Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 58

Steve Dingledine partì da Lakshmi come exologo nuovo, fresco e ancora imballato, sebbene non lo si potesse proprio definire infiocchettato, e arrivò sulla Terra un poco meno fresco, dopo un viaggio col minimo comfort possibile, se la parola comfort poteva davvero essere applicata al posto da gran risparmio che aveva trovato su un mercantile. Dettagli. Un futuro luminoso si apriva davanti a lui e le sue prospettive non potevano che migliorare, adesso che il limbo universitario era concluso e la vita vera sarebbe cominciata, una vita lavorativa su Madre in cui avrebbe scoperto questo, quello e quell’altro ancora. Con molto ottimismo e sperando che la luminosità non fosse quella di un rogo.

Con meno ottimismo ma più realismo, invece, ad attenderlo su Madre avrebbe trovato un incarico da specializzando o giù di lì, il che significava dover diventare lo schiavo di qualcuno, svolgere per lui tutte le attività più ributtanti, senza stipendio ma con vitto e alloggio garantito, se si accontentava di ciò che passava il convento. Steve era moderatamente convinto di sapersi accontentare, anche per mancanza di alternative in vista. In ogni caso sarebbe stata una esperienza formativa, a modo suo, e avrebbe imparato molto, anche se non gli era ben chiaro cosa avrebbe imparato e in quale ambito lo avrebbe imparato. Dettagli anche quelli. Avrebbe certo fatto un buon lavoro e si sarebbe guadagnato un’assunzione stabile, come ricercatore o roba simile. Aveva sentito che i ricercatori su Madre erano tanti, quindi ci sarebbe stato posto anche per lui, vero? Doveva per forza esserci.

Tutto ciò apparteneva per al futuro, anche se era un futuro prossimo. Nel presente c’erano due mesi di riposo da spendere sulla Terra, a casa, e Steve era intenzionato a goderseli, almeno nei limiti in cui era possibile godersi un periodo di riposo sulla Terra, per chi aveva speso gli ultimi anni su un mondo-asilo come Lakshmi. Avrebbe trovato una certa difficoltà ad adattarsi ai nuovi vecchi ritmi, all’inizio, e questo lo aveva preventivato, ma aveva anche calcolato che gli sarebbe servito come un tipo di allenamento generale per Madre, colonia primitiva e presumibilmente sprovvista di tutte o quasi le comodità. Posto che suonava molto meno affascinante, adesso che ci pensava meglio.

«Ma andrà tutto bene, ne sono sicuro,» si disse, scendendo dalla stazione orbitale. Il paesaggio che lo accolse era più o meno identico a quello che lo aveva salutato anni prima, quando era partito per Lakshmi, il che non lo sorprese. Cambiavano poco, i mondi, soprattutto quelli abitati da più tempo. Assentarsi un giorno o venti anni era più o meno la stessa cosa: al ritorno avresti trovato quasi tutto identico, a parte eventuali edifici restaurati o ricostruiti e altri piccoli dettagli ininfluenti. Il punto era che il grosso del pianeta restava così com’era e potevi quasi pensare di non essere mai partito.

Non sempre una cosa positiva, si disse, mentre viaggiava verso casa. C’erano diversi dettagli della Terra che avrebbe modificato con entusiasmo, se avesse potuto, e che sembravano ancora più fuori luogo dopo aver visto un altro mondo e un’altra società. Non proprio brutti, non brutti davvero, ma vecchi? Altroché! Fuori luogo? Figuriamoci! Un poco imbarazzanti, se li guardavi dalla prospettiva di chi era nato e cresciuto altrove? Ça va sans dir. No, non era un pianeta molto bello e sì, poteva capire perché fosse percepito come vecchio e ammuffito dai mondi coloniali, come aveva detto la presidente Jarkovska al centro culturale terrestre di Varshi.

Ma non era un suo problema. Lui ci sarebbe rimasto solo per un paio di mesi, da spendere chiuso in casa a grattarsi la pancia, e poi tanti saluti a tutti. Che ai problemi della Terra pensassero quelli che sulla Terra ci volevano restare: il signor Steve Dingledine (anzi, dottor Steve Dingledine) era fuori. Poi arrivò a casa e scoprì che il suo progetto di fermentare a letto per due mesi aveva dimenticato di considerare un piccolo dettaglio, che poi così piccolo non era. La signora Ilde, sua madre.

«Non va bene che stai sempre in casa.» «Esci un poco, prendi un po’ di aria.» «E i tuoi amici non li vai a trovare? Saranno contenti di sapere che sei tornato.» «Davvero, già che sei qui potresti almeno aiutare, no? Ti fai sempre servire, alla tua età.» «Pulisci almeno la tua stanza, che è un porcile!» E così via, in saecula saeculorom. Alla mamma non dovevano avere fatto molto bene quei cinque anni che aveva passato da sola. Sempre che fossero stati proprio cinque. Forse erano quattro, o qualcosa di mezzo. Steve sapeva quanto tempo avesse trascorso su Lakshmi, ma la conversione degli anni lakshmiti in anni terrestri era pallosa e non ne aveva voglia, anche perché non è che fosse poi molto importante. Quattro o cinque, quello che era. In ogni caso, non avevano fatto bene alla mamma.

Era ingrassata, per cominciare, e si era fatta incredibilmente più ammorbante, per continuare. O era lui ad avere perso l’abitudine a trovarsi una tizia tra i piedi ogni giorno, a dare ordini e pretendere di vivere la sua vita? Possibile. Su Lakshmi aveva avuto solo qualche fastidio il primo anno, con una balia bigotta e quadrata, ma poi era stata una Neverland postadolescenziale. I due mesi da passare a casa promettevano di essere molto lunghi e sgradevoli.

Qualche volta si domandò cosa stessero facendo Roger e Maelle al centro culturale di Varshi (con ogni probabilità litigando e insultandosi) e in almeno un paio di occasioni si concesse anche il più vago dei pensieri distratti a Matteo, l’ectoplasma che aveva infestato l’edificio e ogni tanto parlava. Non la poteva definire una bella vita, la vita che aveva avuto su Lakshmi, ma piacevole sì, nonché passabile, e nel complesso dubitava che avrebbe mai potuto trovare di meglio, in una galassia dove chiunque era costretto a lavorare, se voleva campare. Chiunque tranne i lakshmiti su Lakshmi. Oh beh, pazienza. Sarebbe andata meglio su Madre. Forse.

Così, alla fine dei due mesi di riposo in cui si riposò ben poco, impegnato com’era a sottrarsi alla madre e costretto a rintanarsi in parchi maleodoranti e biblioteche afose, Steve Dingledine partì per la base dell’ascensore spaziale, prima tappa del viaggio verso un nuovo pianeta. Per tagliare sulle spese si era aggregato alla carovana del Teatro di Oklahoma e si trovò costretto a spendere circa tre settimane circondato da quelli che, secondo il suo modesto parere, erano poco più di rifiuti umani, scarti della scuola, reietti della società, disoccupati e in generale gente che fuggiva dalla Terra in cerca di futuri migliori e palle varie, incuranti del fatto che, per quanto lontani fuggissero, niente sarebbe mai cambiato, perché i problemi che avevano trovato sulla Terra li avrebbero portati con sé anche nella nuova destinazione e quei problemi erano loro stessi, aha.

Si sentì molto filosofo, Steve, dopo aver formulato quella perla di saggezza nel segreto della propria mente. Si sentì molto meno filosofo e molto più galeotto quando fu costretto a sprecare quasi cinque giorni nella stazione orbitale all’arrivo su Madre, prima che venisse il suo turno di scendere. Non li sopportava più, quei ragazzini che moscerinavano da ogni parte infestando ogni angolo e ogni retta della zona riservata a loro, ma non disdegnando sporadiche incursioni in aree non riservate a loro. «Fatemi scendere, fatemi scendere, fatemi scendere,» pregava in un rosario infinito, mantra con cui cercava di scacciare la realtà di una compagnia coatta con gente che, in qualunque altra occasione, lo avrebbe evitato e lui avrebbe evitato, e contenti tutti. Lo evitavano anche in quella occasione, in effetti, perché quasi nessuno gli aveva rivolto la parola durante il viaggio, ma il punto era un altro ed era che li aveva attorno: ecco il problema.

Scese, infine, e l’arrivo non fu dei più gradevoli, soprattutto perché il paesaggio che lo accolse non fu tra i più gradevoli. Se la Terra gli era sembrava piuttosto squallida, dopo anni di ozii lakshmiti, il primo scorcio di Oklahoma City ebbe sul suo organismo lo stesso effetto di un litro di latte rancido, ingurgitato a viva forza. E quello era il posto in cui avrebbe dovuto trascorrere un paio di anni per specializzarsi? Il posto in cui magari ne avrebbe dovuti spendere ancora di più a lavorare, se tutto fosse andato bene? O andato male, perché al momento non era così sicuro che essere preso in pianta stabile su quel letamaio di pianeta potesse essere descritto come un bene, se non da una categoria di persone dai gusti molto specializzati, che prediligono essere ammanettate, frustate e abusate in ogni modo immaginabile da loro e da altri.

Pure, era quello che aveva accettato a scatola chiusa e adesso se lo sarebbe dovuto inghiottire. Ciò che gli apparve all’uscita dell’ascensore era una città fatta di condomini squallidi, o almeno edifici che sembravano condomini ma in effetti potevano essere anche qualcosa di più deprimente. Strade e marciapiedi sembravano ricoperti di gomma da masticare usata e parzialmente digerita, ogni cosa si ammantava di un vago odore di polvere e un molto meno vago odore di calzini sudati, a dominare sul piano cromatico era un grigio depressione e il futuro che gli si srotolava davanti era una stazione deserta, dove i treni non sostano più e i merci passano cigolando, senza rallentare.

Steve Dingledine si sentiva come il re di un paese piovoso, ricco eppure impotente, giovane eppure molto vecchio. Poi raggiunse una specie di scatola da scarpe gigante, in cemento o roba simile, e le indicazioni ricevute la identificavano come la sua meta. A testa bassa e con l’entusiasmo di un pollo allo spiedo salì i pochi gradini che conducevano all’ingresso, respirò a fondo, aggiustò la borsa che aveva a tracolla e affrontò il proprio destino.

Il suo destino in quella particolare occasione aveva la faccia anziana e stanca di Rafael Thoreau, che lo fissava distratto da dietro una scrivania stile ventesimo secolo, ripescata forse dagli avanzi di un magazzino o più probabilmente di un museo (o rigattiere, per essere meno eleganti). Davvero, se la sua nuova vita doveva cominciare così, non lo si poteva proprio descrivere come un buon inizio. Da un altro e più ottimistico punto di vista, però, non poteva certo peggiorare, giusto? Insomma, quello era più o meno il fondo del barile, per cui più in basso non si poteva scendere. Forse.

Ma il professor Thoreau era il capo responsabile degli studi sull’ambiente, sia nella sua componente vegetale che animale, ed era di fatto il boss di tutti gli exologi che lavoravano su Madre. Si diceva anche che si fosse occupato della terraformazione nella prima fase della colonia e che fosse uno dei reduci della famosa o famigerata seconda spedizione, arrivato sul pianeta venti o venticinque anni prima e mai più ripartito, se non temporaneamente per conferenze e affini. Steve non era del tutto sicuro di credere alle voci, ma le riteneva plausibili e comunque non aveva alternative: si doveva presentare al vecchio e ricevere da lui indicazioni sul proprio futuro.

Non fu divertente ma fu breve. Presentazioni, saluti, convenevoli vari, come va e come non va, poi Thoreau controllò qualcosa su uno schermo, si fece ripetere un paio di volte il nome, chiedendo una conferma sulla sua ortoepia (ortoepia! Che razza di modo per domandargli come si pronunciasse il nome), infine si rassettò sulla sedia, che sembrava comoda come una mutanda di due taglie troppo piccola, e gli annunciò di presentarsi l’indomani alle ore dieci presso il dottor Freire, nella stanza papparapà dell’edificio pepperepè, dove avrebbe ricevuto tutte le istruzioni necessarie.

Quale incarico avrebbe dovuto svolgere? La sua specializzazione erano gli insetti e, se possibile, gli sarebbe piaciuto rimanere nel campo. Thoreau non sapeva cosa gli sarebbe toccato, perché quello era a discrezione del suo personale e dipendeva dagli spazi disponibili, ma era molto probabile che ci sarebbero stati insetti, sì. Il dottor Freire era molto interessato agli insetti e per questo era stato scelto come suo tutore, almeno per il primo periodo di specializzazione, alla luce delle competenze che Dingledine aveva indicato nel proprio curriculum e così via.

«Sperando che siano competenze autentiche e non gonfiate,» sorrise Thoreau. «Di tanto in tanto ci è capitato e non è stato piacevole per noi, mi creda. Non è stato piacevole neppure per il falsario.»

Steve salutò e uscì. Si sentì un poco a disagio per quella che sembrava una minaccia velata, resa più bizzarra dal fatto che Thoreau era minaccioso come un uovo sbattuto, ma si sentiva anche saldo e sicuro, di quella sicurezza che può possedere solo chi abbia una coscienza più pulita della propria biancheria, come era il suo caso. Non che ci volesse molto, ma quello era un altro discorso.

Quella sera, in un tugurio che il dipartimento locale gli aveva messo a disposizione, probabilmente dopo aver sfrattato i ratti mutanti che dovevano averlo abitato in precedenza, Steve Dingledine si domandò ozioso e un poco apprensivo che razza di tipo potesse essere quel misterioso dottor Freire. Il fatto che non fosse professore, ma dottore, faceva supporre che fosse almeno giovane, ma questo poteva non essere un bene, a seconda dei casi. Aveva incontrato assistenti che sfruttavano i novellini senza pietà, per fare bella figura davanti ai titolari di cattedra, o almeno aveva sentito voci secondo cui personaggi di questo tipo esistevano davvero, il che era più o meno la stessa cosa, no? Oh beh, fosse come fosse, lo avrebbe scoperto il mattino seguente.

Lo scoprì, cominciando dal fatto che non era un dottore, ma una dottoressa. Dettaglio trascurabile, sotto molti aspetti, ma per Steve era anche qualcosa che gli cambiava parecchio le prospettive per il futuro. In meglio, tanto per cominciare. Il dottor Freire, o dottoressa Erika Freire, non aveva l’aria di essere molto più vecchia di lui: vicina ai trenta, forse, o giù di lì, anche se esibiva una testa di capelli grigi che lo lasciavano piuttosto perplesso. Una qualche moda, concluse lui, oppure scherzi della genetica o chissenefrega. Era una donna, era giovane e sarebbe stata costretta a spendere un tempo considerevolmente lungo in sua compagnia. La vita gli sorrideva. Sorrideva a lui Steve, per lo meno. E dire che si era aspettato un qualche vecchio barbogio, magari puzzolente e maleducato...

La vita passò dal sorriso al ghigno, quando la dottoressa Freire gli assegnò il suo primo incarico, dopo un rapido studio del curriculum e una intervista ancora più rapida del nuovo arrivato. «Dici di essere molto interessato agli insetti, vero?» gli chiese senza distogliere lo sguardo dallo schermo, o perché stava leggendo qualcosa di molto interessante, oppure perché preferiva non incrociare quello di Steve Dingledine, che al momento ricordava molto qualcosa che galleggia a pancia all’aria in un fiume parecchio inquinato. Entrambe le ipotesi erano plausibili.

«Sì, molto interessato,» rispose lui. «È il settore in cui ho concentrato la maggior parte dei miei studi e ho seguito con grande interesse gli sviluppi della quarantena, quando si era verificata quella misteriosa moria di mosche. È un tema che mi ha toccato molto da vicino.»

«Sì, certo. E vorresti proseguire anche qui, giusto?»

«Naturalmente. È la mia prima scelta, ma sono disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, se questo servirà a garantire il bene supremo della conoscenza e ad allargare la nostra comprensione di questo nuovo mondo.»

Erika Freire gli regalò uno sguardo in cui si mischiavano compatimento e fastidio. «Non ne dubito, non ne dubito. Progetti di fermarti qui anche dopo la specializzazione, oppure pensi di ripartire per un altro pianeta e magari un altro incarico?»

«Beh, se fosse possibile restare, resterei volentieri. Se dovessi cominciare un nuovo progetto qui, lo vorrei portare fino in fondo, sai. Non sono un tipo a cui piace lasciare le cose a metà, io,» aggiunse, con tutta la nobiltà che riuscì a fingere. Dopo il suo primo assaggio di Madre aveva deciso che non si sarebbe fermato neppure se lo avessero pregato, ma la prospettiva da cui guardava il suo futuro era cambiata subito dopo l’ingresso nell’ufficio della dottoressa Freire (aveva cercato di chiamarla Erika, ma il tentativo gli era stato rispedito al mittente nello spazio di pochi secondi e senza sorrisi di accompagnamento).

«Uhm, suppongo che avrai tutto il tempo che ti servirà per avviare un tuo progetto, in seguito, ma al momento dovrò chiederti di aiutarmi con un mio progetto, che è un poco in ritardo. Ti servirà per farti una idea di come sia il nuovo ambiente e cosa aspettarti dalla vita entomologica in generale. È piuttosto diverso dagli altri pianeti, Madre, come avrai occasione di verificare tu stesso.»

«Sarà un vero piacere poterlo verificare e approfondire le mie conoscenze, esplorando e scoprendo tutte le novità che questo mondo ha da offrire a una mente indagatrice come la mia. Sarò poi molto lieto di poterti aiutare in ogni circostanza, qualunque momento, basta che lo chiedi, davvero.»

Erika Freire sospirò, afflosciandosi un poco nella sedia. «Staremo a vedere, non ne dubito. Come te la cavi in materia di accoppiamento?»

«È la mia specialità,» mentì Steve, tutto sorridente e speranzoso.

«Ottimo. Comincerai oggi pomeriggio stesso, al terrario nella stanza tredici. Dovrai sorvegliarlo per almeno tredici ore al giorno per i prossimi venti giorni, eseguire una serie di test che ti indicherò e apportare modifiche all’ambiente in base ai risultati dei test. Puoi sistemarti sul posto anche subito, io poi mi metterò in contatto con te quando sarà necessario e ti indicherò tutto ciò che dovrai fare, almeno in un promo momento, ma sono certa che una mente come la tua non avrà alcun problema ad assimilare tutto in un paio di giorni, dopodiché potrai continuare da solo la serie di test.» Sorrise.

«Ah. Bene. Ma... l’accoppiamento?»

«È il periodo dell’accoppiamento per la specie di cui ti occuperai. Un compito molto delicato, che si deve posizionare in un complesso equilibrio tra il bisogno di indagare e conoscere le loro abitudini e la necessità di non disturbarli in un periodo così importante della loro vita. Un compito di grande responsabilità, capisci, ma sono sicura che non avrai problemi a svolgerlo. Sei uno specialista degli accoppiamenti, giusto? Lo hai detto tu stesso.»

«Ehm, sì, giusto. L’ho detto io stesso. Nessun problema. Er. Allora...»

«Allora puoi andare, non ti tratterrò oltre. Il lavoro ti attende.»

Così adesso Steve Dingledine era da solo in una stanza umida e maleodorante, dominata da quello che sembrava un acquario venuto molto male, ma era in realtà un terrario, o almeno così sosteneva la targhetta. Un terrario che includeva parecchia acqua, nonché parecchio sgorbi che sembravano i parenti ripudiati di scarafaggi giganti. Scarafaggi con otto zampe da tartaruga marina, quattro ali, corna e altri dettagli anatomici su cui al momento non si sentiva in vena di indagare. Fantastico. E sarebbe rimasto in loro compagnia per i prossimi venti giorni, a guardarli mentre si accoppiavano ed eseguire una serie di test che, volendo assumere un atteggiamento ottimistico e positivo, potevano essere descritti come ributtanti. Che fortuna invidiabile, eh?

Nel terrario che era anche acquario alcuni psedoscarafaggi volteggiavano sott’acqua sospinti da ali che, in apparenza, fungevano anche da pinne. Volteggiavano con tutta la grazia di un elefante morto e in decomposizione da almeno tre settimane. Secondo gli appunti che gli aveva inviato la sua capa, la dottoressa Freire (che un giorno sarebbe riuscito a chiamare Erika, ne era sicuro), quella che stava osservando era una sorta di danza di corteggiamento, praticata soltanto in climi particolari, quando le temperature superavano i venticinque gradi e il tasso di umidità era pari almeno al sessantatré per cento. Il suo incarico per i prossimi tre giorni era testare se, come e quanto sarebbe cambiato il loro comportamento, alterando i valori di temperatura e umidità. Un sogno, di quelli da cui ti svegli con un urlo, almeno nelle storie.

Oh beh. Forse lo avrebbe aiutato a guadagnare punti, se avesse svolto un buon lavoro. E poi poteva andargli peggio, no? Almeno era al chiuso, al sicuro. Al pulito. Per dire, sarebbe stato peggio dover studiare quei cosi nel loro habitat naturale, qualunque fosse. Oppure doverli inseguire e catturare o peggio, sempre nel loro habitat naturale. Sì, trafficare con quei cosi nel comfort della stanza tredici, che era parecchio umida ma neanche troppo, era anche passabile. Paragonata alle altre possibilità.

Il suo incarico successivo avrebbe riguardato proprio le altre possibilità.

Erika Freire rientrò nel suo piccolo appartamento, chiuse la porta, controllò che la serratura fosse scattata, per sicurezza la chiuse di nuovo, infine si rilassò su una sedia, per quanto sia possibile il relax su sedia. Poco, ma era secondario. Perché l’universo ce l’aveva chiaramente con lei.

Non erano passati neppure trenta giorni da quando gli avevano assegnato quello specializzando, se davvero lo si voleva considerare un essere umano, e già contava il tempo che ancora le restava per concludere la sgradevole collaborazione. Quando la Bapchuck, la titolare del dipartimento, l’aveva chiamata per annunciarle che avrebbe avuto un nuovo studente di cui occuparsi, uno specializzando in arrivo dalla Terra ma con una laurea lakshmita, Erika lo aveva interpretato come un buon segno. Da un certo punto di vista significava che stavano cominciando a prenderla sul serio, no? Le davano incarichi di un qualche rilievo, invece di scaricarle addosso soltanto tutta la merda della colonia. Se la ritenevano pronta per insegnare a nuovi arrivati, dovevano essersi accorti che era sprecata a fare da maestra nei corsi serali per un gruppo di coloni capre. Meritava di più. Più attenzioni.

Poi, uno sgradevole mattino, lo specializzando era entrato nel suo studio. Un tizio di qualche anno più giovane di lei, con capelli rossastri che andavano più o meno in ogni direzione e suggerivano il più sporadico dei contatti col pettine e forse anche con lo shampoo, occhi che erano uova sbattute, con tutta probabilità dal ventesimo piano di un palazzo, e un odore che, con molta magnanimità e il minimo apporto dell’olfatto, poteva essere definito agreste, vagamente rustico. Terribile, ma non era ancora il peggio.

Il peggio lo aveva sospettato più o meno dalla presentazione, ma lo aveva verificato e accertato solo a fine colloquio, quando lo aveva salutato e gli aveva augurato buon lavoro, badando sempre che la scrivania fosse tra loro. In tutto il tempo che quello Steve Dingledine era rimasto nel suo studio, per presentarsi e definire i campi in cui avrebbe potuto lavorare, soltanto in due occasioni quel nuovo si era degnato di guardarla al di sopra delle clavicole ed entrambe le volte l’aveva fissata più o meno nei pressi dell’orecchio destro. Definirlo ributtante significava fargli un complimento.

Erika Freire sospirò. Beh, con molta fatica e moltissima buona volontà si poteva trovare qualcosa di positivo nella maggior parte delle situazioni, giusto? Ok, forse non molto giusto, ma aveva deciso di non abbandonare quella filosofia, almeno finché le era umanamente possibile mantenerla. Nel caso in questione, il frammento di materiale positivo che poteva estrarre da uno scavo in profondità era che adesso aveva uno schiavo a cui affidare le parti più lunghe, sgradevoli, noiose e faticose della sua ricerca sugli pseudoscarafaggi. Il che era un bene, dato che il suo progetto aveva rischiato sul serio di arenarsi e perdersi definitivamente nel nulla, con tutti gli incarichi extra che le erano piovuti in testa di recente dalle più varie direzioni.

Incarichi come l’insegnamento serale ai coloni. Oppure la verifica della possibile esistenza di quel fantomatico insetto di cui uno studente le aveva parlato. Lo studente: quello giovane, con la faccia da maniaco e l’abitudine di aspettare le persone al buio in un vicolo deserto. Erika rabbrividì.

Aveva continuato le lezioni a quella classe, ma dopo l’incontro sgradevole e alquanto preoccupante col ragazzo, che per fortuna si era risolto senza danni, Erika aveva deciso che i rischi li lasciava più che volentieri agli attori dei film: lei, nella vita reale, ne avrebbe corsi il meno possibile, ma grazie lo stesso per l’interessamento. Giusto per andare sul sicuro, da quel giorno in poi aveva lasciato la sede delle lezioni in compagnia di uno o più altri insegnanti, tutti giovani ricercatori come lei. Con alcuni aveva anche fatto amicizia, per modo di dire, come con due meteorologhe originarie della zona nordeuropea, un astronomo nordamericano e un’altra exologa della zona africana, che si era specializzata in creature marine e stava conducendo una ricerca su alcune specie di lumaconi nativi di Madre, ma ormai in via di estinzione a causa della fauna ittica importata. Tutto era andato bene.

Il ragazzino non si era più fatto vedere, se non ogni tanto a lezione, e anche in quei casi palava poco e non faceva domande. Ottimo. Molto meno ottimo il fatto che le avesse scaricato quella storia sugli insetti usciti dai pozzi. Il professor Thoreau si era raccomandato di ascoltare sempre e comunque le storie che i coloni raccontavano, soprattutto quelli che avevano lavorato in aree diverse del pianeta. «Non si sa mai cosa possano avere visto e dietro ai loro racconti potrebbe sempre esserci un qualche tipo di verità.» Parola di Rafael Thoreau. Così Erika aveva preso atto delle proprie responsabilità, si era lamentata più e più volte con se stessa, ma alla fine aveva indagato. Un poco. E scoperto molto.

Qualche domanda ad altri coloni, ma soprattutto a colleghi ricercatori che frequentavano spesso sia i coloni sia i locali che infestavano, l’aveva portata a scoprire che sì, la storia dell’insetto visto dal ragazzo non era del tutto immaginaria, perché anche altri raccontavano di avere avuto esperienze simili. Che le avessero avute davvero era tutto un altro paio di maniche ed era quello che le sarebbe toccato verificare alla prima occasione.

Lo aveva verificato molto bene. Nella stanza libera del suo appartamento, in cui in precedenza era sistemata solo una piccola colonia di pseudoscarafaggi da studio, adesso c’era anche una gabbia in più. Una teca, a volere essere più precisi. Quasi un piccolo terrario. E lì, assieme a qualche vegetale, un piattino d’acqua e cibo assortito, si trovava un insetto. Un insetto che vibrava e la osservava ogni volta che Erika apriva la porta. Era un poco inquietante. No, togli il “poco”: era inquietante e basta.

Corrispondeva grossomodo alla descrizione che le aveva dato quello strano ragazzo del suo corso. Il corpo e la struttura generale ricordavano vagamente un tafano terrestre, magari incrociato in forma innaturale e discutibile con una libellula. Aveva sei paia di ali, che si potevano vedere solo quando era fermo, e due serie di occhi sfaccettati. Sotto la testa, o almeno sotto il segmento anteriore del corpo, che forse fungeva da testa, sporgevano quelli che potevano essere pungiglioni o proboscidi. Sarebbe servita una vivisezione per esserne certi, ma quale scemo avrebbe deciso di vivisezionare il solo esemplare disponibile di una nuova specie? Perché era l’unico che avesse trovato, finora.

E trovarlo non era stato facile, anzi.

Per cominciare, c’era stato il problema del drone. Il dipartimento ne aveva pochi a disposizione e i pochi che aveva erano custoditi con una cura che soltanto la peggiore caricatura di un vecchi avido avrebbe potuto eguagliare. Ma Erika Freire aveva brigato, fatto favori, supplicato circa una decina di professori e mentito a ruota libera, inventandosi un programma di studio che non avrebbe mai e poi mai voluto o anche solo saputo rispettare. Alla fine gliene avevano concesso uno, per un periodo di tempo che sarebbe stato eufemistico definire breve.

Aveva studiato una mappa delle zone in cui i vari coloni sostenevano di avere incontrato uno o più di quegli insetti, incontri che di solito consistevano in improvvise fitte di dolore, concentrate in una porzione molto ristretta del corpo, e seguite da una bestemmia o esclamazione equipollente di vivo e sanguigno disappunto. Aveva notato come le zone sembrassero formare una specie di cerchio, non molto regolare, attorno all’area in cui sorgeva l’ascensore militare, con relativa base. Se un insetto esisteva davvero, sembrava gradire quel territorio, che era arido, brullo e in generale possedeva più o meno lo stesso fascino di un gabinetto pubblico intasato, ma gli insetti avevano gusti particolare su ogni mondo e chi era Erika per discuterne? Nei pressi del centro di quell’area si trovava anche il luogo dei primi scavi alieni, ma era di certo un dettaglio irrilevante.

Così, sperando di poter scoprire qualcosa e sapendo di aver scommesso una bella fetta della propria credibilità di ricercatrice quando aveva chiesto il drone, Erika Freire lo programmò e lo inviò alla ricerca di qualsiasi insetto potesse esserci da quelle parti e che non corrispondesse a una delle specie già note e memorizzate. Programma molto vago, lo doveva ammettere, ma in fondo era molto vago anche il suo obiettivo, no? Magari le due vaghezze si sarebbero bilanciate.

Forse non si erano bilanciate, ma qualcosa lo aveva ottenuto ugualmente. Nel primo pomeriggio del quarto dei cinque giorni a sua disposizione, il drone era rientrato con un passeggero extra. O con un prigioniero extra, a seconda dei punti di vista. Il passeggero o prigioniero era un insetto che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente uguale all’identikit che lei aveva ricostruito, sulla base delle vaghe descrizioni ricevute da coloni e altra gentaglia. Il passeggero che adesso occupava la teca extra, nella stanza libera del suo piccolo appartamento.

Avrebbe dovuto notificare la scoperta, alla Bapchuck se non proprio a Thoreau, il loro regolamento interno imponeva di segnalare immediatamente ogni nuova specie, ma lei ancora non lo aveva fatto. Non lo aveva fatto perché... Perché? Non le era del tutto chiaro; anzi, non le era chiaro per niente, ma probabilmente aveva qualcosa a che fare con un vago spirito di rivalsa, una sottospecie di amor proprio travestito da ambizione, oppure di ambizione travestita da amor proprio, che le imponeva di puntare al colpaccio e cercare di fare il maggiore rumore possibile con la sua scoperta e ricavarne il massimo. Perché era una scoperta, giusto? Magari anche importante.

O magari no, ma con tutti i lavoracci che le avevano rifilato da quando era su Madre, per tacere poi del suo periodo di studi su Varuna, pianeta ospitale come un nido di vespe, Erika Freire sentiva di avere maturato un qualche tipo di diritto a una rivalsa personale. Sarebbe stato facile notificare la scoperta e consegnare l’insetto, ma questo avrebbe significato che altri lo avrebbero studiato al suo posto. Gente più qualificata. Gente con migliori referenze. Gente con anzianità di servizio o anziana e basta. Gente che non era lei. A Erika una stretta di mano per averlo trovato, ad altri tutto il merito per averlo studiato. Bella roba. Se però avesse atteso, accumulando magari una buona mole di studi e analisi in proprio, allora forse...

Allora forse. Poteva spingersi oltre, ma sentiva che non era il caso. Avrebbe maturato qualche vaga possibilità in più di riconoscimenti personali, magari l’avrebbero anche liberata dal tormento di fare lezioni serali ai nuovi coloni. Magari l’avrebbero promossa. E magari avrebbero anche rifilato a un altro ricercatore quella piattola di uno specializzando, i cui occhi commettevano molestie sessuali ogni volta che si giravano verso di lei. Magari, magari.

Tra un magari e una speranza, Erika Freire si alzò dalla sedia diversamente comoda, aprì la porta della stanzetta libera, riadattata a covo di insetti, e come sempre si sorprese quando il nuovo ospite le rivolse uno sguardo a quattro occhi che le ricordava una telecamera di sorveglianza incrociata col cipiglio di una governante anziana e alquanto inacidita. Si sorprese ancora di più per come tutti gli pseudoscarafaggi nel loro terrario si fermarono di colpo, raggruppati quasi al centro dell’ambiente in cui vivevano, per poi disperdersi come... sì, ok, come scarafaggi quando accendi la luce. Il che era parecchio diverso dal loro comportamento abituale. Curioso.

«Stavate spettegolando su di me?» chiese Erika, senza attendersi una risposta e senza ottenerne una. Si avvicinò al terrario, vide che il livello del cibo era quasi esaurito, lo ricaricò, controllo l’acqua e la temperatura, guardò in generale lo stato dei suoi ospiti, verificò che tutti stessero bene, almeno per quanto fosse possibile determinarlo in base a una semplice occhiata, infine si girò verso l’altra gabbia, o teca, o terrario, o quello che volete. Il nuovo insetto continuava a fissarla.

Stava diventando inquietante. Che reagisse al modo in cui lei si muoveva? Al colore dei suoi abiti? Al suo odore? A qualche altra caratteristica? Ancora nessun test le aveva chiarito come funzionasse il tafano, se tafano lo si voleva chiamare, a parte il fatto che sembrava apprezzare il sangue umano, o almeno aveva mostrato una vaga attrazione verso le gocce che lei aveva avvicinato alla sua teca. In quattro occasioni. In altre due occasioni, invece, le aveva ignorate, ma il sangue restava la sola cosa verso cui avesse manifestato un vago tipo di interesse, fino a quel momento. A parte fissarla, beninteso. Fissarla sembrava piacergli parecchio.

«Ti chiamerò Dingledine, se continui così,» gli disse. O forse le disse. I primi esami non avevano trovato nulla che potesse assomigliare a un organo sessuale in quell’insetto, nulla che le potesse indicare di quale genere fosse, ammesso e non concesso che possedesse un genere. Nella maggior parte dei casi le forme di vita native di Madre potevano essere distinte normalmente nelle categorie classiche di maschi e femmine, ma fra gli insetti sembrava esserci una discreta percentuale di specie ermafrodite, quando non proprio asessuate. Come si riproducevano, nell’ultimo caso? Le indagini sono in corso, le faremo sapere al più presto, grazie per la pazienza.

Erika Freire osservò ancora un poco il nuovo insetto, poi uscì dalla stanza e chiuse bene la porta dietro di sé. La snervava, quello sguardo. La snervava perché è snervante in termini generali avere qualcuno o qualcosa che ti fissa in continuazione, ma ancora di più perché non sembrava lo sguardo di un insetto. Non possedeva una espressione vera e propria, almeno non in termini riconoscibili per un essere umano, ma se ne avesse posseduta una, Erika l’avrebbe definita supponente. Sprezzante, in alcuni casi. In occasioni fortunatamente rare, poi, l’insetto sembrava osservarla con lo sguardo che un bambino dedica a una mosca appena catturata, poco prima di strapparle le ali per passatempo o perché è divertente. O anche solo perché può. Sgradevole, decisamente sgradevole.

Mi verrà una qualche fobia da sguardo, di questo passo, pensò. No, quell’insetto non le piaceva. In termini generali poteva anche rappresentare una grande scoperta, d’accordo, ma in termini assai più specifici e personali rappresentava anche qualcosa che lei non voleva più avere attorno o anche solo nel raggio di alcuni chilometri. Forse era il caso di consegnarlo al dipartimento e non pensarci più, si disse. Avrebbe forse perso ipotetici onori e gloria, vero, ma almeno ne avrebbe guadagnato la sua qualità di vita. Di guardoni che la molestavano ne aveva già uno sul posto di lavoro, grazie tante, e non sentiva il bisogno di mantenerne uno in casa. Con una maggiore dotazione di occhi, come se il resto non fosse sufficiente.

Il mattino dopo, sotto una pioggerella più fastidiosa che altro, Erika Freire se ne andò al lavoro con un pacco voluminoso sotto braccio, bussò alla porta della professoressa Ada Bapchuck, non ottenne risposta, bussò in rapida sequenza alle porte di altri tre professori, infine ne trovò uno che fosse già impegnato in qualche attività, o almeno uno che fosse disposto a rispondere, anziché fingere di non esserci. Erika gli spiegò tutte le circostanze, ricorrendo solo a una dose moderata di verità creativa, consegnò il pacco, aggiunse tutta la scarna documentazione che aveva potuto raccogliere fino a quel momento e se ne andò. Libera! Che se lo godesse qualcun altro, quell’insetto fastidioso. E pazienza per gli eventuali onori che ne potevano venire. In fondo, sospettava che non li avrebbe mai ottenuti lei, in ogni caso.

La sua storia con quell’esemplare non si concluse così facilmente, ma questo è un discorso per il futuro. Nel presente, Erika Freire si avviò verso il proprio studio, più sollevata ma non proprio più rilassata, sapendo quale esemplare umano l’attendesse là. E se di tanto in tanto le capitava ancora di sentirsi fissata, era certo una semplice impressione, rigurgito psicologico degli ultimi tempi.

L’insetto ormai era affare di altri, giusto?