Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 60

Matteo Kori appoggiò la pala al muro, si raddrizzò, piantò le mani sui fianchi, scrocchiò la schiena, la scrocchiò ancora un poco, smise di scrocchiarla poco prima di ribaltarsi all’indietro, grugnì tutta la sua gioia e sospirò. Bella giornata. Fantastica. Quasi come collassare di faccia nel proprio vomito dopo una robusta sbevazzata, ma molto più fetida e senza niente di positivo a precederla. In fondo era una giornata di lavoro, per lui, e il lavoro era... beh, diciamo lavoro. Ogni possibile attributo o apposizione lo avrebbe costretto ad attingere al bagaglio sempre più ampio di turpiloquio nei dialetti di Rudra e dei vari altri pianeti che avevano prodotto i suoi compagni di sventura e no, al momento non se la sentiva. Magari più tardi, ma grazie lo stesso.

«Tra poco potremo ripartire,» aveva detto Chakra, giorni prima. Matteo gli aveva creduto e forse in quel caso l’amico aveva anche detto la verità, o almeno ciò che percepiva come verità, a ragione o a torto. Ciò che non aveva specificato, però, era la durata del “poco”, che Matteo aveva inteso come un breve intervallo di tempo, ma che in apparenza di breve non aveva molto, sempre ammesso e alquanto non concesso che avesse almeno qualcosa. Il che era un problema. Se poi aggiungeva che quell’intervallo di tempo lo avrebbe dovuto trascorrere allegramente al lavoro, per un dato valore di lavoro e un valore proprio non pervenuto di allegria, allora problema era un eufemismo. Assai più accurato sarebbe stato parlare di catastrofe. Grossomodo.

Perché il lavoro era brutto, niente da dire. Passare diverse ore al giorno a spalare letame prodotto da una specie di bovino locale può raramente essere considerata una bella attività, se non da persone che hanno imparato a coltivare interessi alquanto specifici e poco apprezzati in società. Che poi, era sensato che esistessero ancora occupazioni del genere, in un’epoca in cui potevi viaggiare fino a un altro sistema solare senza che i bisnipoti dei tuoi trisnipoti morissero di vecchiaia strada facendo? Secondo il modesto parere di Matteo era molto più di un enigma avvolto in questo e quello: era una pura assurdità, spiegabile soltanto con una temeraria apnea negli abissi mentali dello homo insipiens e rimaneva comunque difficile da digerire anche in quel modo.

Normalmente, nessun essere umano avrebbe dovuto spalare merda per vivere. Era tutto automatico e automatizzato, nelle fattorie sane di mente. O nelle fattorie gestite da persone sane di mente, dato che solo di rado gli edifici possiedono una coscienza: c’erano sì stati esperimenti di bioarchitettura, neuroarchitettura o come cavolo si chiamava, ma i risultati avevano indotto anche i più arditi tra gli entusiasti ad abbandonarli in attesa di epoche migliori. Epoche che sarebbero arrivate tra un paio di secoli, per esempio, e magari su un pianeta altrui.

Esisteva però un particolare sottogruppo di imprenditori agricoli insani di mente, nonché feticisti di prefissi composti da due sillabe e tre lettere, tipo eco-bio e pio-pio, i quali sostenevano che solo i prodotti della terra ottenuti coi sani, vecchi metodi del passato fossero puri, genuini e benefici per il corpo umano. O almeno per i corpi degli umani ricchi a sufficienza da poterseli permettere, che in fondo erano gli unici esseri umani a contare davvero; tutti gli altri potevano arrangiarsi con quello che finiva nel loro piatto e non era abbastanza veloce da uscirne prima di essere inforchettato.

Ma il punto non era questo. Il punto era che gli entusiasti produttori e consumatori di eco-bio, pio-pio, mangio-io o quel che era, possedevano una conoscenza diretta della natura che, nella maggiore parte dei casi, era limitata al proprio giardino, o a qualche pianta grassa in vaso. Non avevano mai visto da vicino (e da vivi) gli pseudobovini che defecavano materie prime per le loro cene. Forse non sapevano neppure cosa fossero le loro cene, se non confezioni con etichette vistose e colorate. In generale, i consumatori erano solo merluzzi che giocavano ai grandi esperti di deserti e ghiacciai. O così amava ripetere più e più e più volte al giorno Tran Quang Hai, compagno spalatore di Matteo nonché vago e confuso protorivoluzionario in erba, probabilmente illegale.

Tran Quang Hai era la parte peggiore del suo lavoro. Un risultato di cui andare orgogliosi, quando il lavoro consisteva nello spalare merda dalla mattina alla sera. A Matteo non era chiaro come fosse andata a finire così, ma l’eziologia poteva attendere tempi migliori, ammesso e non concesso che ce ne sarebbero mai stati, su quel pianeta. Era cominciato il pomeriggio in cui Matteo lo aveva visto per strada e salutato, in uno dei gesti più sventurati che potesse ricordare. Prima, Tran Quang Hai si era espresso solo a grugniti, sul lavoro, e soltanto quando interpellato direttamente. Non parlava mai a nessuno, sempre testa bassa e spalare, sempre perso nel proprio mondo, una persona dimenticabile e quasi sempre dimenticata dagli altri. Poi Matteo lo aveva salutato, Tran Quang Hai («tu chiamami pure Hai») aveva attaccato bottone e da allora il bottone non si era ancora staccato.

Ridacchiavano, i colleghi, ma si tenevano anche a distanza, giusto per sicurezza. Perché quello Hai era apprezzato più o meno come una epidemia di peste nera nel medioevo: nessuno lo voleva avere attorno e tutti lo guardavano storto, con molto sospetto. Veniva da Varuna e la gente di Varuna non aveva una bella fama, nei paraggi, per ragioni che Matteo non aveva ancora capito bene. Capiva fin troppo bene però che il tizio lo aveva praticamente adottato, gli si era appiccicato con la caparbia ostinazione di una cozza e probabilmente se ne sarebbe liberato soltanto abbandonando il pianeta, o quantomeno il continente su cui sorgeva la città di Ulan Khor, dove era al momento alloggiato.

Chakra gli aveva detto che sarebbero potuti partire presto. Il presto non era ancora arrivato. Doveva attendere qualcosa sul suo posto di lavoro, che era un piacevole studio di avvocati, dove svolgeva le funzioni di uno pseudoaiutante-apprendista o quello che era. Non piacevole, forse, ma senza dubbio migliore di spalare merda. Più profumato, se non altro, o meno maleodorante, il che è pressappoco la stessa cosa. A Matteo non era ben chiaro cosa stesse aspettando o cosa sperasse di ottenere, ma in fondo non gli era mai chiaro cosa sperasse di ottenere Chakra dalla vita in generale, per cui non era un problema. Il problema era che ci voleva troppo.

«Non lagnarti in continuazione, te l’ho detto,» era la risposta standard. «La titolare, quella Rowan, è tornata dal suo viaggio di lavoro e ormai è questione di giorni. Tempo di preparare tutto e ci siamo, non ti preoccupare. Fidati di me. Ti ho mai mentito?»

«Sì, più di una volta.»

«Non è vero e tu lo sai. Ho alterato la verità a mio vantaggio, d’accordo, questo te lo concedo, ma di menzogne vere e proprie non ne ho mai dette. Non a te, almeno. Questo lo devi riconoscere.»

«Non vedo molta differenza tra mentire e alterare la verità a proprio vantaggio.»

«C’è una differenza enorme, a cominciare dall’atteggiamento generale. E comunque non è rilevante, no? Ti ho detto che fra non molto potremo partire e fra non molto potremo partire, vedrai.»

Matteo lo sperava, ma con poca convinzione. Per il momento doveva sopportare Hai, i suoi deliri, la storia della sua vita su Varuna, lamentele di ogni genere dirette sia contro il suo pianeta di partenza, sia contro Rudra su cui era emigrato. Il che era brutto. Ma Matteo doveva sopportare anche i suoi fumosi piani di rivalsa personale e sociale, il che era decisamente peggio. Non tanto per i possibili problemi diretti (Hai era un rivoluzionario credibile tanto quanto una mosca è un palombaro), ma perché lo costringeva a pensare a Davide, il suo fratello scemo che era fuggito su Madre sotto falso nome, dopo avere frequentato pessime compagnie sulla Terra. Almeno secondo quei due funzionari di ambasciata che lo avevano fermato a Nuova Kalighat, su Lakshmi.

No, non era piacevole. Che poi, perché li attirava tutti lui i matti? Possedeva una qualche specie di calamita? E soprattutto, perché non matti completamente innocui? Un sano squilibrato che pensa di ricevere messaggi telepatici da agenti segreti della Nebulosa di Andromeda, per esempio, e passa le sue giornate alla finestra o su una panchina, ascoltando i suddetti messaggi, senza dare fastidio agli altri. Un matto che magari gli confida di tanto in tanto i messaggi, con un sorriso, e poi se ne torna ad aspettare in un angolo, tranquillo, pacifico. Un matto matto, ma innocuo. Non poteva averne uno? Uno solo? Perché a lui dovevano capitare invece quelli che cercavano di compiere un qualche atto sgangherato e che, in un modo o nell’altro, alla fine tentavano di coinvolgere pure lui nelle loro mattane? Non era giusto, ecco.

Tran Quang Hai al momento gli stava spiegando in dettaglio come una sana rivoluzione si sarebbe dovuta sviluppare spontaneamente su Rudra, per correggere tutti i difetti lasciati dalla formazione troppo affrettata della società coloniale, ma soprattutto i difetti spirituali innati nell’essere umano, e che la vita spaziale era servita soltanto ad accentuare, producendo comunità planetarie di ipocriti ed egoisti, indifferenti a tutto ciò che si svolgeva fuori del proprio ombelico. Glielo aveva spiegato già per almeno sette pagine e avrebbe continuato fino alla fine del capitolo, con ogni probabilità, se un drone non avesse scelto proprio quel momento per sorvolare la fattoria, col suo ronzio da moscone in calore, come un settimo cavalleggeri che ha subito pesanti tagli di budget, ma può ancora salvare il nostro eroe dalla orribile minaccia che il regista di turno si è inventato per allungare il brodo.

Tacquero i brusii di discorsi, si alzarono le teste, la pale si fermarono per un momento. Non di più, perché non si fermavano gli animali, che continuavano impassibili a svolgere due delle loro quattro attività fondamentali: mangiare e defecare. E se smettevi di spalare, ben presto ti ritrovavi a dovere sperimentare di persona tutta una serie di modi di dire relativi a escrementi e al livello che possono raggiungere attorno a te. Esperimento spiacevole, per ovvie ragioni. Matteo era rimasto sorpreso, i primi giorni. Come facevano a cagare in continuazione? Il soprintendente gli aveva spiegato che era normale. Li avevano modificati geneticamente per accelerare il metabolismo o roba simile, ma in ogni caso erano macchine da merda anche in natura, per cui non è che fosse cambiato molto. Erano tubi su zampe: da una parte entra il cibo e dall’altra esce... il cibo, ma in forma diversa.

Ma il drone aveva portato silenzio e questo era un cambiamento. In positivo, almeno per chi aveva Tran Quang Hai di fianco. Gli altri lo fissarono per un poco, poi tornarono al lavoro, testa bassa e pala carica, ma con più energia di quanta ne mettessero prima e, Matteo non poté non notare, con un maggiore grado di efficienza e uno stile più bello. Non proprio elegante, ma quasi.

«Eccoli,» borbottò Hai. «Eccoli che ci spiano, ci sorvegliano. Cosa ti dicevo, eh? Sono consapevoli che noi possiamo costituire una minaccia per loro, e cosa fanno, eh? Migliorano le nostre condizioni di vita? No! Ci spiano. Ci controllano. E al primo movimento...»

«È solo la pubblicità,» bofonchiò un uomo sulla quarantina accanto a loro. Matteo era quasi certo di ricordare il suo nome, anche se al momento gli sfuggiva. Qualcosa di vagamente cinese, anche se di cinese quel tizio non aveva neppure la punta di un capello.

«La pubblicità?» gli chiese.

«Pubblicità, sì. Vogliono far vedere che i prodotti sono davvero naturali, niente macchine, niente di meccanico, palle varie. Quelle scemenze lì, no? Ogni tanto mandano in giro quei cosi a filmare tutte le fasi della lavorazione, o così dicono. Filmano solo quelle che fanno comodo e poi è tutto un taglia e cuci, non credere. Come se ci fosse qualcosa di naturale! Le hanno modificate tanto, queste bestie, che neanche sopravviverebbero due minuti da sole, se le lasciassimo andare. Ma sono naturali, eh, ti dicono. Bah!» E via una palata.

Matteo lo fissò perplesso. Non aveva un vocabolario da spalatore di merda. Non lo aveva neppure lui, vero, ma quello era un altro discorso. Il tizio dal nome cinese sembrava un... no, un professore no, per carità, ma magari un impiegato, uno di livello medio-alto. Medio-medio, dai. Magari due o tre gradini più in alto del lavoro che Matteo si sarebbe aspettato di poter trovare per se stesso, uno di quelli in cui sei seduto davanti a uno schermo tutto il giorno, a dettare cose, magari premere i tasti di qualcosa, se necessario e se ci sono ancora tasti, cose così. Un lavoro che è noia e pigrizia, più che attività e muscoli. Poi Chakra era successo e il suo vago sogno si era frantumato. Chissà come ci era finito a spalare letame, quel tizio dal nome cinese?

Non lo avrebbe scoperto, non quel pomeriggio. Hai brontolò deliri a proposito di coperture e facili storie per ingannare i fessi, ma non lui, eh, lui non lo avrebbero ingannato, perché fesso non lo era mica, non era nato ieri, lui. L’uomo col nome cinese e la faccia da impiegato gli dedicò quel tipico sguardo che si conserva per i matti, quando attaccano con le loro mattane, e si allontanò un poco. Fu la fine di ogni possibile dialogo. Matteo scrollò le spalle e sospirò.

Il drone rimase a volteggiare ancora per un poco, filmando file di persone che lavoravano tutte serie e impeccabili, come nella realtà non avveniva mai, poi si allontanò e i mugugni ripresero, ripresero le spalate distratte e imprecise, ripresero gli sputi qui e là, riprese insomma la vita non in diretta, ma in atto. E le storie di Hai. Le fantasticherie rivoluzionarie e paranoiche di Hai. Matteo si sentì l’erba crescergli sulle ossa, il muschio dentro il cranio. Cosa avrebbe dato per potere tornare indietro nel tempo di qualche giorno e non salutare il collega, quando lo aveva visto lungo il fiume?

Ma poi anche la giornata di lavoro terminò e venne il tempo di tornare a casa, o di riedere alla sua parca mensa, come dicevano certuni. E alla parca mensa lo attendeva Chakra, ghignante dentro il suo pizzetto, come sempre. O più di sempre? Sì, forse ghignava più del solito, quella sera. Oh beh, di qualunque cosa si trattasse, gliene avrebbe parlato lui, poco ma sicuro. Inutile fare domande e il saggio Matteo non ne fece, concentrandosi invece su attività molto più impellenti e fondamentali in un mondo sano e ordinato, come cambiarsi e lavarsi. A fondo. Sfregando bene sotto le unghie.

Una volta rimosso il peggio del fetore, almeno nei limiti in cui lo poteva rimuovere senza lasciarci una percentuale troppo elevata di pelle, Matteo si abbandonò sulla poltrona sformata e si preparò al peggio, ossia a un nuovo slittamento in avanti del “presto” entro cui sarebbero partiti. Il che però non avvenne, non nei termini in cui lo immaginava.

«Allora, divertito a rendere il mondo un posto migliore, anche oggi?» gli chiese Chakra, con la sua simpatia da calcio nelle gonadi e un sorriso non molto migliore. Matteo non rispose.

«Sei stanco, sei stanco, capisco. Peccato! E dire che avevo buone notizie da darti...»

«Ti sei sottoposto a una vasectomia per liberare le epoche future dai tuoi geni malati?»

«Niente di tutto questo, ma nella mia giornata di lavoro odierna, nella mia dura giornata di lavoro, mi è successo qualcosa che potrebbe interessarti, se davvero desideri tanto abbandonare il pianeta e cercare fortuna altrove. Ma suppongo che non ti interessi, giusto?»

«Non è che mi interessi tanto abbandonare questo pianeta, ma abbandonare questo lavoro. Il pianeta non l’ho neppure visto, a parte la stazione di arrivo e questa città. Ho visto molti culi di animali, in compenso, ma non è proprio la mia idea di turismo, sai com’è.»

«No, non so come sia la tua idea di turismo, ma ti assicuro che una categoria di persone sarebbe più che felice di trovarsi al tuo posto e interagire tutto il giorno con orifizi posteriori di animali.»

«Non appartengo a quella categoria e non non voglio saperne altro, grazie. È ora di cena.»

«Naturalmente, naturalmente. Mai che tu sia aperto a nuove conoscenze, davvero. E dire che volevi farti credere un intellettuale, amante della cultura e pronto a diffonderla tra i bambini terrestri.»

Matteo sospirò. «Questa battuta era orrenda anche per i tuoi standard. E comunque non pensavo di insegnare ai bambini, ma a una fascia di età superiore, tanto per essere chiari. Possiamo cambiare argomento, adesso, o dobbiamo continuare col cabaret di serie zeta, destinato a un pubblico a cui è stato estratto il cervello e sostituito con un calzino sporco?»

«Io avrei detto serie ics, ma se tu pensi che sia zeta... A ogni modo cambiamo pure argomento. Vuoi sapere cosa mi sia successo oggi, dunque? È connesso alla nostra futura partenza dal pianeta.»

«Non me ne frega molto di saperlo, ma tanto lo dovrò ascoltare lo stesso, per cui racconta pure e ci toglieremo il pensiero. Magari mangiamo, intanto: non so te, ma io ho consumato parecchie energie oggi, tra spalare e ascoltare quel malato di mente di Hai.»

«Parli del tuo collega rivoluzionario in pantofole? Frequenti sempre bizzarre compagnie, dovunque tu vada, ma lasciamo stare, non c’è bisogno di guardarmi in quel modo. Comunque, ti dicevo che al mio lavoro stavo aspettando qualcosa, no? Ebbene, oggi l’ho avuto. Gioisci!»

Matteo non gioì. Aveva visto cosa ci fosse per cena e ogni possibile impulso alla gioia gli era morto in gola, o più precisamente nell’esofago, con qualche frammento che era disceso fino al piloro, dove adesso si guardava attorno smarrito, incerto sul futuro. Scendere ancora o risalire? «Di nuovo questa roba?» borbottò «Mi piacerebbe trovare cibo, ogni tanto.»

«È cibo e costa poco. È anche nutriente, che tu ci creda o meno. Cosa vuoi di più dalla vita?»

«Che sia commestibile, magari. Questa specie di hamburger ha sfumature verdastre!»

«Segno che è naturale e ricco di carne di prima qualità. O di una qualche altra qualità, non è il caso di essere troppo pignoli sui numeri ordinali. Tutta salute, tutta salute.»

«Ma è verde!»

«Carne locale, nativa del pianeta. E poi, come hai detto giustamente tu, presenta tonalità verdastre di notevole pregio artistico ed estetico, non trovi? Delizia gli occhi e tortura le papille gustative. Ma è un colore del tutto normale, davvero.»

«Non nella carne che conosco io

«Ma questa è carne che conosci tu. Proviene dagli animali con cui lavori tutto il giorno, D’accordo, forse non proprio da quelli con cui traffichi tu, non da loro personalmente, ma da animali identici a loro, stessa razza e stessa specie, quella roba lì. E la tonalità verdognola è del tutto naturale, anche se, è vero, può essere rimossa nella lavorazione, ma rimuoverla è un procedimento costoso e non ce la possiamo permettere col nostro budget. Non guadagni molto, lo sai? E nemmeno io, purtroppo.»

«Gli animali con cui lavoro io non sono verdi. Questa carne è verde.»

«Verdolina, verdognola, e poi è solo una sfumatura, un riflesso. E comunque sì, quegli animali sono verdi. Se li tagli sono verdi. O almeno esce roba verdastra. È il loro sangue, sai: invece del ferro, per loro c’è il rame e questo dà un colorito verdastro, al posto del rosso a cui siamo abituati noi. O così ho sentito dire. Non è che me ne freghi molto. Sono commestibili e questo è quanto, anche se hanno un sapore un poco diverso. Non cattivo, ma... diverso.»

«Piuttosto disgustoso, direi.»

«Questione di gusti. E comunque, ricorda il famoso detto: ciò che non ti uccide ti intossica e basta. Quindi mangia e ringrazia. È sempre meglio che digiunare, no?»

Matteo lo guardò sorpreso. «Ah, conosci anche tu Giacobbe Bulgherettich? Non lo sapevo. Credevo che non ti interessassi molto al mondo della letteratura.»

«Infatti non mi interesso molto. Non mi interesso proprio. E poi chi o cosa sarebbe quella roba che hai nominato? Perché suppongo sia un nome, anche se è una delle cose più ridicole che io abbia mai sentito da sobrio, nonché da persone sobrie. Ammesso che tu sia sobrio, beninteso. Non ci giurerei, ma non ricordo di averti più visto realmente ubriaco o intossicato dopo la festa che avevi apprezzato tanto, al termine della tua serata al centro culturale di Varshi.»

«Sono sobrio ed è un nome, il nome di un grande poeta terrestre. Mai sentito? Anche se, è vero, il suo nome reale era un poco diverso, Giacobbe Bulgherettich è solo uno pseudonimo che ha adottato in onore di un altro grande poeta, ossia...»

«Taglia la lezione, grazie. Ti ho già detto che non me ne frega niente. Vieni al punto, se c’è un punto e vale la pena di sentirlo, altrimenti chiudiamo qui e tanti saluti.»

«C’è un punto ed è molto importante, perché tu hai appena citato una delle sue frasi più celebri. Lo hai fatto involontariamente e inconsapevolmente, a quanto pare, ma lo hai fatto e questo mi diverte. Ciò che non ti uccide ti intossica e basta: lo diceva anche lui, sai? Nella poesia...»

Chakra alzò di nuovo la mano. Era da parecchio tempo che non vedeva Matteo così immerso nella sua modalità “fanatico letterario decerebrato” e non ne aveva sentito la mancanza. Meglio impedire che possa diventare davvero un insegnante, si disse: farebbe strage di allievi. «Taglia, ti ho detto.»

«Ma non posso tagliare! È importante! Se non conosci le opere del grande poeta gastrico...»

«Poeta cosa?» chiese Chakra molto lentamente, come se stesse parlando con un pazzo in equilibrio instabile sul cornicione di un grattacielo, soprattutto se quel pazzo gli doveva ancora parecchi soldi. Il che era vero, almeno per la prima parte della frase. Diciamo fino allo instabile.

«Poeta gastrico. Era il suo titolo ufficioso, per la sua poetica consistente nell’assaporare, masticare, sminuzzare, deglutire, digerire e infine assimilare tutte le correnti artistiche con cui entrava in un qualche contatto, sia vive che morte. Ha scritto poesie su poesie imitando e rielaborando lo stile di ogni altro poeta conosciuto, o almeno conosciuto da lui, e in omaggio a questo suo titolo era solito concludere ogni componimento con l’immortale verso “Burp!”.»

Chakra gli rivolse uno sguardo giurassico. «Mi stai prendendo per il culo, vero?»

«Giuro! È davvero così. Aspetta, adesso ti recupero qualche sua opera, così puoi vedere che...»

«Per l’ennesima volta, non me ne frega niente. Torniamo a una parvenza di razionalità, grazie. E se mi vuoi fare un favore, spegni il fanatico letterario che vive nel tuo cranio e magari assassinalo nel sonno, già che ci sei. È per il bene della galassia. Ora, se hai finito di andare alla deriva parlando di bistecche o poeti dementi, torniamo alle cose serie. Quello che mi è successo oggi al lavoro.»

«E quella sarebbe una cosa seria, per caso?»

«Lo è, se vuoi smettere di spalare merda tutto il giorno.»

Matteo scattò sull’attenti, un frammento di carne ancora inforchettato. «Ti ascolto.»

Chakra cominciò a parlare. Lo studio legale presso cui lavorava temporaneamente come sguattero si trovava nel quartiere centrale di Ulan Khor, con vista su una delle piazze principali e a due passi dal fiume. Il palazzo in cui era ospitato non si distingueva per la sua altezza, ma in fondo questa era una caratteristica dell’architettura rudriana, almeno in quella parte di mondo: edifici che superavano di rado i sette piani, abbastanza tozzi, facciate baroccheggianti, generose manciate di colonne e archi tanto per non farsi mancare niente, piani più alti che spesso brulicavano di finestre e vetrate larghe, eccetera eccetera. Architettura che Chakra trovava nel complesso sgradevole, già, ma chi era lui per giudicare i gusti di un altro pianeta? Tanto più che a interessarlo era il contenuto, non il contenente.

Il contenuto che lo interessava erano gli incartamenti (in senso figurato, visto che su carta ormai si trovava ben poco, ma i sostantivi possedevano la buffa abilità di sopravvivere spesso e volentieri ai contesti che li avevano generati secoli prima) di un particolare caso, di cui si era occupato diciotto anni prima quel particolare studio legale e che, nei progetti di Chakra, avrebbe dovuto costituire un caposaldo di un qualche suo studio non ben definito.

«Ma non ha rilevanza, al momento, e poi comunque non lo capiresti. Sono cose da dirittista, come avrebbe detto la tua amica Indira. Almeno quando era ancora tua amica, beninteso.»

Matteo bofonchiò qualcosa di non impegnativo e si sistemò meglio sulla sedia, per distribuire tutta la scomodità innata in modo più uniforme lungo la superficie del suo fondoschiena. Prometteva di essere una storia lunga, soprattutto se il narratore continuava a pensare ai fatti. Cosa era successo di tanto importante quel giorno?

Chakra lavorava già da qualche mese in quello studio legale ed era riuscito a guadagnare a poco a poco posizioni gerarchiche e anche frammenti di rispettabilità, passando in senso metaforico da un ruolo di zerbino per giorni piovosi a uno di spugnetta per francobolli sulla scrivania di un avvocato titolato, seppure non ancora titolare. Titolare dello studio, al momento, era Amani Rowan, avvocato di fama interplanetaria, almeno per chi si interessa alle vicende avvocatizie, cioè una parte molto, molto limitata della popolazione umana normale e incensurata.

«I documenti che mi interessano sono tutti in mano sua, vedi, e sono tutti secretati, come lo sono i documenti di ogni vecchio caso di cui lo studio si è occupato. Possono essere consultati soltanto da aventi diritto e roba simile, secondo la legge in vigore. Legge stupida, direi, ma è stata stabilita da un accordo tra tutti i pianeti e così è, per adesso. Sono in corso dibattiti sulla possibilità di cambiare la norma, peraltro, e magari in futuro il segreto sarà tolto, ma il futuro in questione sarà lontano per lo meno dieci, venti anni, nella migliore delle ipotesi. Capisci che non potevo aspettare, no?»

Matteo capiva, ma avrebbe anche gradito che l’amico accelerasse un poco. E poi si era lamentato di lui, perché si dilungava a discutere di argomenti culturali, come le opere di Giacobbe Bulgherettich, il sommo poeta gastrico! Che gente. Per distrarsi, si concentrò sul lungo e lento processo in atto di digestione della carne appena mangiata. Se di carne si poteva parlare e se, soprattutto, un qualche tipo di digestione si sarebbe inverato.

Chakra continuò la storia. Non avendo in programma di invecchiare in attesa di eventuali modifiche alla legge, la strada che gli si apriva davanti era una sola e piuttosto stretta: farsi diventare un avente diritto, in un modo o nell’altro. Più facile a dirsi che a farsi, come aveva scoperto a proprie spese. Il caso Arunachalam non era strettamente un segreto, non proprio segreto segreto, ma accedere a una qualsiasi notizia che andasse oltre a nome e numero di matricola era difficile. Peggio che difficile: era burocratico, di quel particolare tipo di burocrazia che è fatta solo per nascondere e complicare, o per separare e disperdere, a seconda dei punti di vista. Era stato al centro di una crisi interplanetaria piuttosto grande, ai tempi, e Chakra poteva capire che permanesse qualche esitazione a diffonderne i particolari più delicati, ma il muro che si era trovato davanti andava oltre le previsioni peggiori.

Così aveva lavorato, servito, leccato qui e là. Si era reso utile ovunque potesse, aveva recitato un ruolo un poco vergognoso, ma necessario, di povero studente che sogna la gloria di un futuro nella grande famiglia della Legge, devoto alla causa, self-made man, seconda uscita della rotonda e poi dritto fino al mattino, palle varie. Aveva saputo attendere con pazienza, servendo servilmente lo studio e ogni suo occupante, con occhio di riguardo per chi aveva un nome sulla targhetta, virtuale o fisica che fosse. Si era fatto amico di tutti e scopino universale del gabinetto, accumulando meriti e informazioni interne, da utilizzare a proprio vantaggio al momento più opportuno, sperando che il momento opportuno potesse prima o poi farsi vedere, ma disposto anche ad accettare un momento non così opportuno, se solo avesse avuto i mezzi per opportunificarlo. Soprattutto, aveva atteso il ritorno della titolare, la Rowan, che era in missione altrove ed era anche l’unica che avrebbe potuto dischiudergli le porte dei documenti che desiderava. Attesa lunga, sgradevole, che si era conclusa soltanto da poco. La titolare era tornata.

Amani Rowan era una donna di età indefinita, quella particolare età indefinita che si ottiene quando la giovinezza è già tramontata da un pezzo, ma la vecchiaia vera e propria è ancora tenuta a distanza grazie a una vita sana, esercizio regolare, cibi salutari e una robusta dose di interventi chirurgici qui e qui, con magari una spruzzata di trucco, ma niente di volgare, solo una cosa leggera, evidenziare e mascherare, credere obbedire combattere.

«Praticamente un pezzo di plastica parlante, se capisci cosa intendo,» disse Chakra. «Credo che sia più o meno sopra i sessanta, forse sui settanta, dato che era uno degli avvocati principali ai tempi di Arunachalam e del suo processo, cioè, quasi venti anni fa, ma l’età precisa? Dovresti segarla in due e contare il numero di anelli, forse, o forse è meglio passare direttamente al C-14.»

«Ma alla fine li hai ottenuti questi documenti?»

«Ci sto arrivando, ci sto arrivando. Non c’è fretta.»

Ci arrivò che sì, li aveva ottenuti. Non in modo diretto, non in un modo di cui volesse vantarsi con gli amici o anche coi nemici, ma li aveva ottenuti e questo contava, giusto? Il fine giustifica i mezzi e pepperepè. Il suo vermeggiare attraverso lo studio legale lo aveva portato ad accumulare meriti e una buona quantità di relazioni interpersonali coi vari membri, armamentario che avrebbe usato per piegare le resistenze della capa, assalirla forte degli appoggi conquistati e convincerla che si, anche lui era una persona interessata ai fatti e che sì, il giovane meritava una occasione, prometteva bene, un giorno sarebbe divenuto un fior di avvocato, anche se aveva le spalle strette, e blablabla.

Non era andata proprio così. Quando Chakra aveva raccolto tutta la propria faccia gluteica e si era presentato al cospetto della Rowan, pronto anche a implorarla velatamente di permettergli l’accesso ai documenti del caso Arunachalam, l’avvocato Rowan si era dimostrata piuttosto ben disposta nei riguardi del giovane e della causa che perseguiva. Parlò con una certa liberalità dei problemi che il caso Arunachalam aveva causato a loro, ma soprattutto ai due pianeti coinvolti, e parlò di quanto gli avvocati fossero stati costretti a lavorare, interpretare, a volte forzare leggi contrastanti, in un tempo in cui l’ultima revisione dei trattati di libera circolazione umana tra i pianeti era distante ancora sette anni nel futuro. Per tacere del particolare approccio all’immigrazione che contraddistingueva uno dei due pianeti coinvolti. Ah, che tempi, che problemi!

Parla che ti riparla, la Rowan si era comportata da zia comprensiva e gentile, quasi promettendo che i documenti gli sarebbero stati concessi, in via del tutto confidenziale e in ossequio alla dedizione e alla serietà con cui aveva lavorato per mesi. Che razza di persona avrebbe frenato un giovane, sano e onesto studente, che cercava solo di servire la conoscenza e auspicava a ritagliarsi un posto tra chi ogni giorno mediava tra giustizia e umanità, tra legge e sentimento, tra zuppa e pan bagnato? Ma nessuno, era chiaro, o comunque non certo lei, per bacco! Pure, si fermava sempre appena prima di cedere e mollare il malloppo.

E continuava a fissarlo con interesse, da dietro la sua faccia chirurgicamente priva di età. Chakra si era mantenuto sul vago il più possibile, aveva schivato tutto quello che poteva schivare, ignorato ciò che era umanamente ignorabile, ma alla fine la verità lo aveva guardato negli occhi, le condizioni a cui avrebbe ottenuto i documenti gli divennero chiare, seppure sempre velate dalla pudicizia, o da un suo surrogato artificiale e presumibilmente chimico. Fu a quel punto che la narrazione si fece più vaga e allusiva, suggerendo più che descrivendo, suggerendo che qualcuno avesse dovuto alfine usare il proprio fascino di giovane studente universitario, o qualcosa del genere.

«Non credo di volere conoscere i dettagli, grazie,» borbottò Matteo, alquanto disturbato dall’idea, e ancora più disturbato dal fatto che, probabilmente, la sua idea non era solo idea, ma realtà.

«E io sono sicuro di non volerli raccontare. Comunque, missione compiuta. Con me ho una copia dei documenti, tutto ciò che volevo ottenere da questo posto, e non c’è più nulla che ci trattenga qui. Se vuoi, possiamo partire tra qualche giorno. Ci attende molto lavoro nella prossima tappa.»

«Che sarà?»

«Laozi, l’ultimo pianeta colonizzato prima di Madre. Ti piacerà, vedrai.»

Matteo aveva molti dubbi che avrebbe visto, soprattutto se il vedere doveva coincidere col piacere. Se Rudra era una indicazione generale, non avrebbe visto alcunché. Avevano speso mesi su quel pianeta e in tutti quei mesi c’erano stato soltanto i culi di svariati animali, i suoi colleghi spalatori e una città, Ulan Khor. Tutto il resto di Rudra poteva non esistere, per quello che ne sapeva lui e che avrebbe continuato a sapere, se davvero se ne sarebbero andati così presto. Neanche il tempo di dare una occhiata attorno, conoscere cose nuove, farsi una idea di come fosse il posto, niente. Chiamala delusione...

Liberarsi al più presto di Tran Quang Hai, tuttavia, non sarebbe stata una delusione ma un piacere, per cui da un certo punto di vista si poteva dire che tutto si compensava, alla fine. Se era stata una personalità disturbante prima, quando Matteo lo aveva appena conosciuto, nei pochi giorni di lavoro che gli restavano il collega peggiorò ulteriormente, in modi e direzioni che sembravano pressoché impossibili a una mente logica e razionale. O anche solo a una mente normale. Che Hai si potesse con grande difficoltà inserire in una di quelle categorie, poi, era tutto un altro paio di maniche e rese più semplice accettare i fatti che ne seguirono.

I suoi deliri, prima di tutto. Dal piagnisteo generico e utopistico, Hai pareva aver deciso di virare in direzione di un risentimento quasi nietzschiano, stiracchiando l’aggettivo per i capelli e per i folti mustacchi. Risentimento da ultimo uomo, o penultimo, o giù di lì. Risentimento che, con crescente preoccupazione di Matteo, sembrava tingersi di allusioni violente. Matteo non era uomo violento e aborriva ogni riferimento alla violenza, soprattutto se lui si trovava nei paraggi della violenza e col rischio di riceverne qualche frammento. Che il collega auspicasse attentati, come segnali forti della profonda insofferenza delle masse sfruttate e cippirimerlo, era una pessima cosa. Che a breve se ne sarebbe andato dal pianeta e non avrebbe mai più rivisto quel pazzo con la coda di cavallo, invece, era ottima cosa. Il che si compensava, per l’appunto.

«Ma vedrai, oh se vedrai!» diceva Tran Quang Hai al suo infelice ascoltatore. «Non è più il tempo di sopportare in silenzio. È tempo di farci sentire, dichiarare al mondo e alla galassia che ci siamo anche noi, che siamo vivi, che siamo come loro! Vedrai se non lo farò.»

Deliri da pazzo letterario, con insane venature vittoriane, sempre che insano e vittoriano non siano da considerare come sinonimi. Fu un vero sollievo, per Matteo, quando al ritorno da un giorno di duro e fetido lavoro Chakra lo accolse con un secco «Prepara i bagagli, che domani ci leviamo dalle palle.» Non se lo fece ripetere neppure una volta.

Il giorno seguente lasciò il lavoro a fine mattinata, quando il resto della squadra si ritirava per la pausa pranzo, in un clima e in olezzo che non stimolavano l’appetito, ma a cui si erano abituati per puro istinto di sopravvivenza. Lasciò senza un saluto a Tran Quang Hai, che peraltro non si era visto proprio e il supervisore aveva borbottato a lungo di punizioni esemplari per i lavativi che neppure si degnavano di avvisare. Qualunque cosa si intendesse per punizioni esemplari. Matteo non lo scoprì, cosa che in fondo gli fece solo piacere, perché non era neppure interessato.

Gli fece ancora più piacere scoprire che, lasciando il posto a fine mattinata, si era risparmiato un ruolo da comparsa nel disastro che era avvenuto poi, firmato proprio Tran Quang Hai, ma questa era una cosa che avrebbe scoperto solo più tardi, quando erano già arrivato alla sede dell’ascensore e la città di Ulan Khor era a qualche migliaio di chilometri di distanza. Ma, come disse Chakra con tutta la sua solita filosofia, l’esplosione era un problema altrui e lui non se ne doveva preoccupare. Peggio per loro e meglio per te, giusto?

Per una volta, Matteo fu felice di prenderlo sul serio.