Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 63

La città di Shtoma, propagandata nelle pubblicità di vari mondi coloniali come capitale della salute, o almeno qualcosa del genere, sonnecchiava quieta nella pace di un primo pomeriggio feriale, per quanto edifici e strade possano effettivamente sonnecchiare o svolgere qualsivoglia altra attività che appartiene soltanto a esseri viventi. Ben poco, dunque, e solo per modo di dire. Dettagli a parte, non era un luogo agitato in condizioni normali e lo era ancora meno in periodi di bassa stagione, quando assomigliava più che altro a un ospizio a cielo aperto. Destino comune a parecchi centri benessere e luoghi per le cure termali, in effetti. Non che a Shtoma ci fossero terme vere e proprie, ma potevi trovare altre strutture che, con un poco di fantasia e un occhio creativo, ricordavano alla lontana istituti termali, il che era grossomodo la stessa cosa. Se ci si pensa bene.

Uno di questi edifici che svolgevano una funzione di simil-terme era stato edificato seguendo uno di quegli stili architettonici, diffusi in ogni luogo e in ogni tempo, che mirano a ricreare in pietra o con materiali equipollenti un vecchio scatolone da traslochi, su cui poi procedono ad applicare tutte le più variegate decorazioni che la mente dell’architetto è capace di suggerire, magari dopo essersi trovata, per un periodo più o meno prolungato, a stretto contatto con sostanze ritenute illegali presso molte società umane. Nel caso specifico, l’edificio-scatola era stato seviziato con una facciata che poteva richiamare alla memoria un vago stile liberty a cui erano accadute cose ancora più brutte del consueto, e che magari aveva avuto rapporti non protetti e forse neppure consenzienti col rococò, più scappatelle con un neoclassico da rigattiere fallito. Kemala Kexin non aveva idea di quale fosse il nome di ciò che ne risultava, ammesso e non concesso che quello stile avesse un nome, ma di una cosa era certa: la malattia era infettiva e aveva già contagiato parecchi edifici a Shtoma. Non per la prima volta si sentì felice di essere archeologa, anziché architetto o storica dell’arte in generale.

Si sentiva anche piuttosto rilassata, nonché un poco accaldata e sì, anche maleodorante, almeno se il vento calava di intensità, costringendola ad annusare ciò che era rimasto depositato sulla sua pelle, qualunque cosa fosse. Penitenze olfattive a parte, doveva ammettere che l’idea di Inna non era stata così terribile come aveva temuto lei all’inizio. Scegliere un posto dall’aspetto migliore sarebbe stato preferibile, ma in apparenza non c’erano posti dall’aspetto migliore, nelle vicinanze: ne esistevano tuttavia alcuni dall’aspetto peggiore, come la vecchia scatoletta di passata di pomodoro, un poco accartocciata e molto baroccheggiante, che sorgeva poco lontano e poteva essere un altro istituto pseudotermale. Per cui, nel complesso, era meglio non lamentarsi troppo.

Kemala non si lamentò. Era partito tutto da una idea di Inna Rabbani, sua amica e collega. Il centro studi, al momento, era ancora fermentante per la novità della nuova pietra, ma anche per l’attesa di eventuali notizie sulla possibile organizzazione di una spedizione che portasse alcuni di loro su Madre, a studiare da vicino il reperto. La direttrice Cheskka Macawili vi stava lavorando assieme al nuovo ambasciatore terrestre su Agni, e voci non confermate sostenevano che le trattative stessero procedendo bene, o almeno stessero procedendo. Le normali attività di studio e ricerca non si erano fermate, ma proseguivano in una intensa atmosfera da ultimi giorni di scuola, la concentrazione era a livello del suolo e i risultati pico più in basso, a voler essere benevoli.

«Hanno tutti in testa la nuova pietra,» aveva commentato il professor Phan Thanh Chu, a tavola. «E a quella vecchia non pensa più nessuno. È passata di moda, per il momento. Succede.»

Parere forse eccessivo, ma che sembrava giustificato. La fazione che predicava l’origine artificiale della pietra (o delle pietre, come si diceva adesso) fermentava e ribolliva come un intestino dopo che il suo proprietario ha bevuto mezzo litro di latte dimenticato sotto il sole di agosto per almeno tre settimane: tutti volevano essere scelti per andare su Madre, tutti volevano vedere la nuova pietra, tutti speravano di poter verificare la fondatezza delle proprie ipotesi su origine e significato di quei reperti. La fazione che invece sosteneva l’origine naturale della pietra era sprofondata in una specie di brodo primordiale, dove tutti litigavano per rivedere e giustificare le proprie idee, persino le più implausibili, e nessuno ammetteva di avere mai conosciuto o frequentato il collega Marijn Asanga, che giusto qualche giorno prima si era reso lo scemo del villaggio accademico col suo famoso ma soprattutto famigerato discorso in mensa.

«Visto come stanno le cose, possiamo anche prenderci un pomeriggio di riposo: non ci perderemo nulla e magari ne guadagnerà la nostra salute mentale,» aveva detto Inna Rabbani, osservando quel vuoto da ubriaco che pareva pervadere il centro studi, come un circo prima e dopo lo spettacolo.

Kemala ci aveva pensato e sì, aveva dovuto ammettere che l’idea non era poi così malvagia. Non è che lei avesse combinato molto, nell’ultimo periodo, e il futuro prossimo non prometteva niente di meglio. «E cosa avresti in mente come riposo?»

Inna aveva in mente di passare qualche ora in uno degli istituti pseudotermali che non mancavano in città, tanto per cominciare. Ne conosceva almeno uno che era convenzionato col centro di ricerca e avrebbe offerto tariffe agevolate ai dipendenti, il che era un buon inizio. Era anche poco frequentato dai turisti, il che era un proseguimento migliore. Ne avevano discusso un poco e alla fine Kemala aveva accettato di lasciarsi convincere, non perché avesse realmente voglia di frequentare istituti termali, veri o presunti che fossero, ma perché in fondo non aveva altro da fare e poi non è che lei si fosse mai presa molte ferie, da quando era su Agni. O anche prima di arrivarci, in effetti, a meno che non si volessero contare come ferie i periodi in galera su Madre o nel quartiere dei processi a Nuova Kalighat, in attesa della sentenza. Kemala non li contava e preferiva non ricordarli.

Così ci erano andate quella mattina, avevano trascorso un poco di tempo a rilassarsi in un’acqua dal fetore malsano ma ricco di supposte proprietà benefiche, avevano chiacchierato del più e del meno, si erano rilassate ancora un poco, avevano anche accettato una seduta di massaggi, un altro tuffo in acque che potevano essere state ricavate da uova non solo marce, ma deposte da un essere vivente molto malato e poi lasciate a decomporsi in un letamaio, infine un pasto leggero e purificante, come lo descriveva il menu. Quindi erano uscite a rivedere il sole, un poco accaldate e maleodoranti, ma nel complesso sentendosi meglio di prima. O almeno pensando di sentirsi meglio di prima, il che è più o meno la stessa cosa. Sì, in fondo non era stata una cattiva idea. O non sembrava essere stata una cattiva idea, al momento, adesso che l’edificio scatolone si allontanava nel passato recente e la città di Shtoma si apriva in ogni altra direzione.

«E adesso cosa facciamo? Giriamo un po’ per la città o preferisci rientrare subito al centro?» chiese Inna. Il clima esterno era moderatamente gradevole, poca gente per strada, leggero vento dal nord e un vago profumo di campi che di tanto in tanto arrivava tra una folata e l’altra. Strano ma vero, era un reale profumo di campo e non di quello che si sparge nei campi per accrescerne la fertilità, come pare succedere abbastanza spesso quanto il vento soffia dalle campagne. Sì, una giornata piacevole, nel complesso, o almeno una giornata di cui non ci si poteva ancora lamentare.

«Possiamo girare ancora un po’, se vuoi,» rispose Kemala. «Non andiamo vicino al lago, però: per una volta che il vento ci risparmia, non voglio sentire il fetore di quel posto.»

«Ci accontenteremo del fetore della nostra pelle, allora.»

«Potremmo trovare un parco e sederci. Ci sono un paio di cose di cui vorrei discutere, con calma e senza distrazioni, se possibile.»

«Spero che tu non mi voglia chiedere altre cose sulle rovine. Mi hai già costretta a parlartene tutta la mattinata, guarda...»

«No, niente rovine. È il viaggio su Madre, la spedizione che progetta la direttrice, sai.»

Inna non rispose. Sapeva. O almeno sapeva che si parlava di una spedizione che, secondo le solite e famigerate voci di corridoio, la direttrice Macawili stava cercando di fare approvare dall’ambasciata terrestre. Era impossibile non sentire quelle storie: neppure un sordo ci sarebbe riuscito. Al centro studi ne sentivi discutere anche quando eri in bagno.

«Cerchiamo un parco e poi ci penseremo,» disse poi. Inna aveva voglia di parlarne tanto quanto una persona non masochista potrebbe aver voglia di una gastroscopia subito dopo pranzo, ma sospettava di non poterlo evitare. Sospettava soprattutto che Kemala avesse concepito un altro dei suoi progetti folli e che adesso avrebbe cercato di coinvolgere pure lei in qualche modo. Il che era anche peggio di dover passare altre tre ore a descriverle le rovine aliene madriane.

Raggiunsero un parco, un quadrilatero imbottito di specie vegetali native del pianeta, ma modificate in seguito per renderle più digeribili ai gusti umani. Il risultato non era proprio così gradevole, per il senso estetico di Inna, ma in linea di massima sembravano almeno familiari e tranquillizzanti. Se la visione di cosi che assomigliano a carciofi giganti incrociati con broccoletti può essere considerata familiare e tranquillizzante, beninteso. Inna non ne era del tutto sicura, ma aveva visto alcuni degli esemplari originari e sì, nel complesso un certo miglioramento lo potevi riscontrare. Più o meno al centro del parco c’era un laghetto, non molto più grosso e non molto più limpido di uno stagno: lo attraversava un ponte di legno, decisamente vecchio stile, mentre le sponde erano decorate da due specie di pagode, che sorgevano o meglio ancora si annidavano in mezzo a cespugli spinosi, una di fronte all’altra, grossomodo identiche. Non erano pagode realizzate molto bene: più che costruite, parevano modellate nella plastilina e poi lasciate sciogliere per un poco, per ragioni ignote.

«Questo dovrebbe essere un posto molto artistico, vero?» disse Kemala, guardandosi attorno. «Te lo chiedo così, per pura curiosità. Sei su Agni da più tempo di me, magari conosci meglio l’arte locale. O quello che è. Credo che la parola arte potrebbe querelarmi, se la uso per questa roba.»

«Potrebbe essere artistico,» azzardò Inna. «Ma sai anche tu come funziona, no? È un luogo turistico e i luoghi turistici sono così più o meno ovunque. Li riempiono di cose facili da notare e da vedere, magari di quelle che poi vuoi filmare o fotografare, per mostrare agli amici a casa le cose strane che hai visto in viaggio. O qualcosa del genere, credo. Comunque non vuoi discutere di arte locale, non è vero?»

«No, non proprio di arte locale.»

«Allora sediamoci e poi spara, così ci togliamo subito il fastidio.»

Sedettero su una panchina non artistica e Kemala sparò. Figurativamente parlando.

«Comunque andrà a finire con la spedizione, noi non saremo scelte, vero?»

Inna sorrise. «Tu no di sicuro, coi tuoi precedenti. Ti è vietato l’accesso a Madre, no?»

«Sì, immagino che in giro per la stazione orbitale abbiano esposto mie foto con la scritta “Noi non possiamo entrare”, o qualcosa del genere. Ne abbiamo già parlato e non mi faccio illusioni.»

«Su questo non scommetterei, ma accettiamolo pure, per il momento, e diciamo che ti sei rassegnata all’idea non potere andare su Madre di persona. Stai pensando di andarci comunque in un qualche modo che non sia di persona, giusto?»

Kemala si mosse a disagio. «Non la metterei proprio in questi termini, ma è meglio se ne parliamo un poco, prima. Ok? Credi di avere qualche possibilità di essere scelta, tu?»

«Ammettendo che la spedizione ci sarà, penso proprio di no. Non ho abbastanza agganci in alto e la mia ipotesi di studio è già sostenuta da molti altri, che invece hanno agganci in abbondanza o sono loro stessi agganci. Se sceglieranno i partecipanti usando un qualche criterio logico e razionale, non sceglieranno mai me, salvo imprevisti improbabili come epidemie, pestilenze o roba simile.»

«Ok, fino a qui ci siamo. Ma tu non hai proprio bisogno di aspettare di essere scelta, vero? Dico, per andare su Madre. Per tornare su Madre, nel tuo caso.»

Inna sospirò. «Di nuovo. Sì, sono terrestre e sì, sono già stata a studiare su Madre: ci sono stata per qualche anno, se vogliamo essere precisi. E no, non c’è bisogno di altre domande retoriche inutili, che mi hai fatto già fin troppe volte. Ci posso tornare, se voglio e se ho i soldi per il viaggio. Ci posso tornare quando voglio e mi faranno entrare. Sono anche rimasta in contatto con un certo numero dei colleghi che avevo, non molti ma abbastanza, e sì, probabilmente mi permetterebbero di accedere alla pietra e studiarla da vicino, se volessi. Ne abbiamo già parlato, lo sai. Ne abbiamo già parlato più volte

«Ma non abbiamo parlato di come potrei approfittarne io.»

«Invece sì e ti ho anche già risposto che non intendo nasconderti in valigia o altro.»

«Sì, lo so, è ovvio. Non puoi infilare in valigia me. Potresti però infilare in valigia una parte di me.»

Inna fissò Kemala; Kemala fissò Inna. Sullo sfondo, qualcosa di non ben definito ma di piuttosto pesante sguazzò nel lago con uno splosh molto finale. Agni non era stato un pianeta particolarmente ricco di vita animale, prima dell’arrivo dell’uomo, e la maggior parte di quella che vi si trovava ora era stata importata, riveduta e corretta dai coloni. Pure, nessuna delle due donne si sentì abbastanza curiosa da indagare su cosa avesse prodotto lo splosh: era più interessante cercare di capire che cosa avesse in mente la meno sana delle due. O, se non proprio interessante, almeno prudente.

«Forse è meglio se mi spieghi il tuo nuovo progetto. O la tua ultima follia. Spiegala con calma, pian piano, senza tagliare e senza, senza balzi logici. Ammesso che ci sia una logica, ovvio,» disse Inna.

«Ci conosciamo da un po’, ormai: pensi davvero che possa essere qualcosa di illogico?»

Inna Rabbani valutò se fosse o meno il caso di fare presente all’amica i precedenti penali che aveva accumulato inseguendo un piano fantastico che non poteva fallire. Decise che era inutile. Kemala era di sicuro logica, quando voleva e quando se ne ricordava, soprattutto perché logico e sensato non sono sinonimi, né lo sono logico e razionale; altrettanto sicuramente, però, era anche la cosa più simile a una testata nucleare antropomorfa che lei avesse mai visto. Che il nuovo progetto fosse qualcosa di insensato e stupido era ovvio; restava solo da verificare quanto fosse pericoloso per gli altri. O, nello specifico, pericoloso per lei.

«Spiegami,» ripeté Inna, sentendosi più stanca e rassegnata che mai.

«Lo so che non mi puoi portare di persona e so che su Madre non mi farebbero entrare di persona neppure a tranci. Neanche su Lakshmi, se è per questo, ma adesso non importa.»

«Direi invece che importa. Stai cercando un modo per farti cacciare anche da qui?»

«No, perché io non mi muoverò da qui. Resterò qui al centro, da brava, a fare il mio lavoro. A fare il lavoro degli altri, se necessario. È un progetto a prova di fuoco, ci ho pensato su parecchio in questi giorni e non può non funzionare. Mi serve solo la tua collaborazione.»

«Se dici così, forse mi conviene fare subito testamento.»

«Parlo sul serio, dai! Ho fatto le mie stupidate e ho imparato la lezione: non ripeterò di nuovo gli stessi errori, puoi starne certa. Per chi mi hai preso?»

«Allora stavolta ci saranno nuovi errori, diversi da quelli vecchi. A ogni modo spiegami, te l’ho già detto. Ci stai solo girando attorno e ancora non mi hai detto niente.»

«Ci stavo arrivando. Comunque, il piano è questo. Tu torni su Madre per conto tuo, senza aspettare la spedizione o di essere scelta o quello che è. Collaborerò alle spese, non ho molto da parte ma non importa, tanto non è che spenda molto qui, e poi serve un solo biglietto, quello per te. Tu andrai su Madre, farai tutto quello che devi fare e intanto, e questo è il punto, porterai con te una copia della mia coscienza. Eh? Piano fantastico, vero? Entrerò in una valigetta e non ti disturberò proprio.»

Inna era temporaneamente senza parole. Un piano meno stupido di quanto avesse temuto, sotto un certo punto di vista. Un piano sensato, addirittura, sempre sotto un certo punto di vista. Il problema era che si stava parlando di Kemala Kexin, per cui dovevano per forza esserci altri punti di vista che lo avrebbero reso insensato e/o dannoso. Il suo compito era trovarli in tempo e disinnescarla.

«Una copia della tua coscienza.»

«Una copia della mia coscienza, sì. Funziona, no? Lo usano già in tanti, per i viaggi di lavoro che non vogliono proprio fare, o per risparmiare tempo e roba simile, no? Lo ha fatto anche Leonardi, il grande capo dell’Ufficio per la Colonizzazione terrestre, quando è andato su Madre con la seconda spedizione, giusto? È praticamente una leggenda, per voi, o qualcosa del genere. Quindi funziona ed è già stato testato. Basta che lo usi anch’io, adesso che ho un contatto capace di entrare su Madre senza problemi, e mi risparmierò tutti i guai che ho avuto prima. Vero, ci spenderò una montagna di soldi e probabilmente finirò in debito, ma questo non importa. È per il bene della scienza, giusto?»

Inna Rabbani le avrebbe potuto far notare che non era proprio per il bene della scienza, ma solo per il suo interesse personale, ma sapeva per esperienza che sarebbe stato inutile. Non aveva mai visto l’espressione che Kemala aveva al momento, ma poteva ipotizzare che fosse la stessa con cui aveva preparato il famoso tentativo di infiltrarsi di persona su Madre, quasi due anni prima. O forse più di due anni prima: era sempre difficile calcolare l’esatto scorrere del tempo, quando su ogni pianeta gli anni avevano durata diversa e le convenzioni interplanetarie erano viste solo come linee guida e non come regole da rispettare.

«Portarti con me come semplice coscienza.»

«Esatto. Io resterò qui da brava e tutto ciò che viaggerà sarà una copia della mia personalità.»

«E sei sicura che la legge non ti vieti il ritorno su Madre sotto forma di coscienza copiata, ma solo il ritorno come persona completa? Non mi intendo di diritto, ma so che i viaggi di questo tipo si sono trovati al centro di parecchi casi giudiziari, nel corso degli anni. Non so come siano andati a finire, ma ci sono stati diversi progetti per una legge unica condivisa da tutti i pianeti. Ti sei informata su questo piccolo aspetto trascurabile, Kemala?»

«È un aspetto trascurabile, lo dici anche tu, e poi adesso i supporti sono molto meno ingombranti di una volta. Non c’è bisogno di valigette, come nella storia di Leonardi. Basta un dispositivo tascabile qualunque, di spazio in memoria ce n’è in abbondanza, e poi tutti dispongono dei pezzi che servono per... sì, beh, per continuare a funzionare, no? Per vedere, sentire, cose così.»

«Fammi capire bene,» disse Inna, parlando molto lentamente. «Vuoi farti contrabbandare da me su Madre? E te lo sto chiedendo così, giusto per farmi un quadro completo della tua idea, non come accusa o altro. Solo per... vedere tutti i lati, ecco.»

«Non la metterei proprio in questi termini, non è un vero contrabbando, ma ok, diciamo pure di sì, se hai paura che ci siano problemi con la legge. In fondo una cosa è illegale solo se ti sorprendono a farla, no? Se spacci la mia copia per un normale dispositivo, non se ne accorgerà nessuno, quindi di fatto non ci sarà nulla di realmente illegale, giusto? È logico.»

Nel laghetto dietro di loro qualche altra cosa si produsse in un sonoro splosh, o forse era sempre la stessa cosa, difficile capirlo. Non difficile come capire con quale parte del corpo Kemala elaborasse i suoi fantastici piani, secondo il modesto parere di Inna. Oh beh, poteva andare peggio, anche se le sarebbe servito un po’ di tempo per pensare a come esattamente sarebbe potuto andare peggio.

«Diciamo che prima controllerai eventuali problemi legali e poi ne riparleremo, ok? In fondo non ho ancora deciso se tornare o meno su Madre per i fatti miei, non era neppure tra i miei programmi, se proprio la vogliamo mettere su questo piano. Sei tu che hai deciso che io ci sarei dovuta tornare e poi ti sei costruita tutti i tuoi castelli in aria su queste basi.»

«Quindi non ti interessa studiare la nuova pietra da vicino?»

«Non ho detto che non mi interessa.»

«Allora ci andrai per conto tuo se non ti selezioneranno nel gruppo della direttrice, giusto? E faremo a metà per le spese, visto che da un certo punto di vista verrò anch’io, anche se di fatto non credo di costare molto in fatto di cibo o alloggio, se la me che verrà con te sarà solo una copia di me, salvata in un dispositivo portatile che può entrare in una tasca. Le spese di cibo saranno le spese di ricarica per la batteria, più che altro, e l’alloggio proprio non c’è. Giusto?»

Inna sospirò. Kemala possedeva una logica che non aveva nulla a che fare con la logica, quando ci si metteva davvero, e ci si metteva sempre davvero quando aveva qualcosa a che fare con Madre e le rovine aliene. Quando l’aveva conosciuta al centro studi, mesi prima, non aveva creduto subito ai suoi racconti sui problemi legali in cui si era infilata e che l’avevano costretta all’esilio su Agni, un castigo che alle sue orecchie terrestri era suonato quantomai stupido e antiquato. Adesso ci credeva. Anzi, adesso era sorpresa che se la fosse cavata così bene, coi progetti malati che sapeva produrre a getto continuo o quasi. Coinvolgendo sempre altre persone, per inciso.

«Ne parleremo, ok? Di tempo ce n’è ancora e non si sa mai cosa potrebbe accadere.»

Non fu facile svicolare senza prendere posizioni precise e definitive, ma alla fine Inna ci riuscì. La discussione tornò su argomenti più sani e meno pericolosi, distrasse l’amica con nuovi dettagli sulle rovine aliene e le ultime ipotesi sul possibile aspetto della civiltà estinta, di cui ancora non avevano trovato fossili, e in un modo o nell’altro il pomeriggio si concluse senza troppi danni. Rientrarono al centro studi quando il tramonto era alle porte e la sera già seduta in sala d’attesa, e ritrovarono l’ambiente caotico e confuso a cui si erano ormai abituate. Non c’era più stata calma vera e propria, dopo la notizia della seconda pietra trovata su Madre, e lo spettacolo che quel fesso di Asanga aveva improvvisato in mensa era soltanto riuscito a peggiorare la situazione nella fazione della terra piatta, innescando una serie di reazioni a catena e conflitti fra personalità, o tra ego ipertrofici che più o meno facevano funzione di personalità.

Proprio Marijn Asanga sedeva da solo nelle vicinanze dell’ingresso, in un posto che era occupato di rado e quasi mai da ricercatori e altro personale del centro. Era un posto da fattorino in attesa, o da visitatore che aspetta, o comunque da persona che, come avrebbe detto la madre di Inna, se ne stava lì in prestito. Marijn, in effetti, sembrava molto in prestito. Meglio ancora, sembrava qualcosa che era stato rispedito al mittente e dal mittente rifiutato, lasciando il pacco in una terra di nessuno o in un ripostiglio delle poste, che è più o meno la stessa cosa. Poteva fare quasi pietà, se solo si faceva il grande sforzo di dimenticare quanto sapesse essere fastidioso e molesto, nonché odioso in genere, quando era nel pieno delle sue facoltà mentali e caratteriali. Ammesso che ne avesse.

«Non c’è neppure il suo fidato servitore,» commentò Kemala con un tono di voce che, nelle sue più vaghe intenzioni, doveva forse essere un sussurro, ma che di fatto possedeva decibel in abbondanza e quasi sicuramente era arrivato anche alle orecchie del diretto interessato. Inna voleva sperare che non fosse stato volontario, ma le era difficile crederlo.

«Tarchnishvili sarà da qualche altra parte,» le rispose. «Ci sono stati parecchi incontro tra i capi del loro gruppo, negli ultimi giorni, anche se non so di cosa debbano discutere.»

«Parleranno di come buttarlo fuori,» disse Kemala, di nuovo con un tono diversamente silenzioso. Asanga non si mosse. Non diede neppure la sensazione di essersi accorto della loro esistenza, il che per Inna era un bene: aveva già cose a sufficienza a cui pensare e una nuova discussione con quel tizio non rientrava tra i suoi desideri. Afferrò l’amica per un braccio e la trascinò un poco in avanti, fino a che non ricevette il messaggio che era meglio allungare il passo e tirare dritto.

«Comunque, qualunque cosa sia, vedrai che ce ne parlerà il professor Chu, magari a cena.»

Kemala ridacchiò. «Sicuro, tra un boccone e l’altro, e agitando ovunque la sua forchetta.»

«È una brava persona, tutto sommato, e simpatica a modo suo. Gentile, quantomeno.»

«Oh, simpatico, sì. Basta non guardarlo mentre mangia.»

A questo Inna non poteva replicare. Era vero. Fissare sempre e solo il proprio piatto era il sistema migliore per gestire una conversazione con Phan Thanh Chu, quando eri a tavola con lui. E per una qualche ragione Phan Thanh Chu era quasi sempre a tavola con loro, adesso che lei ci pensava. Lo era anche quando non ci pensava, in effetti, ma proseguendo lungo quella direttrice di pensiero solo la totale insanità ti aspettava, quindi era meglio fermarsi prima.

Marijn Asanga le osservò passare oltre, senza guardarle. Sparirono nell’edificio oltre di lui. Aveva già visto passare parecchie persone, quel giorno, e molte non gli avevano risparmiato i loro migliori commenti. O i peggiori, a seconda dei punti di vista. Ridevano, spesso, oppure scuotevano la testa, o varianti sul tema. Niente a cui Marijn non fosse abituato, soprattutto dopo l’incidente in mensa. Ci era abituato anche prima, d’accordo, ma adesso si era aggravata. Sospirò.

Oh beh, pazienza. Non era un problema. Non un vero problema, quantomeno. Il vero problema era la sua posizione nella fazione, che stava peggiorando. Anzi, non stava peggiorando: era pressoché svanita e non restava molto che potesse peggiorare. Il professor Dmitrenko era stato molto chiaro su quel punto, anche troppo.

«Sei fuori. Dopo l’ultima scenata non ti possiamo più difendere. Tenerti intorno danneggia la nostra posizione e ci fa perdere quel poco di credibilità scientifica che ci hai lasciato. Pensala pure come vuoi, ma ogni tuo legame col nostro gruppo è interrotto. Definitivamente.»

L’aveva presa abbastanza bene, Marijn Asanga. O meglio, l’aveva presa male, ma al momento il suo stato mentale non era pervenuto, trovandosi ancora a diversi chilometri di distanza dal presente e da tutto ciò che l’annuncio di Dmitrenko comportava, per cui l’irrealtà gli formava un cuscinetto protettivo attorno al cervello e lo riparava dai danni peggiori. Non sarebbe durato a lungo, ma non era necessario che durasse a lungo. Bastava che durasse a sufficienza. Così adesso Marijn sedeva in silenzio nell’atrio, senza pensare, col mondo che gli scorreva attorno.

Non si mosse fino all’ora di cena, poi si alzò e camminò a testa bassa fino al suo alloggio. Sapeva a un certo livello che avrebbe dovuto mangiare, ma non aveva fame. Non sentiva neppure di avere uno stomaco, in effetti, o una qualsiasi altra parte dell’apparato digerente. Aveva un cervello, però, e pulsava piano. O un qualcosa facente funzione di cervello. Negli ultimi giorni erano stati parecchi a sollevare dubbi sull’effettiva presenza di materia grigia dentro il suo cranio, suggerendo invece che la materia fosse di un altro colore. Il che di per sé non era una novità: gli succedeva più o meno dai tempi delle superiori e ci aveva fatto il callo. Era cambiato però il modo in cui lo dicevano e questa era una novità. Una spiacevole novità. E tutto era successo dopo il suo discorso in mensa.

Era stata un’azione stupida, questo lo poteva accettare. Azione palesemente stupida, se guardata col famoso e famigerato senno di poi: apparteneva alla categoria delle idee che, al momento, sembrano buona, ottime, ma già il giorno dopo cominci a vedere che ottime non erano, erano idiozie, palesi idiozie, e come avevi fatto a pensare che fossero buone idee? Pure lo avevi fatto e quello che avevi fatto non lo potevi disfare. Potevi provare a rimediarlo, forse, ma non potevi farlo non essere mai stato. Marijn Asanga non sapeva neppure come rimediare. Probabilmente sarebbe stato inutile.

Rientrato nella sua stanza, sedette sul letto e fissò il muro, in quella che negli ultimi tempi sembrava essere diventata la sua attività preferita. O l’unica che non gli causasse danni. Prima o poi forse lo sarebbe passato a trovare Francis Tarchnishvili, di ritorno dalla mensa o dalla riunione della sua (ex) fazione, e magari lo avrebbe aggiornato sulle ultime decisioni. Non che contasse molto. Anzi, non contava proprio, né poco né molto. Discutevano di come rimediare ai danni che lui aveva causato, e di come infiltrare il più possibile dei loro nella eventuale spedizione su Madre. Qualcuno sarebbe di certo partito, ma qualcuno non bastava. La fazione dell’origine artificiale della pietra era forte, ora, e avrebbe usato quella forza per prendersi tutti i posti possibili. Il loro compito era limitare i danni e lanciarsi al contrattacco. Più di loro riuscivano ad andare su Madre, più possibilità avrebbero avuto di ristabilire la verità e far trionfare la scienza. Qualunque cosa intendessero per verità o scienza.

Marijn Asanga non lo sapeva più. C’era stato un periodo in cui avresti potuto lavorare il diamante con le sue convinzioni, ma quel periodo era morto in mensa. Il che era buffo, perché proprio le sue convinzioni lo avevano spinto al famigerato discorso: quelle, unite all’appoggio di Dmitrenko, che lo aveva caldamente invitato a difendere le posizioni del gruppo e riaffermarne la solidità scientifica al cospetto della comunità intera. Lo aveva usato come kamikaze, ma Marijn era esploso nel modo e nel posto sbagliato. Ahaha.

C’era ancora spazio per lui nel centro? Uno spazio che non fosse la latrina, magari. Difficile dirlo, ancora più difficile scoprirlo. Forse sarebbe stato meglio mollare tutto, tornarsene a casa e trovarsi un campo diverso, uno che fosse il più possibile lontano da Madre, dalle pietre e quant’altro. Idea buona, peccato solo che lui non possedesse alcuna altra competenza. Senza il lavoro di ricercatore che si era ritagliato, il signor Marijn Asanga era utile come una zattera di carta.

Bussarono alla porta mentre era immerso nella fase più pessimistico-depressiva delle sue riflessioni vaghe e inconsulte. Era Francis Tarchnishvili: Marijn lo fece entrare senza una parola.

«Dubito che ti arriverà come una sorpresa, ma è ufficiale. Sei fuori. I capi hanno votato oggi e la tua espulsione è stata approvata all’unanimità.»

«Ma non mi dire. Proprio non me l’aspettavo.»

«Mi hanno anche chiesto di interrompere i contatti con te, perché il tuo nome porta solo discredito a noi e alla nostra causa. O a loro e alla loro causa, almeno. Nessuno del gruppo deve più intrattenere contatti con te, pena l’espulsione immediata.»

«Vedo che è già partita la damnatio memoriae, dunque. E tu come mai sei qui?»

«Perché non sono più parte del gruppo.»

Per la prima volta da quando lo aveva lasciato entrare, Marijn Asanga alzò gli occhi dal pavimento e guardò in faccia il collega. «Hanno espulso anche te?»

«No, me ne sono andato io. Un gruppo di quel tipo non ha più senso. Non è più un gruppo e non ha nulla di scientifico. Quello che cercavo io era un posto dove studiare e gente con cui condividere le idee, discutere, confrontarmi, trovare punti di intesa, migliorare le mie ipotesi e così via. Se tutto ciò che si fa è litigare fra noi e sbranarci per un posto in più, allora che giochino pure da soli. Io esco.»

«Te ne sei andato.»

«Me ne sono andato, sì. Ti hanno usato per mandarti all’attacco da solo, quando le loro posizioni si sono messe a vacillare. Non ha funzionato e così ti hanno buttato via. Vedi forse qualcosa che abbia a che fare con la ricerca scientifica in tutto questo? Io no. Tutto ciò che vogliono è difendere la loro preziosa ipotesi, farla diventare una teoria, pensare che magari sia la verità. Non vogliono scoprire cosa sia davvero la pietra. Io sì. Origine naturale? Forse. Origine artificiale? Forse. Pensavamo che la risposta giusta fosse la prima, adesso un nuovo ritrovamento fa pensare che la risposta giusta sia la seconda. E io dico: buttiamo via entrambe le ipotesi e ripartiamo dai dati. Costruiamo una nuova ipotesi sulla base di ciò che abbiamo scoperto. Non ti pare più sensato?»

Marijn Asanga lo fissò in silenzio. Gli pareva sensato? No, se lo giudicava sulla base di tutto ciò che aveva creduto fino a quel momento. Se però buttava via tutto ciò in cui aveva creduto, assieme alla idea stessa di credere in qualcosa... Una parte di lui si ribellò al pensiero, ma un’altra si ribello alla ribellione contro quel pensiero. Erano ipotesi. Non erano cose in cui credere. Credi a cose inventate, immaginarie. Cose come dio, babbo natale. Non credi a una pietra. Una pietra esiste. E una ipotesi è solo uno strumento, una impalcatura provvisoria, una stampella per fare qualche passo avanti: se la stampella si rompe, la butti via e te ne procuri un’altra. Oppure fai senza, se le tue gambe adesso funzionano meglio, ma a quel punto era tempo di abbandonare la metafora, perché ti stava portando fuori strada. La scienza non era una frattura o una distorsione.

«Pensi davvero che dovremmo buttare via entrambe le ipotesi?»

«Penso che abbiamo sprecato anche troppo tempo a pensare alle ipotesi, chiusi qui dentro, quando ci avrebbe fatto molto meglio uscire e guardare il mondo. Non siamo qui per dimostrare che io sono migliore di te; siamo qui per scoprire cosa sia quella pietra. Giusto? Allora cerchiamo di farlo.»

Da qualche parte nella coscienza di Marijn Asanga, o almeno in quell’agglomerato di vaghi pensieri confusi che siamo soliti spacciare per coscienza, la speranza rialzò la testa. «Li potremmo davvero ignorare tutti e andare per la nostra strada? Voglio dire, farci una ipotesi nostra e...»

«E correggerla, modificarla o anche abbandonarla, via via che nuove scoperte ci indicheranno altre possibilità di osservare la pietra e capire cosa sia davvero. Certo che possiamo. È del tutto normale. È il modo in cui dovrebbe funzionare il metodo scientifico, solo che poi il metodo scientifico finisce per essere applicato da noi umani e noi cerchiamo sempre di farne una questione personale.»

Marijn si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro nella stanza. Non che ci fosse molto spazio per camminare, o molto avanti e indietro da fare, ma lui camminava avanti e indietro lo stesso. Un metro quadrato sarebbe stato più che sufficiente per camminare avanti e indietro, ora come ora, e forse gliene sarebbe avanzato un pezzo, se ci si fosse messo di impegno. Il naso tucanico sembrava luccicare al chiarore artificiale della luce, e forse luccicava davvero, ricoperto di sudore. «Possiamo ripartire.»

«Sì,» confermò Francis Tarchnishvili con un mezzo sorriso. «Possiamo ripartire. Non c’è niente che ci blocchi, a parte noi stessi.» Affermazione assai poetica e potente, di cui si sentì orgoglioso fin dal primo fonema: fu dunque con una certa delusione che registrò la totale indifferenza con cui pareva aver attraversato il cranio dell’amico. Era chiaro che aveva altro per la testa. C’era solo da sperare che fosse anche qualcosa di buono.

«Possiamo ripartire!»

«Sì, Marijn, possiamo ripartire.»

«Domattina all’alba. Recuperiamo tutti i dati, solo quelli, nel cesso le interpretazioni. Si ricomincia da zero, dalla pietra. La studieremo a fondo, altroché. E poi dobbiamo preparare una relazione per la direttrice Macawili, che sia chiaro anche a lei che con gli altri non abbiamo più a che fare. Siamo un nuovo gruppo, adesso, e rifaremo tutto da capo. Da zero! Dati e solo dati. Scopriremo cosa sia una buona volta quella maledetta pietra e studieremo anche quella di Madre, dopo. Naturale, artificiale? Chissenefrega! Ci penseremo poi, se sarà necessario. Prima capire, poi ipotizzare.»

Francis guardò l’amico con una certa incertezza, o con una incerta certezza. Si era risvegliato, poco ma sicuro, e aveva abbandonato la faccia da zombie stitico che si era portato in giro per il centro, da quando c’era stato l’incidente della mensa. Era anche un bene? Lo avrebbe dovuto tenere d’occhio: Marijn aveva la pessima abitudine di infiammarsi in un attimo e dimenticare tutto il resto, inclusa la razionalità delle proprie affermazioni. Sì, aveva bisogno di un navigatore che correggesse la rotta, di tanto in tanto. Ma era ripartito e da qualche parte sarebbero arrivati.

Adesso restava solo da sapere se ci sarebbe stata davvero una spedizione su Madre. La prossima mossa spettava alla direttrice Macawili.