Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 57

Alle sette di sera ora locale Matteo Kori rientrò nell’alloggio che divideva con Chakra nella città di Ulan Khor, emisfero boreale del pianeta Rudra. Non un indirizzo molto preciso, il continente su cui sorgeva la città aveva pure un qualche nome, ma lui non aveva ancora trovato la voglia di impararlo e in ogni caso non riteneva che avesse davvero importanza specificarlo, soprattutto quando aveva appena finito di lavorare e tutto ciò che gli interessava era lasciarsi cadere su un divano, togliersi le scarpe, portare una ventata di aria fetida nella stanza e dimenticare di esistere almeno per trenta minuti o giù di lì, grazie tante.

Avrebbe dovuto immaginare fin dall’inizio che sarebbe andata così e infatti lo aveva immaginato. Il problema però era che il suo cervello si era fermato alla fase immaginativa, senza passare poi alla fase di inveramento delle immaginazioni così prodotte. Che nel fantastico programma di Chakra ci dovesse essere un qualche bidone, una truffa o almeno una nota a margine, scritta in caratteri troppo piccoli per essere notati da forme di vita di dimensioni superiori a quelle di un batterio, era cosa più che ovvia: era scontata, offerta speciale, paghi tre prendi due. Non preoccuparti dei soldi, diceva. I soldi non sono un problema. Al viaggio non ci devi neanche pensare, diceva. Se poi avremo bisogno di qualcosa sul posto, ci troveremo un lavoretto part-time, roba da niente, giusto per mantenerci un poco fino a che non avremo finito di studiare quel pianeta.

Diceva Chakra. Matteo non gli aveva proprio creduto, non esattamente creduto, però aveva deciso di concedergli almeno il beneficio del dubbio, in via del tutto provvisoria e fino alla prima smentita. In fondo, Lakshmi era l’unico pianeta a non disporre di denaro, in una galassia in cui ogni altra cosa aveva un prezzo e spesso includeva anche il pollice del venditore premuto sulla bilancia, dietro a un sorriso da squalo a dieta. Se anche i lakshmiti viaggiavano, e poiché anche i lakshmiti viaggiavano, il governo del pianeta doveva pure avere pensato a un qualche modo per provvedere ai bisogni della sua popolazione, giusto? Quando si dovevano o si volevano recare all’estero. Una qualche specie di conto intestato al pianeta, non so, roba del genere.

Probabilmente era così. Non avevano speso nulla per il viaggio e la sistemazione era anche stata più che decorosa sulla nave che li aveva trasportati da Lakshmi a Rudra, la prima tappa del favoloso e rutilante anno sabbatico voluto da Chakra. I problemi erano cominciati dopo l’arrivo, esattamente dopo una settimana dall’arrivo (anche se non esisteva quella unità di misura su Rudra, come Matteo avrebbe scoperto poi, ma lui la usava lo stesso, da buon terrestre), quando Chakra aveva sorriso al mondo, o almeno al compagno di viaggio, annunciando che i fondi erano esauriti e sarebbe stato più che utile trovare un lavoro, se avevano intenzione di continuare a mangiare.

«Come sarebbe sono esauriti?» era stata la poco fantasiosa e per nulla originale reazione di Matteo.

«Esauriti. Siamo a secco. A proposito, ho trovato una offerta molto interessante per te. Considerate le tue qualifiche, la trovo perfetta. Praticamente cucita su misura.»

Considerate le qualifiche di Matteo, nonché la sua enorme esperienza lavorativa, indicibile duttilità, somma praticità e palle varie, l’offerta molto interessante trovata da Chakra consisteva in un posto di bassa manovalanza generica, al limite della schiavitù, presso un centro agricolo nella campagna attorno alla città di Ulan Khor, in cui si erano sistemati poco dopo l’arrivo sul pianeta. Un lavoro fantastico, che lo avrebbe messo a stretto contatto con la natura più vera di un mondo alieno, su cui l’uomo aveva costruito le proprie città ma che ancora non aveva saputo reclamare come proprio. Un lavoro che lo avrebbe messo a stretto contatto soprattutto con la fauna locale e con una estremità del loro apparato digerente. L’estremità terminale.

«Dovrò passare il giorno a spalare merda?» aveva esclamato, quando Chakra gli aveva spiegato per sommi capi le specifiche del lavoro funambolico, proprio adatto a lui.

«Contribuirai a incrementare la fertilità del pianeta, migliorandone nel complesso l’ecosistema. È un compito di grande responsabilità, capisci? Ti piacerà, ne sono sicuro. E poi pagano bene.»

«E allora perché non lo fai tu?»

«Perché io ho già trovato un altro lavoretto per me, uno molto più appropriato alle mie capacità e in linea col motivo che mi ha indotto a scegliere questo mondo come nostra prima tappa.»

Il che era probabilmente vero. Chakra si era fatto assumere con un ruolo da pseudoapprendista part-time o qualcosa del genere presso uno studio legale di Ulan Khor, lavoro che in effetti era in linea coi suoi studi di diritto. Lavoro che era anche al coperto, in un ambiente profumato o al limite non troppo maleodorante, e in cui gli unici animali presenti erano quegli scimpanzé dal pelo corto che amano definirsi “homo sapiens”, per ragioni ancora da accertare. E anche questo era un risultato che Matteo si sarebbe dovuto aspettare, e che si era aspettato, ma in un modo o nell’altro era riuscito a farsi fregare ugualmente. L’unica sua consolazione era che, nonostante la cravatta, anche Chakra era di fatto uno schiavo tuttofare nel famigerato studio legale che lo aveva assunto.

«E tutto questo dovrebbe aiutarmi a imparare nuove cose e allargarmi le prospettive?» aveva chiesto una sera a cena, quasi un mese dopo il loro arrivo sul pianeta.

«Qualcosa ti allargherà di sicuro,» aveva sorriso Chakra, col suo ghigno da mattone in faccia. «E in ogni caso stai combinando qualcosa di molto più utile e costruttivo di quello che facevi a Varshi, lo devi riconoscere. Almeno adesso non vaghi più per la città con l’espressione di un poeta romantico morto di stipsi irreversibile. Ancora qualche tappa e magari ti sveglierai davvero.»

Matteo aveva deciso di astenersi dai commenti. In fondo, il posto non gli dispiaceva, se inteso come città e pianeta in generale. Gli dispiaceva parecchio il posto inteso come luogo di lavoro, dove gli facevano fare la vita da contadino preistorico o giù di lì, spalando e accatastando il letame di una qualche specie di pseudobovino locale, che sembrava fatto soltanto di lardo, pelo e culo e puzzava come una tomba scoperchiata in pieno agosto. Ma produceva letame dalle enormi proprietà nutritive per ogni tipo di terreno agricolo, come gli aveva spiegato il responsabile del suo gruppo, una specie di armadio a sei ante senza un orecchio e con un buon numero di denti artificiali, e il loro compito era di preparare la materia prima per la lavorazione chimica, che ne avrebbe accresciuto il valore, o roba simile. Un compito fondamentale, nonché molto eco-bio, come andava di moda al momento.

Curioso che quel compito così fondamentale fosse assegnato a immigrati che erano giunti su Rudra da poco e che, nel complesso, non potevano proprio descriversi come pozzi di cultura, almeno non di cultura locale. C’erano pure due terrestri, finiti nel suo stesso gruppo, e una forma di vergogna etnica non bene precisata aveva indotto Matteo a spacciarsi per lakshmita, almeno di fronte a loro. Il che gli era riuscito piuttosto bene, soprattutto perché i due colleghi avevano solo una vaga idea di dove e cosa fosse Lakshmi e comunque non avevano mai visto consapevolmente un suo abitante. Il discorso cambiava per gli altri lavoratori, ma di dialogo ce n’era poco e comunque nessuno aveva mai dimostrato un qualche desiderio di smascherarlo come terrestre. Tanto meglio.

Non c’era un bel clima, sul posto di lavoro. Prima di tutto perché l’aria possedeva un aroma assai speciale, per il quale forse esisteva un aggettivo appropriato nel dialetto rudriano, ma Matteo non lo aveva ancora imparato; effluvi a parte, l’atmosfera era pesante perché nessuno era contento. Il che era normale. Per quanto importante, nobile e fondamentale fosse, almeno nelle parole di chi non lo svolgeva, quel lavoro era una merda. Letteralmente. Nessuno poteva essere entusiasta di rotolare in quel materiale per tutto il giorno, soprattutto se era emigrato su Rudra sognando tempi migliori. Ma anche su questo Matteo preferiva non commentare, scegliendo la più cauta filosofia del “testa bassa e pedalare”. Un giorno forse sarebbe diventato un ricordo nostalgico e magari gli avrebbe fornito esperienze letterarie, una risata, qualcosa del genere. O forse no. Probabilmente no.

Nella sera specifica di cui parlavamo all’inizio, Matteo rincasò dal lavoro stanco e maleodorante e si lasciò cadere su una poltrona, perché il divano era già occupato da un Chakra smagliante e pieno di entusiasmo. O di qualcosa che lo gonfiava e lo induceva a ridere, e che in mancanza di meglio si poteva anche definire entusiasmo, in via del tutto provvisoria. L’alloggio che dividevano era poco più di un monolocale nella periferia più scadente di Ulan Khor, che per loro fortuna non era poi così scadente come le periferie scadenti di altri mondi o di altre città. Era un posto perbene, Ulan Khor, ed era anche schifosamente caro, ma Chakra lo aveva scelto per qualcosa che riguardava un qualche suo piano di studi, o così diceva. Matteo sospettava che fosse per il gran numero di locali notturni, ma aveva preferito non indagare. Era troppo stanco per quelle scemenze, la sera.

«Ho grandi notizie per noi,» disse Chakra al compagno, «ma te ne parlerò dopo che ti sarai fatto una bella doccia e cambiato. Davvero, quando arrivi tu non si respira!»

Matteo dimostrò tutti i progressi nel proprio autocontrollo, inghiottendo la risposta che spingeva per uscirgli dalla bocca. Non sarebbe stata una risposta piacevole e probabilmente avrebbe incluso una discreta quantità dei termini locali che stava imparando sul lavoro e che, in gran parte, rientravano in un campo semantico piuttosto specifico e scatologico. Rientravano anche in un campo piuttosto adatto ad attaccare briga con qualunque forma di vita passasse nelle vicinanze.

Così, invece di suggerire a Chakra di tuffarsi a volo d’angelo a bocca aperta in una pila di letame e poi rotolarcisi fino a che non gli fosse uscito anche dalle narici, mentre i parassiti intestinali di una guflahk gravida gli scavavano gallerie nel cervello, Matteo si alzò, ciondolò verso il sarcofago che faceva funzione di bagno nel loro appartamento, si afflosciò sotto una doccia quasi bollente per una decina di minuti circa, si vestì, si asciugò, si accorse di aver svolto quelle due operazioni nell’ordine sbagliato, le ripeté nell’ordine corretto, si concesse un minuto e trentacinque secondi di fronte allo specchio appannato, per maledire tutte le divinità che riuscisse a immaginare, quindi tornò nella sala e quasi unica stanza della loro reggia principesca. «Ti ascolto,» disse infine, sgonfiandosi di nuovo in poltrona, ma con un odore molto più umano.

«Puzzi ancora parecchio, ma lasciamo perdere. Penso che non te lo toglierai più, fino a che staremo qui. Pazienza, non è un grosso problema per me. Comunque, dicevo: ho grandi notizie.»

«Buon per te. Io no.»

«Non fare il disfattista, ragazzo. Lo sai che sono qui per studiare, vero?»

Matteo si avvalse della facoltà di non rispondere.

«Sono qui per studiare, per approfondire alcuni aspetti del diritto interplanetario che adesso non ti sto a spiegare, perché tanto non ti interessano e dubito che li capiresti. Comunque, lo sai perché mi sono fatto assumere proprio da quello studio legale, vero?»

«Perché non volevi spalare merda tutto il giorno.»

«A parte questo, dico. La titolare dello studio è Amani Rowan, avvocato di fama galattica, ma che tu di certo non hai mai sentito, vero? Comunque, domani rientrerà da un viaggio di lavoro e le potrò finalmente parlare. Se è una brava persona come mi auguro che sia, oltre che una professionista da leggenda, dovrei raccogliere in breve tutto il materiale che mi serve per il mio progetto di studio. Il che significa che, presto, potremmo anche cominciare a pensare alla prossima tappa del viaggio.»

«Dove mi farai rastrellare vomito, per caso?»

«Sono esperienze che aiutano a formare il carattere, non dovresti essere così disfattista, ragazzo.»

«Perché allora non ti unisci anche tu all’allegra compagnia, se sono esperienze così formative?»

«Perché il mio carattere è già formato e comunque ho cose più importanti a cui pensare. E ti ricordo che io ho già un progetto per la mia vita, a differenza di te, che invece sei una pianta grassa. Nuove esperienze ti aiuteranno a decidere cosa vorrai fare da grande.»

«Non lo spalatore di merda, grazie tante.»

«Vedi? Le tue idee sono già più chiare, adesso: hai un lavoro che puoi escludere con cognizione di causa dalla lista per il futuro. È un grande progresso, non trovi?»

Matteo non trovava, ma di nuovo si avvalse della facoltà di non rispondere. Cominciava anche ad avere parecchia fame e sperava che Chakra la finisse presto con le sue chiacchiere, per mettere sotto i denti cose molto più solide e nutritive di parole d’aria fritta.

«Comunque ho qualcosa che potrebbe interessare anche un terrestre come te, se vuoi allargare i tuoi orizzonti, farti una cultura, misurarti con nuovi pensieri e tutta quella roba che una volta fingevi di trovare così interessante. All’anfiteatro di Ulan Khor ci sarà una conferenza molto pubblicizzata, di recente: un professorone di Svarga, che verrà a parlare di una nuova scoperta che rivoluzionerà la planetologia e il nostro modo di vedere la galassia, più tutte le solite cazzate retoriche, hai presente anche tu, no? Sarà nel tuo giorno di riposo, potresti andare ad assistere. È gratis.»

«E perché ci dovrei andare?»

«Farai qualcosa di diverso dallo spalare merda, no? E poi magari te ne potrai vantare col tuo amico terrestre, il planetologo. Com’è che si chiamava, poi?»

«Bogdan. Bogdan Stratos. Ma non mi pare che sarà molto interessante e poi non è che ci sia molto di cui vantarsi,» disse Matteo, con la sua classica voce strascicata da “penso che lo farò, ma non ti voglio dare ragione”. Perché probabilmente lo avrebbe fatto davvero. Nei giorni di riposo non aveva altro da fare che dormire, di solito, e pure quello che è che gli riuscisse molto bene, a dirla tutta. Un giro a una conferenza poteva essere un cambiamento utile, positivo. Poteva anche riaccendergli un paio di neuroni, tra tutti quelli che il lavoro quotidiano continuava a spegnergli forse per sempre.

«Fai come vuoi, io ti ho informato.» Poi finalmente le chiacchiere finirono e la cena cominciò. Non che fosse poi un granché di cena, specie se paragonata a quelle lakshmite, ma su Lakshmi tutto era gratis e preparato da gente che sapeva cucinare. Lì su Rudra dovevano pagare loro e la cucina era a carico di due ominidi che sapevano a malapena far bollire l’acqua senza bruciarla. Il risultato era di solito commestibile, ma le papille gustative si ritiravano inorridite a piangere nella loro stanza, ogni volta che venivano in contatto con quello che, in mancanza di meglio, doveva essere definito cibo.

Il giorno della famigerata conferenza Matteo Kori raggiunse a piedi l’anfiteatro di Ulan Khor, ben sicuro di sé in quello che considerava essere il suo abito migliore. La gente che lo vide passare gli dedicò solo una rapida occhiata, prima di girarsi, scuotere la testa e tornare a dedicarsi ai fatti propri o a quelli altrui, a seconda delle inclinazioni personali, per cui probabilmente era davvero vestito bene, per essere uno studente universitario umanista. Il sole batteva forte ma non schiantava come il suo cugino attorno a cui ruotava Lakshmi, perché l’ultima glaciazione su Rudra era avvenuta in un tempo geologicamente piuttosto recente e il pianeta doveva ancora smaltire gli ultimi strascichi del raffreddore, anche se il peggio era decisamente passato.

Ma era un bel pianeta, nel complesso, molto diverso da come Matteo se l’era aspettato. Sulla base del poco che ne sapeva lui, aveva immaginato un mondo pesantemente industrializzato, avvolto da nubi di fumo nero e soffocante, pieno di ciminiere e casermoni, fabbriche e miniere, insomma più o meno una versione lievemente modernizzata di una Londra steampunk, molto letteraria e quasi per nulla realistica o plausibile. Un quadro che personalmente non apprezzava, perché lo steampunk gli era sempre piaciuto quanto un violento calcio nei testicoli, ma cos’altro si sarebbe dovuto aspettare da un pianeta famoso per l’assurda abbondanza di materie rare nel resto della galassia nota?

Chakra lo aveva preparato a ricevere una robusta botta dalla realtà, durante il viaggio. Una volta che Rudra era stato annunciato come prima meta del loro malsano tour galattico, il compagno gli aveva spiegato che sì, tanto Rudra quanto il suo sistema solare erano famosi proprio perché lì le cosiddette terre rare erano rare quanto i mosconi attorno a un cadavere abbandonato in un campo. Un qualche scherzo delle probabilità aveva dotato quella zona di una concentrazione schifosamente alta di tutti gli elementi che scarseggiavano altrove e Rudra ne aveva approfittato, sia arricchendosi grazie alle esportazioni, sia potendosi concedere uno sviluppo ottimo e abbondante di tutti i settori industriali che altrove arrancavano proprio per carenza di materie prima.

«Ma questo non significa che sia un pianeta fatto di industrie, capito? È un pianeta e come tutti gli altri pianeti abitabili è estremamente grande, almeno per le unità di misura umane. Ci sono dunque aree industriali e aree non industriali, ci sono miniere e parchi, montagne e mari, deserti e foreste e insomma c’è tutto quello che trovi anche su altri pianeti. Tutto. Ripeto, tutto. Comunque gran parte delle industrie è in orbita, oppure sugli asteroidi, dove le terre rare sono ancora più abbondanti. Il che significa che sul pianeta vero e proprio troverai ambienti gradevoli e accoglienti, per lo più, o almeno nelle zone abitate dagli umani. Nessuno è più così stupido da costruirsi ciminiere o centrali altamente pericolose e inquinanti proprio sotto il naso, capisci?»

Matteo aveva capito con la testa, ma la comprensione vera e propria, quella che potremmo attribuire ad altre parti del corpo o meglio ancora a zone differenti del cervello, era arrivata soltanto dopo aver posato piede su Rudra e averne attraversata una bella fetta, per spostarsi dall’equatore fino alla zona temperata in cui sorgeva la città di Ulan Khor. E sì, adesso doveva ammetterlo: Rudra era uguale a ogni altro mondo che avesse visto (due) e sì, Chakra aveva ragione. Cambiavano i dettagli, ma tutto il resto era identico a ogni altro luogo dove l’uomo potesse vivere senza troppi fastidi. Il che era logico, proprio come era logico che le città fossero costruite in zone gradevoli e lontane da elementi pericolosi e instabili quali vulcani, faglie e quant’altro si potesse prevedere. Se devi costruire nuove città su un nuovo pianeta, perché andarle a fondare proprio nel suo buco del culo?

I rudriani non lo avevano fatto. Ulan Khor non era proprio un modello di eleganza e opulenza agli occhi di Matteo, abituato agli scenari lakshmiti, ma un bel posto? Sì, lo poteva concedere. In parte gli ricordava una città mitteleuropea, una di quelle sorte in mezzo a una pianura e con un fiume che le attraversa. Un grosso fiume, nel caso specifico. Vero, l’architettura era completamente diversa, ma l’atmosfera no, l’atmosfera era simile a sufficienza da suggerire l’analogia. Sempre agli occhi di Matteo Kori, famoso non viaggiatore e non esploratore, la cui conoscenza dei mondi e delle genti era più o meno pari a quelle vantate da una cozza di allevamento.

Il cosiddetto anfiteatro era un edificio pubblico che, osservato dalla giusta angolazione e dopo aver assunto una dose adeguata di sostanze stupefacenti, poteva anche farti pensare all’omonimo edificio romano o romanico, ma solo dopo che molti secoli erano trascorsi dalla sua fondazione ed eventi molto brutti erano capitati a suo danno, non ultimo il passaggio dei Barberini. Era anche coperto da una cupola che poteva essere vetro, plastica trasparente, oppure una qualche via di mezzo. Ma era grande, parecchio grande, il che si dimostrò una ottima cosa, data la quantità di folla già presente all’arrivo di Matteo, in elegante ritardo soprattutto perché aveva sbagliato strada un paio di volte.

Perché così tanta gente per assistere alla conferenza di un planetologo? Doveva essere davvero una cosa importante. Fu soprattutto una cosa noiosa, come scoprì a proprie spese, con un ometto un po’ paffuto e dalla faccia di gufo che parlava seduto a una cattedra al centro dell’anfiteatro, nonché sui grandi schermi sparsi più o meno ovunque, per diffondere immagini e parole a ogni spettatore, in ogni punto della struttura. Blabla e blabla e blabla. Tra una frase e l’altra, ma a volte anche durante le frasi, scorrevano immagini e modelli di qualcosa si srotolavano dietro l’ometto.

I modelli erano interessanti, o almeno promettevano di esserlo, se soltanto Matteo fosse riuscito a capire cosa rappresentassero di preciso. Erano due ed erano uguali, o almeno simili a sufficienza da risultare praticamente uguali a un occhio distratto o non competente: entrambi rappresentavano una specie di polpetta, sistemata più o meno al centro di una specie di sfera colorata. Anche la polpetta era colorata, ma di un colore diverso, vagamente rosa.

«I colori sono soltanto un espediente grafico per esemplificare le differenza di densità tra queste due porzioni del pianeta e non vanno interpretati come una rappresentazione realistica e verosimile della tinta che le supposte strutture dovrebbero possedere nella realtà,» spiegava intanto l’ometto, il tono di voce come un bombo che vaga sperduto in un prato fiorito. «La nostra scelta di questa particolare sfumatura di rosa è intesa poi in una prospettiva didascalica, più ancora che scientifica, e aspira a rendere chiaro, fino dalla prima occhiata, che stiamo parlando qui di strutture organiche. Abbinare questo nucleo organico a un colore che siamo abituati ad associare agli organismi viventi, come è il caso appunto per questa sfumatura di rosa carne, dovrebbe semplificare l’immedesimazione degli spettatori nel modello, almeno nelle intenzioni dello staff grafico che vi ha lavorato. Ahimè, non sono certo che il risultato sia ottimale,» concluse con un sorrisetto un poco ottuso e le braccia che si allargavano a indicare, o esemplificare, una forma di resa impotente di fronte alle autorità superne e impietose. O qualcosa del genere.

Parlò parecchio, l’ometto cicciottello, e Matteo lo seguì soltanto a tratti, avvolto com’era nel calore torpido e soporifero della vaga umanità che affollava l’anfiteatro. Cercò comunque di prendere nota e di ricordare il più possibile, oltre a scattare qualche foto: aveva una mezza idea di scrivere prima o poi a Bogdan, che non si faceva sentire da tanto, e aggiungere qualche dettaglio su una conferenza di planetologia o roba simile gli avrebbe di sicuro fatto fare una bella figura con l’amico, no?

Così, al ritorno dalla conferenza, preparò il messaggio parlando di quello a cui aveva assistito, di un planetologo dalla faccia di gufo e la pancetta prominente che spiegava di come avesse scoperto che nel nucleo di due giganti gassosi nel sistema solare di Madre vi fossero strane, inspiegabili strutture organiche e di come tutto questo avrebbe rivoluzionato il modo in cui l’uomo guardava all’universo o qualcosa del genere. Allegò le foto che aveva scattato, sia al conferenziere che al pubblico, spiegò come i notiziari rudriani ne avessero elogiato le virtù e l’importanza per il futuro dell’umanità, con un brivido da perfetto giornalista si concesse anche un quasi editoriale, in cui commentava a braccio argomenti di cui ricordava solo la metà e di quella metà aveva capito sì e no un decimo, chiudendo il tutto col più classico dei “cosa ne pensi?”.

La risposta che ricevette diverso tempo dopo, pur rispondendo alla sua domanda ed esprimendo in termini molto diretti ed espliciti l’opinione di Bogdan sulla conferenza e il conferenziere, fu anche piuttosto diversa da quello che Matteo si sarebbe aspettato. La sfilza di aggettivi e sostantivi con cui l’amico aveva arricchito il sobrio ritratto di quel ladrone schifoso che girava la galassia a fare soldi con le scoperte altrui era decisamente una sorpresa: Matteo se la sarebbe aspettata da Chakra, non certo dal mite planetologo che lo aveva accompagnato nel primo viaggio spaziale, quasi due anni e mezzo prima (grossomodo: i calendari ballerini gli avevano devastato il senso del tempo).

Che poi la risposta terminasse con un invito a prendere a sassate l’ometto cicciottello, la prossima volta che lo avesse visto, era senza dubbio curioso. Chissà cosa lo aveva offeso nella cronaca della conferenza all’anfiteatro. O forse era solo stanchezza o delusione, dato che Bogdan gli aveva anche scritto di essere appena rientrato sulla Terra e che il soggiorno di studi su Svarga non era terminato proprio come avrebbe desiderato lui.

Passata la conferenza, la vita rudriana di Matteo proseguì come sempre, cioè in un modo che solo in termini negativi si poteva definire soddisfacente. Difficile sentirsi soddisfatti di sé, quando si passa tutto il giorno a spalare letame, per migliorare la qualità media della vita sul pianeta o in termini più semplici perché qualcuno deve pure spalare il letame. Lievemente migliori erano i turni di riposo, che gli capitavano di tanto in tanto e che spendeva a volte a letto, dormendo come se non ci fosse un domani, e a volte a girare in città, che era moderatamente piacevole da vivere, ma anche una palla mostruosa. Sì, di tutti i posti che avrebbe potuto scegliere, Chakra ne era andato a pescare uno che era soddisfacente come una insalata condita solo con urina umana.

«Io comunque continuo a non capire perché siamo venuti proprio qui,» disse una sera, mentre lui e Chakra erano seduti attorno a tavola a contemplare qualcosa che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente diverso da cibo commestibile per esseri umani. «Non è che sia molto bella, questa città. Ok, è meglio di quanto mi aspettassi, ma non c’è niente, davvero. È una palla.»

«Non c’è niente che piaccia a te, probabilmente, ma questo non significa che non ci sia niente in generale. Che tu ci creda o meno, Ulan Khor è la quinta città per importanza nell’emisfero boreale. Non per dimensioni, d’accordo, e forse neanche per la vita notturna, ma è un centro di commercio e le sue università sono di primo livello.»

«Ah, davvero? A spalare merda tutto il giorno è difficile notarlo.»

«Non sai parlare d’altro, ragazzo mio! Comunque, la conferenza di quel planetologo a cui ha voluto assistere tu si è svolta qui proprio per la sua importanza come centro culturale e accademico. Credi che sia stato solo un caso?»

«Non è che ho proprio voluto assistere io, di mia spontanea volontà. Tu mi hai suggerito di andare e io ci sono andato, soprattutto perché non avevo altro da fare. E poi è stata una palla mortale.»

«Sempre a lamentarti, vedi? Non sai apprezzare la vita e le occasioni che ti offre. Comunque, ti ho già detto che siamo qui perché io volevo intrufolarmi nello studio legale di Amani Rowan. Ci sono riuscito. Non è proprio ben disposta come speravo, ci vorrà parecchio prima di poter mettere le mie luride zampacce sui documenti che mi interessano, ma vedrai che ci riuscirò. Sono o non sono uno sporco bastardo privo di scrupoli e morale?» concluse con un sorriso, che si spense subito quando si infilò in bocca la forchettata di pseudocibo appena raccolta. «Questo fa più schifo del solito,» disse dopo aver superato il terribile trauma iniziale.

«Sono esperienze. Rafforzeranno la tua fibra morale.»

«Distruggeranno le mie papille gustative, semmai. Ma cosa ci hai messo stavolta? Cadaveri?»

«Da un certo punto di vista sì, dato che dovrebbe essere a base di carne, anche se non so di cosa sia la carne. Comunque non so, forse non mi sono lavato bene le mani al rientro dal lavoro.»

Chakra lo fissò a lungo, poi tornò a guardare il contenuto del piatto, quindi di nuovo l’amico. «Tu stai scherzando, vero?»

«No, cioè, le ho lavate bene, d’accordo, ci mancherebbe, ma la roba che si era attaccata stavolta era più difficile da scrostare del solito, per cui non so, non si sa mai.»

Chakra contemplò l’infinita vanità del tutto, le morte stagioni e la presente, poi si dedicò a cercare una buona risposta, non la trovò, quindi spinse il piatto lontano da sé e si raddrizzò nella sedia, che salutò il movimento con un sospetto scricchiolio. «Non credo di avere molta fame, oggi.»

«Dicevi di quei documenti che volevi rubare,» osservò Matteo, che intanto continuava a mangiare con la pace di chi ha ormai perso per sempre il senso del gusto e forse anche la dignità umana.

«Non ho mai parlato di documenti da rubare. Dicevo solo che voglio mettere le mani sulle carte di un paio di processi, di cui l’avvocato Rowan si è occupata. Cose che interessano il mio progetto di tesi, sai com’è. Sono qui per raccogliere materiale, dopotutto.»

«E per divertirti. Alla sera non sei mai in casa.»

«E per divertirmi, d’accordo, ma anche quello fa parte del lavoro, lo sai. Conoscere i vari popoli e le varie culture è una componente fondamentale del mio campo di studi.»

«Pensavo che tu studiassi diritto, non antropologia.»

«Se le osservi dalla giusta prospettiva, le differenze tra le due discipline non sono poi così grandi.»

Matteo si avvalse nuovamente della facoltà di non rispondere. Continuò a mangiare in silenzio, con la calma perseveranza di una placca continentale che prima o poi produrrà una catena montuosa a forza di spallate, oppure con la placida rassegnazione di chi non aspetta più nulla. Nel complesso, la seconda opzione era la più vicina al vero, ma non si poteva trascurare la semplice fame, generata da un lavoro quotidiano ad alto dispendio energetico e bassa attività cerebrale.

«Quindi quanto avremo ancora da passare qui?» chiese poi, mentre Chakra frugava a testa bassa nel frigorifero, in cerca di qualcosa di commestibile anche per chi non si era avviato a emulare la vita di Gregor Samsa nel bene e nel male, nonché nel medio.

«Qui in questa stanza o qui a Ulan Khor?»

«Qui su Rudra, dico. Mi piacerebbe tornare a fingermi un essere umano, almeno per un poco. Non è molto divertente vivere come uno scarabeo stercorario.»

«Pensavo ti sarebbe piaciuto, in fondo hai le physique du rôle. A ogni modo, non so. Se tutto mi va bene, potremmo cavarcela in una ventina di giorni. Se tutto mi va male, resteremo qui finché non mi sarà andato bene. E non credere che io mi diverta, guarda: fare lo schiavo in uno studio legale non è proprio la mia idea di bella vita.»

«Figurati spalare merda, allora.»

«Sei proprio fissato, eh? Non riesci a pensare ad altro.»

Matteo riusciva a pensare ad altro, in realtà; il problema era che, alla fine, la vita quotidiana aveva la tendenza a riportarlo sempre allo stesso punto, ossia accanto a un cumulo di letame. Gli successe anche in uno dei suoi giorni di riposo, mentre camminava solitario e pacifico sul percorso pedonale che costeggiava il fiume di Ulan Khor e si riempiva i polmoni con gli aromi di un lieve pomeriggio primaverile. Da un lato aveva il traffico motorizzato, a una certa distanza e non troppo rumoroso; le acque molto più rumorose scorrevano sul suo lato opposto, verdastre e ancora gonfie di un disgelo raccolto da qualche parte strada facendo. Il sole splendeva, gli uccellini cinguettavano (o almeno cose volanti emettevano versi simili al cinguettio di alcune specie di uccelli terrestri), la brezza era piacevole e insomma il mondo pareva sorridere, o forse solo ghignare. Cosa poteva andare storto?

Andò storto che incrociò Tran Quang Hai, un collega spalatore che lavorava nel suo stesso gruppo. Un tipo che doveva essere più o meno sulla trentina, con un fisico che pareva composto da manici di scopa legati assieme e ricoperti da una tuta troppo larga, una buffa coda di cavallo femminile e un paio di occhialini tondeggianti che dovevano essere stati trafugati da un qualche museo, perché da secoli non se ne vedevano in circolazione, o così pareva a Matteo, che comunque non prestava mai particolare attenzione alle mode ottiche, o alle mode in generale. Un individuo facile da notare, ma fornito anche di una personalità dimenticabile, che passava quasi tutto il tempo da solo e parlava di rado con altre persone, se per parlare si intendeva “esprimersi con parole di lunghezza superiore ai grugniti monosillabici”.

Tran Quang Hai era un immigrato proveniente da Varuna. Perché fosse arrivato su Rudra da Varuna e cosa sperasse di trovarvi erano misteri che nessuno conosceva, almeno sul posto di lavoro, ma in molti speculavano che avesse qualcosa a che fare coi problemi etnici per cui Varuna era famoso. Di sicuro non poteva avere a che fare con l’altra cosa per cui Varuna era famoso, ossia i calamari.

«Lo avranno beccato nel posto sbagliato al momento sbagliato, per uno del suo colore o con la sua cultura, e avrà deciso di cambiare aria prima che qualcuno gli tagliasse la gola,» aveva commentato l’armadio a sei ante responsabile del loro gruppo. Matteo ipotizzava che potesse esserci qualcosa di vero, anche se sapeva poco della politica interna di Varuna, e comunque non gli interessava. Sapeva che Tran Quang Hai spalava merda assieme a lui, parlava poco, non voleva compagnia e punto: il resto erano pure fatti suoi, no?

Quel giorno però il collega sedeva sull’argine del fiume, coi piedi che penzolavano oltre il parapetto e lo sguardo curiosamente perso nel vuoto. Sembrava depresso, di un particolare tipo di depressione che Matteo conosceva bene, per averla notata più volte sulla propria faccia. La depressione di chi si è appena accorto che il mondo non funziona come aveva immaginato lui e lo ha scoperto nel modo peggiore che potesse immaginare. La faccia di chi è caduto dal pero e ha dovuto accettare la verità terribile di non vivere in un romanzo. Mosso da un impulso di solidarietà umana, uno spirito quasi fraterno che unisce i vinti e li spinge a cercare persone più sventurate di loro per sentirsi meglio, il nostro terrestre lo salutò.

Tran Quang Hai alzò la testa, lo fissò attraverso le lenti rotonde dei suoi occhialini, accennò una risposta, la ritrattò, accennò una nuova risposta, infine ricambiò il saluto. Sicuro che tutto si sarebbe comunque concluso in fretta, Matteo buttò anche il più vago e inoffensivo dei “come va”, fiducioso che ne avrebbe ottenuto solo un grugnito come risposta e avrebbe potuto proseguire la camminata in santa pace, sentendosi un poco migliore per aver buttato un osso al cane randagio. Non andò così.

Tran Quang Hai lo fissò sorpreso, si alzò, si avvicinò e gli attaccò un bottone mostruoso, la faccia di chi sta affogando e ha trovato miracolosamente un salvagente a cui aggrapparsi. Così parlò, parlò, parlò e parlò ancora e a ogni parola Matteo si sentiva l’erba crescere sulle ossa, il muschi farsi più fitto, la luce del sole più lontana e remota, distante e sbiadita. Parlò di quanto fosse schifosa la vita su Varuna per il suo gruppo sociale, parlò di quanto a lungo avesse meditato la fuga su un pianeta diverso, come sola via per sottrarsi alla miseria, parlò dei desideri e delle speranze che gli avevano tenuto compagnia durante il viaggio e parlò di come tutti quei desideri e quelle speranze si fossero frantumate su una montagna di letame, all’arrivo su Rudra.

«Perché anche qui sono diverso, vedi? Non mi permetteranno mai di fare altro.»

Matteo cercò di consolarlo attingendo alla propria riserva di luoghi comuni e frasi fatte, ma non ci mise molta energia e comunque si capiva che non gliene poteva fregare di meno e desiderava solo sganciarsi e fuggire al più presto. Tran Quang Hai non lo capì o almeno finse di non capirlo, e la sua litania di lamentele proseguì, prendendo una piega quasi messianica e certo insalubre, mentre nelle sue parole si infilava strisciando una vena rivoluzionaria, in cui auspicava un cambiamento radicale nella struttura della società su scala galattica ed esprimeva la sua convinzione personale che nulla di tutto ciò sarebbe mai potuto avvenire in modo pacifico, perché era necessario che la galassia fosse purificata nel sangue e col sangue.

«Ma vedrai, vedrai! Un giorno raddrizzeremo questa società e la trasformeremo in un posto in cui tutti gli uomini siano davvero uguali, dove uno vale davvero uno e ognuno vale qualcosa.»

Matteo riuscì a sganciarsi solo con grande fatica e solo perché, in quel momento, una famiglia di pacifici rudriani passò accanto a loro, padre padre e figli che ridevano e chiacchieravano di qualcosa che, a giudicare dalle loro facce, doveva essere molto piacevole e sereno. Così Tran Quang Hai si azzittì, Matteo lo salutò e fuggì al passo più rapido che la decenza gli consentisse. Aveva avuto già problemi a sufficienza con rivoluzionari veri o presunti, o anche mezzi matti assortiti, e non voleva aggiungerne altri alla lista. Con un fratello forse ricercato perché sospettato di appartenere a una cellula terroristica, impelagarsi con altri pazzi antisociali era l’ultimo dei suoi desideri. Anzi, non era proprio un suo desiderio, primo o ultimo che fosse. Fu dunque un sollievo ascoltare Chakra al rientro dal lavoro, quella sera, quando lo accolse con un sorriso.

«Preparati, perché fra poco ce ne potremo andare. Se tutto va bene.»

Ma se tutto sarebbe andato bene era ancora da vedere. Lo si poteva però sperare.