarga, che sembrava prepararsi nel futuro prossimo. A Leonardi non sarebbe piaciuto il furto della scoperta sui giganti gassosi di Madre. Che la scoperta fosse stata diffusa, poi, gli sarebbe piaciuto ancora meno. Avrebbe anche reagito con una qualche scemenza? Il ministro Hass lo riteneva improbabile, ma riteneva anche che fosse sempre meglio prevenire che curare. Pensiero saggio, secondo Hideki.

Il professor Tjan Tjoe Som (qualunque fosse il nome o il cognome) gli disse che era libero tra tre giorni e lo avrebbe potuto ricevere nel suo studio presso l’università di Guan Yu. Perfetto. Aggiunse che non avrebbe potuto concedere più di un’ora, perché era periodo di esami e gli studenti avevano la priorità. A Hideki andava bene anche quello. Se necessario, però, sarebbe stato disponibile per un incontro in un tempo successivo, dopo la sessione estiva, quando avrebbe potuto concedergli anche un incontro più lungo. Hideki disse che non pensava sarebbe stato necessario, al momento, ma se ne sarebbe potuto discutere poi, al termine del primo incontro. Ringraziò, salutò, chiuse il contatto.

Spulciò tra gli impegni della giornata, vide che si potevano contare sulle dita delle mani di un polpo e sorrise. Il suo programma ideale, davvero. Fuori splendeva un sole, il secondo era tramontato da poco, la temperatura era gradevole e restare tappato in ambasciata sarebbe stato un crimine contro il buon senso e l’umanità. C’erano sempre cose da imparare, per le vie di Guan Yu. Cose da osservare, anche. Cose che poteva tornare utile sapere, se eri fortunato. Hideki Einarsson non era solitamente fortunato, o almeno non si riteneva così, ma la fortuna non aveva alcuna rilevanza: se non ce l’hai, te la puoi costruire da solo, oppure farne senza e arrangiarti.

In fondo, cosa sono fortuna e sfortuna? Termini per descrivere risultati che non conosci, perché non sai o non vuoi conoscerli. Niente di soprannaturale, niente per cui valga la pena di porsi problemi. Il caso è solo qualcosa che non hai ancora i mezzi per prevedere e calcolare, niente di più. Di per sé, il caso non esiste, o questa era l’opinione di Hideki Einarsson, mentre si preparava a uscire e dedicarsi a una nuova giornata di osservazione diretta del comportamento urbano degli insetti svarghiani.

Come avevano fatto gli abitanti di Svarga a convincere i loro coinquilini non umani a rispettare le zone della città riservate a loro? I percorsi stradali, ad esempio. Hideki aveva chiesto a Kaya Farrell e la spiegazione gli era suonata convincente, anche se un poco troppo tecnica per i suoi gusti. Se poi fosse anche una spiegazione corretta e vera, e soprattutto se corrispondesse ai fatti, era qualcosa che avrebbe desiderato verificare. Quel Tjan Tjoe Som, supposto professore di sociologia entomologica, gli avrebbe saputo rispondere? Difficile, ma un tentativo non avrebbe fatto male.

Secondo la Farrell, i primi percorsi riservati agli insetti erano stati ricoperti e imbevuti di un ormone che li attirava, lo stesso che i suddetti insetti secernevano e usavano per marcare le proprie piste. In teoria. In pratica non era certo se l’ormone servisse a marcare le piste, oppure se fosse solo una scia che gli insetti lasciavano involontariamente, più o meno come le impronte che lasci camminando su una superficie cedevole. Fosse come fosse, le zone che visitavano più di frequente erano piene di quella sostanza e così l’avevano usata per segnare anche i percorsi cittadini.

Sembrava avere funzionato, perché le varie specie di insetti si mantenevano nelle zone su cui erano rilasciati gli ormoni di quella particolare specie e solo di rado sconfinavano. Il che, secondo altri, li attestava come esseri intelligenti: avevano capito ciò che i nuovi arrivati umani chiedevano loro e si erano adattati, per pacifica convivenza. Sciocchezze, secondo altri: seguivano meccanicamente le tracce ormonali ed erano capaci di pensiero tanto quanto lo sono le formiche, quando si muovono da e verso il formicaio lungo le tracce di feromone.

Il dibattito era ancora in corso e secondo la Farrell si sarebbe concluso solo quando un insetto se ne fosse stancato e avesse appreso il linguaggio umano, per rispondere direttamente a quegli ominidi testoni. «E forse non basterà,» aveva aggiunto. «Molti penserebbero che quell’insetto stia mentendo o che sia sia stato pagato da un altro scienziato per sostenere la sua tesi. Succede così, qui.»

Hideki ne aveva sorriso. La spiegazione non importava poi molto, in realtà, anche perché sospettava che non l’avrebbe comunque mai capita, ma osservare il modo regolare e intelligente con cui quegli insetti si muovevano era... rilassante, sì. E consolante. Lo illudeva che, nella galassia, ci fossero almeno alcuni esseri viventi che sapevano esattamente cosa stessero facendo e perché lo facessero. Una boccata d’aria fresca, per chi doveva spendere troppo tempo in mezzo alle liti condominiali tra i mondi e i loro rappresentanti umani. Controllare giovani scienziati con crisi di vanità ferita, poi…

Era tardo pomeriggio e Hideki Einarsson era seduto su una panchina in un parco, impegnato nella osservazione di un gruppo di esseri che ricordavano vagamente cavallette senza ali, se piegavi su un lato la testa e aggiungevi una spruzzata di creatività. Aveva debitamente filmato quasi mezz’ora del loro comportamento, corredandolo con alcuni commenti personali, e si era sentito un poco a disagio quando un esemplare si era girato a fissarlo e aveva dato la sensazione di mettersi in posa per lui (sensazione falsa, ovvio, non poteva essere altrimenti), ma poi il gruppo aveva ripreso a comportarsi in modo naturale, o almeno in un modo che a lui pareva naturale, e Hideki non vi aveva pensato più, registrandolo al limite tra le cose da chiedere a Tjan Tjoe Som. Sarebbe stata una bella giornata, se non lo avessero contattato proprio in quel momento, per segnalargli che il terrestre Bogdan Stratos era stato ricoverato d’urgenza, col sospetto di aver aggredito la fauna locale.

Hideki Einarsson scosse la testa. Cosa si era inventato adesso, quello stupido ragazzone? Che lui lo volesse o meno (non lo voleva), gli sarebbe toccato scoprirlo. Anche se non era più il suo lavoro.