Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 61

«Se veniamo dunque alla nostra pietra – e la chiamo nostra perché questo è diventato, nel corso di anni e anni. Le abbiamo dedicato le nostre energie, l’abbiamo accolta nei nostri pensieri e ancora di più nelle nostre case, abbiamo studiato, riflettuto, analizzato, elaborato, ipotizzato. Abbiamo preso un blocco di pietra, dalla forma alquanto inconsueta, lo devo ammettere, ma sempre blocco di pietra rimane, e sì, è pietra, anche se il materiale di cui è costituita non è proprio pietra, non proprio, ma è materiale simile a sufficienza da poterlo chiamare pietra, almeno in questo caso, in cui non ci serve entrare troppo nello specifico. Abbiamo preso un blocco di pietra, dicevo, e lo abbiamo trasformato in una parte di noi, uno di noi: per questo la pietra è nostra, per questo possiamo oggi parlare della nostra pietra, quando ci riferiamo al reperto inestimabile qui custodito, nel tempo del sapere che noi tutti occupiamo. Se veniamo dunque alla nostra pietra, dicevo, e scusate la digressione, possiamo interrogarci a lungo su quale sia la sua reale origine, su come si sia formata, su cosa le abbia dato la forma che vediamo oggi. Possiamo domandarci se questa fosse la sua forma originale, o se così sia stata modellata dalle forze cieche del tempo e dell’erosione, e possiamo domandarci se possa essere ipotizzabile una origine naturale per il suo materiale, oppure se sia davvero necessario postulare una qualche forma di mano intelligente quale fattrice del reperto oggi in nostro possesso. Sono tante le domande che ci possiamo e ci dobbiamo porre, quando osserviamo la nostra pietra, e lo studio che vi presenterò oggi non si illude di poter rispondere a tutte, non qui, non adesso, non in uno spazio così piccolo e limitato per tempo e parole. Ciò a cui il mio studio aspira è indicare la direzione in cui le risposte potranno essere trovate, un domani; indicare i passi da compiere per raggiungerle e in questo modo, possiamo quasi dire, tracciare una mappa ai futuri cercatori di conoscenza. Sarà una mappa che consentirà anche, se non soprattutto, di evitare le secche dell’ignoranza, i vicoli ciechi in cui una sana mente indagatrice potrebbe rimanere bloccata, i rami morti dell’albero della scienza, da cui soltanto foglie secche e rattrappite si possono raccogliere. Per questo e per altri motivi, in breve, procederò adesso a presentarvi i risultati delle mie ultime analisi, che provano ormai in forma quasi definitiva come la nostra pietra sia in realtà un prodotto della natura e delle sue cieche forze, e non il risultato di un qualche fantomatico progettista intelligente, che l’avrebbe formata e modellata in un tempo lontano più di tre milioni di anni, per disegni noti soltanto a lui.» Breve colpo di tosse, a schiarire una gola piuttosto disidratata. «Possiamo dunque cominciare con...»

Kemala Kexin sbadigliò. Aveva seguito la sua buona parte di lezioni noiose ai tempi dell’università su Lakshmi e alcune erano forse state peggiori della roba che si stava sforzando di non dover sentire adesso, ma era un forse che lasciava porte spalancate a ogni tentativo di smentita. Anzi, invitava le smentite, pregava che ci fossero smentite. Perché le tirate di quel trombone di Marijn Asanga, bello tronfio e patetico sul podio, non erano soltanto noiose, soporifere o cancerogene per il benessere neurale di una qualunque mente umana, il che sarebbe già stato brutto a sufficienza. Ma sufficiente non era, il fondo dell’abisso non era ancora stato toccato. Perché le sue tirate erano deleterie per la materia stessa. Uccidevano sul nascere qualsiasi interesse un ascoltatore, casuale o meno, potesse mai aver provare per l’argomento. Brutalizzavano ogni passione per la conoscenza.

Come se non bastasse, erano anche le più frequenti. Pareva che quel coso occhialuto e basettone, che tra i rami del proprio albero genealogico doveva ospitare un largo stormo di tucani, a giudicare dal profilo, sapesse sfornare una nuova ricerca a ogni nuovo incontro. Che poi l’aggettivo nuovo era sprecato. Anzi, era sbagliato. Perché di fatto era sempre la stessa ricerca, variazioni sul tema che si differenziavano solo per il titolo e l’introduzione, più modifiche da “trova le dieci differenze nelle due immagini”, ma ciò non pareva influire sulle scelte degli organizzatori, perché erano sempre in un qualche punto del programma per la sessione. Di solito verso la fine e nascoste con arte fra temi più interessanti, vero, ma non alleviava l’agonia degli ascoltatori. Bastava guardarsi attorno.

Qualcuno lo ascoltava davvero? Forse, magari nella sua claque. Il gruppo della terra piatta, come lo chiamava la sua amica Inna Rabbani, o il gruppo dei tromboni, come lo chiamava lei: una formula molto meno politicamente corretta ma anche più accurata, almeno a suo modesto parere. Il grosso del pubblico, composto da professori, dottorandi, ricercatori e accademici vari, aveva indossato la migliore maschera di blando interesse sorridente, completa di occhi glassati e lineamenti rigidi, che denotavano un cervello lasciato in stand-by in attesa di tempi migliori. E conferenzieri migliori.

Ma era la regola o la tradizione e bisognava seguirla, anche se era stupida come ogni tradizione che si rispetti. Anzi, forse proprio perché era stupida. Più una tradizione è inutile e stupida e più sembra incontrare approvazione generale, oltre a una longevità nociva al benessere psicofisico degli umani. Sì, era un fenomeno che meritava di essere studiato, a modo suo: bisognava suggerirlo a un qualche gruppo di antropologi o sociologi, o quello che era. A ogni modo, la tradizione c’era e la tradizione sarebbe stata rispettata. Con le buone o le cattive, ma soprattutto con le noiose.

A Kemala era sembrata una bella idea, all’inizio. Al centro di ricerca sulla pietra di Agni, nella città di Shtoma, ogni dieci giorni organizzavano una giornata di conferenze, letture o variazioni sul tema, in cui i membri del centro erano invitati a turno a esporre i risultati dei propri studi, in una sorta di ciclo che garantiva (o imponeva, a seconda dei punti di vista) a tutti la possibilità di parlare di fronte ai colleghi almeno una o due volte all’anno. Potevano essere di più, se si avevano scoperte o ipotesi da esporre, o potevano essere di meno, dietro presentazione di complicate richieste di esenzione, ma tutti prima o poi finivano su quel palco. A parlare. A dimostrare che stavano lavorando a qualcosa. A confrontarsi e farsi bastonare dai colleghi. Per mantenere vivo l’impegno e l’interesse, rimescolare le acque del sapere, stimolare le menti, aprire nuovi orizzonti alla conoscenza, ne resterà soltanto uno, eccetera eccetera. Tutto molto bello, tutto molto nobile.

In teoria. In pratica, a Kemala sembrava una versione accademica degli incontri fra gli Alcolisti Anonimi, o almeno di come lei immaginava che quegli incontri si potessero svolgere, il che non era proprio la stessa cosa, ma poteva bastare. Nel giorno di conferenze (o letture, o autocelebrazioni, o come le volevi considerare), i relatori si alzavano uno dopo l’altro, si sistemavano sul palco con espressioni di stipsi irreversibile, si schiarivano la gola e poi giù con la pappardella. «Mi chiamo Tal-dei-Tali, laureato magna cum laude presso l’università di Pepperepè, specializzato in questo-e-quello, pregiato dottore del Parapicchio, cultore ed esegeta della tetrapiloctomia applicata, stimato membro dell’Accademia della Fava, qui e là, su e giù, e sono qui oggi per condividere con voi la mia esperienza.»

Ognuno aveva un’ora esatta a disposizione: tre quarti d’ora per esporre la propria ricerca, seguiti da un altro quarto d’ora per le eventuali domande e discussioni. Non c’erano quasi mai. Ogni volta si concludeva con un lungo, imbarazzato e imbarazzante silenzio, accompagnato da qualche colpo di tosse, teste rigorosamente basse, cervelli rigorosamente altrove, fino a che il presentatore di turno non decideva che era meglio tagliare e passare al conferenziere successivo. Era tutto molto triste.

D’altra parte, cosa vuoi chiedere di nuovo a una persona che vedi tutti i giorni, con cui chiacchieri tutti i giorni in mensa, con cui magari esci anche a bere qualcosa la sera, se è parte della tua cricca o di qualche cricca alleata? Se proprio hai domande, puoi fargliele in qualunque altro momento, senza metterlo in imbarazzo in pubblico. Anche perché, la volta successiva, potrebbe essere lui o lei a ricambiare il favore e mettere in imbarazzo te con qualche domanda. Quindi, meglio risolvere tutto in privato, in separata sede e così via, e il quarto d’ora di domande diventava un gioco del silenzio. Ma era tradizione e si faceva così.

Quel giorno non avrebbero rispettato il programma. Quel giorno avrebbe anche fatto carta straccia di molte ricerche appena presentate, o almeno ne avrebbe fatto bytes stracci, smentendo in un modo quasi irreversibile le ipotesi esposte dai relatori. Quel giorno avrebbe anche portato un terremoto non previsto sull’isola di Prajaapati, in un’area densamente popolata nell’emisfero australe di Agni, causando un numero di morti ancora da accertare ma di certo molto elevato, nonché il più consueto numero di tragedie più o meno grandi che sempre avvengono in varie zone del pianeta, come ogni altro giorno: siccome però tutto ciò non è rilevante su di un piano accademico e probabilmente non avrà impatti diretti sulla storia nell’immediato futuro, non ci sarà spazio per parlarne qui e ora. Ci sarà invece spazio per l’evento che interromperà la conferenza.

Il primo evento che la interruppe fu la breve pausa per il pranzo, non proprio considerabile come una tragedia nonostante la bassa qualità della mensa. Fu subito dopo l’intervento di Marijn Asanga e fu benvenuta da tutti. Era una pausa che i conferenzieri del pomeriggio trascorrevano ripassando il proprio discorso, apportando magari eventuali correzioni e modifiche dell’ultimo minuto, mentre gli spettatori chiacchieravano tra loro di qualunque cosa non avesse a che fare con ciò che avevano appena dovuto sentire, come da tradizione in questi eventi. Nello specifico, Kemala Kexin la spese parlando dei fatti propri con l’amica Inna Rabbani e col professor Phan Thanh Chu, che lavorava al filone di ricerca seguito anche da Inna ed era già schedato per comparire all’incontro successivo con una relazione sugli ultimi sviluppi della sua ipotesi di un tentativo fallito di migrazione da Madre ad Agni, tre milioni di anni prima.

Era una ipotesi che al momento andava piuttosto di moda, nel microcosmo bizzoso della comunità scientifica insediata in quel centro di ricerca. In un passato la cui collocazione non era ancora stata stabilita con certezza, ma che doveva essere tre o quattro milioni di anni prima, la civiltà che si era sviluppata su Madre aveva tentato, per ragioni ancora da determinare, di colonizzare Agni. E aveva fallito. Di questo ipotetico tentativo rimaneva soltanto la pietra, trovata proprio nelle vicinanze della città di Shtoma, dove sorgeva adesso il loro centro di ricerca. Dopotutto, la pietra era realizzata con lo stesso materiale di cui erano composte le rovine di Madre, no? E quel materiale era ritenuto di origine artificiale, no? Quindi era ovvio che l’ipotesi della migrazione fosse fondata, giusto?

Inna Rabbani aderiva a questa scuola di pensiero, così come il collega Phan Thanh Chu e svariati altri ricercatori del posto. Numerose erano le varianti e numerose le diramazioni, ma il tentativo di colonizzazione le raccoglieva e unificava tutte, reale o meno che fosse. Aveva un suo fascino, come idea. Serviva a dare un certo prestigio al pianeta Agni, che di per sé non ne aveva molto, con una miseria di flora e fauna, scarsamente commestibile, e una quantità medio-bassa di materie prime. E bei paesaggi, certo, panorami incantevoli e molto turistici, rinomati centri-benessere, ma paragonati alle civiltà di insetti di Svarga, agli oceani abissali di Varuna abitati da calamari intelligenti e poco socievoli, al ricco sistema solare di Rudra infestato di terre rare, alle rovine aliene di Madre e così via, i bei paesaggi non erano proprio la stessa cosa. Un tentativo fallito di colonizzazione da parte di una scomparsa civiltà aliena, invece, valeva parecchi punti di prestigio, se lo guardavi dalla giusta prospettiva.

Kemala non la riteneva una ipotesi molto realistica, anche se non avrebbe mai smentito del tutto la propria amica. Ascoltava dunque con un sorriso falso ma cordiale, mentre il professor Chu spiegava le ultime prove che aveva estratto scientificamente dal proprio deretano e che, al prossimo incontro, avrebbe dato in pasto ai colleghi, che certo avrebbero risposto con tutta la loro indifferenza olimpica e quasi statuaria. E questo lo deprimeva un poco.

«Vedete, l’idea di base era bella, sì, e anche buona,» spiegava alle compagne di pasto. «Il problema di fondo è che ci sono troppe cose da ascoltare, tutte assieme, e poco tempo per elaborarle. Non c’è una occasione per lasciarle sedimentare, vedete, è solo un bombardamento di parole e immagini, di grafici e numeri, di questo e quello. Alla fine non ti rimane niente, no? Confrontarsi di continuo è il modo giusto per condurre un centro di studi, non ne discuto, e coinvolgere tutti significa anche che tutti sono costretti a presentare qualcosa e non possono solo, voglio dire, restare seduti e far passare il tempo senza produrre, no? Ma è impossibile assimilare tutto.»

Kemala osservava affascinata la quantità di cibo che il professor Chu riusciva a ingurgitare. E non si curava neppure della qualità, in apparenza: quantità, quantità e basta. Tanto, maledetto e digeribile. E immagazzinabile, a giudicare dalla forma del suo addome. Il professor Chu non aveva un grembo: aveva un uovo di brontosauro appoggiato sulle cosce, quando era seduto.

«Che poi, non fraintendetemi, vi prego,» proseguì, sventolando una forchetta. «Il centro è un bel posto. Aria pura, salutare, frizzantina per il cervello. Ma non è un posto per conferenze. Nessuno si interessa davvero alle conferenze. Si parla per parlare, per farsi vedere, ma poi non resta niente. Che poi, guardate il giovane Asanga, oggi. Anche interessante, la sua ipotesi, ben presentata, recitata a dovere. Tutte stupidaggini, si sa, ma gli va dato atto di proporle col cuore, in modo serio. Eppure? Ci sono state domande? Interventi? Commenti? No, neanche uno. Aspettavano tutti il pranzo. È una tristezza, davvero. Poteva anche mettersi a ballare nudo sul palco e sarebbe stato uguale.»

Kemala contemplò per un attimo l’immagine del nasuto Marijn Asanga, il signor “il mio nome è da uomo, chiaro?”, impegnato a ballare nudo sul palco, ma la cancellò subito. Non erano immagini da contemplare a tavola, non se si voleva trattenere il cibo nello stomaco. Con la coda dell’occhio notò una espressione di disgusto anche sul volto sempre posato di Inna. Doveva avere tentato pure lei lo stesso esperimento mentale, con risultati analoghi. Phan Thanh Chu intanto proseguiva.

«No, no, guardate, non fatemi dire altro, che non è il caso. È un bel sistema, in teoria, ma in pratica è un disastro. Non funziona. Non così. Richiedere a tutti di pubblicare con regolarità le ricerche, per sottoporle all’attenzione dei colleghi, è buono. Va bene. È il senso di questo centro di ricerca, no? È il sistema delle conferenze ogni dieci giorni che dovrebbe essere cambiato.»

«Sono comunque una occasione per vedersi e socializzare anche con quelli di un’altra fazione,» gli rispose Inna. «Questo centro ha più correnti di un oceano, non avremmo mai la possibilità di sentire quello che pensano gli altri, senza gli incontri.»

«Beh, beh, beh, ma questo si potrebbe risolvere in altri modi, sai. Dico, dico è proprio l’idea di stare qui ad ascoltare qualcuno che parla, o qualcuna che parla, sia chiaro, non voglio fare il maschilista, lo sapete bene, è che ogni tanto mi scappa di usare il genere maschile, questioni linguistiche e anche in parte culturali, sospetto. Niente di personale, davvero. Comunque, dicevo che è tempo sprecato fare tutti questi incontri, un giorno perso ogni dieci, insomma. Ci sono modi più sensati di agire. Più economici, anche. Economici sul piano del tempo, beninteso, non parlo di soldi. È uno spreco.»

Nel cranio di Kemala una scimmia cominciò a battere i piatti. Era meglio quando parlava della sua ricerca, tutto sommato. Lei non la condivideva del tutto, ma almeno era interessante. Adesso che si era lanciato in quella filippica sul “modo migliore per fare funzionare la galassia secondo me”, il professor Chu stava dando un significato nuovo all’aggettivo “palloso”. Soprattutto perché ancora non aveva proposto un’alternativa concreta alla tradizione che criticava. Oh beh, meglio lasciare a Inna la gioia di discutere con lui e magari anche ribattere. Erano nella stessa fazione, no?

Mentre accanto a lei un certo tipo di conversazione proseguiva, Kemala osservò il resto della sala, nella vaga illusione di poter trovare qualcosa di interessante. Non lo trovò. Era un ambiente ampio e luminoso, moderatamente rumoroso, in cui i suoni di voci si mischiavano e a volte sovrapponevano al rumore delle poste sui piatti; c’era anche un discreto sottofondo di masticazione, soprattutto dai tavoli dove qualcuno aveva avuto la masochistica idea di scegliere lo spezzatino e adesso lottava in un vano tentativo di districare denti e mandibole da bocconi di un materiale di consistenza sospetta e un poco preoccupante. Mai osare spezzatini e polpette, in mensa, o più in generale cibi che non puoi guardare in faccia: lezione che lei aveva appreso il primo giorno su Agni e mai dimenticato.

Nonostante la retorica del socializzare anche con quelli di un’altra fazione, attorno a loro sedevano solo studiosi aderenti alla grande famiglia di “la pietra di Agni è di origine artificiale”. E non solo attorno a loro. Tutta quell’ala della mensa ne era piena. I teorici di “la pietra di Agni è di origine naturale”, la seconda grande scuola di pensiero, sedevano tutti nell’ala accanto e mostravano verso di loro lo stesso interesse a fraternizzare che le manguste mostrano verso i serpenti. Marijn Asanga era là, più o meno nel centro, e impegnato in una qualche profonda discussione scientifica coi suoi tirapiedi, almeno a giudicare dalla foga con cui brandiva e sventolava una coscia di pollo. Di certo stava spiegando perché nessuno avesse fatto domande, dopo la presentazione della sua relazione, e cosa si fossero persi non facendo domande. Quattro sbadigli extra, secondo il parere di Kemala.

Ma non era poi un posto così malvagio, dopotutto. Vero, non avrebbe fatto molta differenza per lei, che non era venuta lì per scelta ma per obbligo, però era comunque consolante sapere e sentire che il posto non era così male. Non bellissimo e parecchio migliorabile, però era un ambiente in cui si poteva vivere, non solo sopravvivere. Erano tutti accomunati dagli stessi interessi, in fondo, anche se poi ognuno lo dimostrava in modi molto particolari e non sempre compatibili con quelli altrui.

Fu più o meno a quel punto che Kemala si accorse che la discussione accanto a lei si era spenta, per un qualche motivo che, se fosse stata più attenta, probabilmente avrebbe notato. Come la domanda che Inna le aveva rivolto e a cui adesso attendeva una risposta.

«Scusa, non ti stavo ascoltando,» disse, tornando con la mente al microcosmo del tavolo.

«Sì, me ne sono accorta,» le sorrise Inna. «Comunque, dicevo: sei conferenzieri su otto, oggi, sono nel gruppo della terra piatta. Pensi che stiano tornando di moda? Chu dice che è solo una bolla, un fenomeno di passaggio che si esaurirà da solo, una volta passato il periodo, ma secondo me quelli di stamattina hanno portato testimonianze piuttosto solide a proprio favore. Niente da prendere troppo sul serio, sia chiaro, ma potrebbero bastare per convincere i più incerti e incrementare le quote. E le quote significano anche più fondi, lo sai. Tu che ne pensi?»

Lei che ne pensava? Ne pensava che erano fatti loro, credessero pure quello che volevano, basta che lo facessero lontano da lei e senza intralciarla. Se uno è convinto che le cose stiano davvero così e ha qualche prova per sostenerlo, buon per lui. Chi poi è così variabile da saltellare qui e là seguendo il vento e le mode, beh, è chiaramente una persona inutile e non vale neppure la pena di sforzarsi di convincerla. Ma Inna a quelle cose ci credeva davvero e non sarebbe stato bello deluderla.

«Gli studi sulla pietra sono un campo così nuovo che è ancora possibile cambiare tutto da un giorno all’altro. Finché non avremo qualche certezza o qualche dato oggettivo, ma oggettivo oggettivo, di quelli che non puoi proprio mettere in discussione perché sono così e basta, tutto continuerà con questo ritmo: una volta saremo più forti noi, una volta loro, e così via. Troviamo una qualche prova che sia davvero indiscutibile e poi avremo vinto noi, no?»

«Eh, ma non funziona così, non è così semplice,» disse il professor Chu, con la sua migliore faccia da vecchio saggio. «Anche campi di studio che hanno già qualche secolo alle spalle, e che possono sembrare stabili e sicuri, per non dire affidabili, possono cambiare direzione di punto in bianco, con una nuova scoperta. Prendiamo la planetologia, per esempio. Penseresti che non ci siano cose più stabili dei pianeti, eh? Sono grandi, grossi, fissi, e sono lì da miliardi di anni. Eppure, ecco che ti spunta un omino, lì, uno svarghiano, e ti scopre anomalie impossibili in due pianeti. Due pianeti del sistema solare di Madre, poi! Non siamo che zattere su un abisso di ignoranza, noi,» filosofeggiò. «Possiamo rovesciarci in ogni istante e affogare nel nulla su cui galleggiamo. È la vita.»

Kemala lo aveva sentito. La notizia era circolata parecchio nel mondo accademico, anche in settori dove la planetologia metteva piede solo di rado e mai invitata, ed era circolata ancora di più nella fazione che sosteneva l’origine madriana della pietra di Agni. Non perché avesse direttamente un qualcosa a che fare con la pietra, ma perché riguardava il sistema solare di Madre e dunque, per una data scuola di pensiero, poteva essere collegata alle ragioni che avevano spinto la civiltà madriana, in un passato remoto, a spingersi su Agni. In teoria. Con tanto ottimismo. Ma è così, no?

Lo scopritore dell’anomalia era un planetologo di Svarga, un certo Chang o qualcosa di simile, che al momento stava viaggiando di pianeta in pianeta per tenere conferenze (conferenze vere, le sue, a differenza delle pagliacciate per pochi intimi che si facevano lì nel centro di studi a Shtoma) in cui spiegava, presentava, diffondeva, ma soprattutto raccoglieva applausi e gloria. Kemala sperava di poter assistere di persona, quando fosse giunto il turno di Agni, ma più realisticamente prevedeva di seguirla su un qualche schermo, magari assieme ad altri della sua fazione, come Inna. Per adesso si era dovuta accontentare delle riprese diffuse dai notiziari e dai principali canali accademici: poco e risicato, ma sufficiente ad accendere la sua immaginazione. Quelle strutture organiche potevano in un qualche modo essere collegate alla civiltà aliena madriana? Improbabile, però...

Mentre Phan Thanh Chu parlava e pontificava, tra una masticata e l’altra, e Inna Rabbani annuiva e sorrideva, presumibilmente pensando ai fatti propri, Kemala si assentò di nuovo dalla discussione, che tanto non sembrava richiedere la sua presenza mentale. Madre! L’aveva considerato un pianeta insolito per la civiltà aliena che aveva prodotto, milioni di anni prima, ma non c’era solo quello. Le forme di vita autoctone erano anomale allo stesso modo, almeno secondo gli exologi e i biologi in generale: vegetali o animali, erano tutte caratterizzate da un tratto identico del genoma, come se in un qualche modo fossero parenti. O come se un qualche tipo di parassita si fosse infilato nella loro evoluzione, secondo una differente scuola di pensiero: Kemala non aveva capito granché di come il discorso funzionasse, quando aveva letto e ascoltato accenni in varie conferenze, ma doveva essere una cosa interessante, a modo suo. E adesso strutture organiche nel nucleo di giganti gassosi.

Sì, un posto anomalo. Un sistema solare anomalo. E a lei era proibito ritornarci, dopo il suo folle e giovanile tentativo di farsi accettare come archeologa. C’era da mangiarsi le mani. Vero, non era un tentativo così giovanile, essendo avvenuto poco più di un anno prima, ma da una altro punto di vista era giovanile. Infantile, quasi. Ma adesso era maturata, era diventata saggia, e non avrebbe mai più ripetuto un errore simile, soprattutto perché l’avrebbero fermata alla stazione orbitale, con la fedina penale che si ritrovava. Dettagli. Il punto era che aveva capito gli errori del passato e da esperienze così spiacevoli aveva tratto un profondo insegnamento. Peccato che non le sarebbe servito.

«E comunque sì, saranno sempre più le cose che non sappiamo di quelle che sappiamo,» continuava il professor Chu, col suo ronzio monotono da drone. «La galassia è un enorme mistero e noi siamo i più piccoli tra i suoi atomi. Non potremo mai sperare di conoscere la verità.»

Al silenzio che seguì quella poeticissima affermazione persino Kemala riemerse dalle fantasticherie in cui galleggiava placida. «Credo che adesso sia ora di rientrare in sala,» disse Inna, per colmare la quiete, o forse solo perché era opportuno che qualcuno al tavolo tornasse a occuparsi di questioni pratiche e concrete. «La mensa si sta svuotando, ancora un po’ e saranno gli inservienti a mandarci fuori. E poi il primo conferenziere del dopopranzo è Tarchnishvili, un altro della terra piatta. Non ve lo volete certo perdere, giusto?» aggiunse con un sorriso.

«Perfetto per digerire, direi. O per fare la siesta, se sarà noioso come Asanga.»

«Non fare la disfattista, Kemala,» la rimproverò bonario il professor Chu. «Devi capire anche tu che le loro posizioni sono di estremo interesse accademico, davvero. È soltanto che lo sono su un livello non accessibile a meri mortali come noialtri, sai. Sono fatte per menti eccelse, che possono toccare le colonne portanti della galassia, nonostante il cartello di vernice fresca.»

E quella doveva presumibilmente essere una battuta, almeno secondo il metro di Phan Thanh Chu. Per pura misericordia, Kemala gli concesse un sorriso, come se avesse apprezzato il suo esprit e ne avesse tratto profondi insegnamenti morali. O qualcosa del genere. Poi rientrarono nella sala delle conferenze, si sistemarono in un posto d’angolo, abbastanza defilati da non essere notati e poter così sonnecchiare in tutto pace, se necessario, e osservarono gli altri colleghi distribuirsi qui e la, con le facce rilassate e le palpebre un poco pesanti. Sul palco, Francis Tarchnishvili appoggiava tutte le sue carabattole, bottiglietta e bicchiere inclusi, con una cura che avvicinava l’ossessività compulsiva ma si fermava proprio davanti all’ingresso, per pulirsi la sula delle scarpe sullo zerbino. Faccia nervosa, codino che sobbalzava sulla nuca, sorriso da stitico con le scarpe strette, sudore che rivolettava qui e là. Pareva pronto per parlare, o anche per esplodere.

Prometteva proprio di essere un pomeriggio lungo e disperato, agli occhi di Kemala. Sarebbe stato meglio dormici sopra e non pensarci più, oppure spegnere occhi e orecchie e naufragare in un mare di immensità immaginate, ripescate dal fondo della propria mente? Un sano miscuglio dei due, se si poteva. Qualunque cosa, pur di non dovere ascoltare di nuovo fantastorie di pietre scolpite in modo preternaturale dalle intemperie, oppure precipitate dal cielo come meteoriti magicamente squadrate. Avevano davvero una notevole fantasia, i sostenitori dell’origine naturale della pietra.

Francis Tarchnishvili parlava ormai da quasi un quarto d’ora, lento e costante, quando venne il turno del secondo evento che interruppe la conferenza. A differenza della pausa pranzo, l’interruzione fu definitiva e irreversibile.

Cheskka Macawili era una donna di poche parole. Di solito. Sapeva però diventare di molte parole quando la discussione si spostava verso argomenti che la interessavano in modo particolare, ma ciò succedeva piuttosto di rado, per cui l’immagine che dava di sé nel centro di ricerca di Shtoma era di una persona di poche parole. Incidentalmente, ne era anche la direttrice, carica che aveva ottenuto a cinquantatré anni e che, quattro anni dopo, continuava a occupare con successo. Avrebbe continuato a occuparla ancora a lungo, salvo imprevisti, o almeno tutto sembrava suggerire così, al momento.

«Non sarà un lavoro molto faticoso,» le aveva detto il suo predecessore, il professor Jha, attuale Ministro dei Beni Culturali. «Gli scienziati qui sono collaborativi come gatti, ma tendono a starsene per i fatti propri e disturbano di rado. Gli unici problemi ti verranno da Madre, quando ti capiterà di dovere inviare qualche richiesta di documentazione o coordinare scambi tra ricercatori: la D’Antona è anche sopportabile, se la prendi in un giorno buono, ma la sua capa, il governatore Rossi, ha tutta la simpatia e la disponibilità di un piranha col mal di denti.»

Cheskka Macawili aveva sorriso e annuito. Valeva la pena di ricordargli che lei era un membro della Società Interplanetaria di Archeologia, come la D’Antona, che l’aveva già incontrata più volte ed erano anche in rapporti passabilmente cordiali, se non proprio buoni? No, non ne valeva la pena: al momento il professor Jha aveva in testa solo il ministero che lo attendeva e il resto del mondo era il più fioco dei brusii di sottofondo, un fastidio da sistemare in fretta per passare ad altro.

Questo avveniva quattro anni prima. Nel corso del tempo, il lavoro di direttore del centro si era in effetti dimostrato poco faticoso, in linea di massima, anche se di tanto in tanto aveva i suoi spigoli e trabocchetti imprevisti. Non all’interno, dove tutto era moderatamente tranquillo e i vari ricercatori si preoccupavano soltanto di farsi i dispetti a vicenda e sfidarsi in competizioni da cortile dell’asilo, ma dall’esterno potevano arrivarti addosso di punto in bianco spiacevoli sorprese, nodi da sciogliere (se possibile senza acido), richieste di favori e altro. Come quando la Jaewon, da Lakshmi, le aveva richiesto di accettare una sua ex studentessa dalla testa piuttosto calda, prima che potesse combinare altri danni, magari a se stessa. Niente di serio, nel complesso, niente di davvero grave.

Fino al messaggio da Madre.

Le arrivò durante la pausa pranzo, dopo aver percorso la distanza relativamente breve che separava i due sistemi solari. Doveva essere stato spedito qualche giorno prima, ma la data precisa dipendeva da parecchi fattori, nessuno dei quali era di competenza di Cheskka Macawili: posizione relativa dei pianeti, masse dei soli, roba astronomica che di archeologico non aveva nulla e che dunque non era mai rientrata nel suo programma di studi. Il messaggio ci aveva messo qualche tempo, punto.

Adesso era arrivato e il suo impatto avrebbe forse innescato qualche nuova estinzione di massa, con un poco di fortuna tra i docentosauri del suo centro di studi. O forse no, ma poteva almeno sperare.

Il direttore Macawili lo ripeté tre volte, giusto per essere sicura. Controllò le immagini allegate, la prima manciata di dati, la breve spiegazione aggiunta dalla D’Antona in persona, oppure da un suo collaboratore che aveva firmato a nome della capa. Dettagli. L’essenziale era che avevano trovato una nuova pietra di Agni. Che però non era di Agni, ma di Madre. L’avevano trovata alcuni operai, durante gli scavi per un nuovo museo nei pressi della capitale (nuovo! Come se ne avessero già uno vecchio, da quelle parti). I lavori sono stati subito interrotti, a seguire alcune immagini e un primo modello tridimensionale del manufatto, blablabla, cordiali saluti, papparapà.

Una nuova pietra di Agni, trovata su Madre. Il che significava tante cose. Cose che non sarebbero piaciute a tutti, lì al centro. Cheskka Macawili era consapevole delle fazioni che si erano create, ma era anche consapevole che sarebbe stato controproducente opporsi. Sono centinaia, hanno soltanto un blocco di pietra da studiare tutto il giorno e tutti i giorni, si annoiano, non vedono un futuro, se non uno fatto di altri anni grigi attorno alla stessa roccia: perché mai avrebbe dovuto negare a quei disperati il piacere e il divertimento di litigare tra loro e giocare a chi la sparava più grossa? Non si era opposto il suo predecessore, il professor Jha, e non si sarebbe opposta lei.

Adesso però avrebbero avuto altro a cui pensare. E una valanga di richieste per viaggi di studio su Madre si sarebbe presto abbattuta addosso a lei. Cheskka Macawili poteva vedere il futuro prossimo che la attendeva e non era un bello spettacolo. Tanto valeva cominciare subito a stilare una lista dei più meritevoli, per curriculum, attività svolte e attendibilità delle ipotesi: avrebbe velocizzato il suo lavoro, forse, o almeno avrebbe reso più semplice spiegare a X perché era stato scelto Y e non lui, o lei, o quello che era. Non che sarebbe servito a convincere ricercatori idrofobi, ma tant’è. Il direttore lasciò un avviso alla segretaria, poi si preparò al peggio.

Il peggio attendeva nella sala delle conferenze, dove era in corso il festival di “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli”. Si ritrovavano ogni dieci giorni per dare aria ai denti, parlare davanti ai colleghi, non ascoltarsi a vicenda e tornare negli alloggi sentendosi un poco migliori e soddisfatti. Un’altra trovata che il professor Jha aveva lasciato correre, se non proprio facilitato, e che lei non aveva mai avuto cuore di abolire. Si divertivano così tanto, poverini.

Si sarebbero divertiti anche quel giorno, dopo lo sgancio della bomba? Poco ma sicuro. Avrebbero avuto qualcosa da contemplare che non fosse il proprio ombelico, per una volta.

Un giovane con un ridicolo codino stava parlando e gesticolando quando il direttore entrò. Continuò a parlare e gesticolare ancora per qualche minuto, prima di accorgersi che in sala nessuno fingeva di ascoltarlo e tutti stavano fissando un punto alle sue spalle, come se fosse la cosa più interessante del mondo. Il che forse era vero, almeno paragonato alla sua relazione. Poi Francis Tarchnishvili smise di parlare e gesticolare e si girò anche lui verso quel fantomatico punto.

E vide il direttore. In piedi. Con una espressione seria. Le mani unite dietro la schiena.

Non una visione particolarmente impressionante, di per sé, né una che incutesse timore reverenziale o soggezione di un qualche tipo. Una donna di altezza media, capelli abbastanza corti, un’aria che ti faceva pensare nel complesso a una zia bonaria e un poco distratta, di quelle che magari hanno due o tre circoli di beneficenza a cui partecipano, oppure attività analoghe che svolgono nel tanto tempo libero a disposizione, per stare in mezzo alla gente e chiacchierare con qualcuno. Pure, in quella circostanza specifica, il direttore Macawili ricordava più un padre severo che una zia bonaria. Un padre che è appena rientrato dal lavoro e ha scoperto che i suoi figli erano impegnati in una allegra attività di distruzione della casa. In via del tutto precauzionale, Francis Tarchnishvili si fece da parte e finse di non esistere. Gli riuscì piuttosto bene.

Tutti fissavano il palco, per la prima volta quel giorno, e tutti lo facevano con interesse vero. Anche Kemala si sottrasse al blando abbiocco digestivo, che negli ultimi minuti aveva minacciato più e più volte di trascinarla nel magico mondo dei sogni, e si raddrizzò sulla sedia. Era successo qualcosa? Qualcosa di grave?

Non proprio e non ancora, ma successe subito dopo. Quando Cheskka Macawili ebbe letto a tutti il comunicato ricevuto da Madre, mostrato le prime immagini della pietra e presentato il suo modello tridimensionale, con cordiali saluti da Sonja D’Antona, vicegovernatore di Madre, nonché pregiato membro della Società Interplanetaria di Archeologia. Successe che la sala divenne pollaio, dove una faina si è appena infiltrata e si sta sistemando il tovagliolo sotto al mento, pronta all’abbuffata.

Quel giorno e per un lungo periodo a seguire non ci furono più conferenze: ognuno aveva altro a cui pensare. Arrivare alla nuova pietra prima degli altri, tanto per cominciare, e scoprire un modo per incorporarla nelle proprie ipotesi, o almeno strapparla alle ipotesi avversarie. O qualcosa del genere.

Promettevano di essere giorni molto interessanti quelli che li attendevano.