Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 80

Quando l’uomo noto temporaneamente come Olaf Selke uscì da un alloggio altrettanto temporaneo, il nuovo giorno gli sorrise. Per un dato valore di sorriso. Ma il prolungato periodo di pioggia si era finalmente concluso, come si era concluso il prolungato periodo di identità falsa, e il sole tornava ad affacciarsi tra le nubi residue e a riscaldare il mondo, seppure meno di quanto fosse lecito aspettarsi da una zona equatoriale. La luce bagnava il quartiere più interno della base militare e si rifletteva sulle poche pozzanghere rimaste, scintillanti sulla strada, dove in distanza ricreava quel miraggio da poveri che ti fa sembrare allagato l’orizzonte dell’autostrada durante i lunghi viaggi estivi. L’aria profumava di poco, ma aveva un vago retrogusto olfattivo di fango e muschio, anche se su Madre di muschio non ne avevano ancora trovato, e la temperatura era a modo suo gradevole: non qualcosa di cui scrivere a casa, ma ci potevi passeggiare, con un vago sorriso. Un buon giorno, forse, o per lo meno un mattino accettabile, che suggeriva di potersi svilupparsi in una buona giornata.

Salvo imprevisti, almeno, ma la vita è sempre un salvo imprevisti, per cui il fu Olaf non ci pensava troppo, soprattutto perché aveva altre cose a cui pensare, al momento e nell’immediato futuro. Tipo la sua nuova vecchia personalità. Era quasi ristabilita del tutto, adesso che la missione era conclusa, ma qualche ultimo rigurgito di passato si attardava nel suo esofago mentale e, secondo il dottore, lo avrebbe seguito per alcuni mesi, ma alla fine si sarebbe dissolto. «Magari rimarrà ancora in qualche sogno, di tanto in tanto, ma non sarà peggiore delle altre cose che compaiono nei sogni, no? Non te ne dovrai preoccupare, credimi.» Così parlò il dottore.

Il fu Olaf, che giusto quella notte aveva sognato di essere inseguito dai suoi calzini sporchi lungo le vie di una città in cui non era mai stato, mentre i compagni di classe che non aveva avuto alle scuole elementari cantavano l’inno nazionale e ballavano travestiti da struzzi sul prato azzurro dello stadio da biliardo, al momento si sentiva propenso a dargli ragione. Potevano esserci scene più assurde? Sì che potevano, se ti sedevi a pensarci col supporto di bevande ad alta gradazione alcoolica, ma nel complesso le poteva accettare. In fondo svanivano al risveglio, salvo qualche ricordo incolore. Così sarebbero finiti anche i suoi anni più recenti; così stavano già finendo anche i suoi anni più recenti. Il fu Olaf non ne sentiva la mancanza, né li viveva come una grave perdita. Era un lavoro, niente di più. Una missione, anzi, e la missione era compiuta. E dunque.

E dunque il generale lo attendeva. Non per discutere della missione, no. Quella era conclusa, già, e conclusa bene. Ne avevano già parlato. Il giorno dopo l’arresto, per cominciare. Ne avevano parlato a caldo, quando il fu Olaf era ancora Olaf e aveva solo la più vaga sensazione che sarebbe stato un fu, o anche solo che ci fosse qualcosa di non genuino in Olaf. Ma c’era. Glielo aveva ricordato per primo il generale, poi ci aveva pensato il personale medico. Il dottore, quello dei residui che nel giro di qualche mese sarebbero spariti del tutto e delle tracce che potevano rimanere come sogni. O era nei sogni? Rimanevano come sogni o nei sogni? Era stato vago, il dottore, a volte diceva una cosa, a volte un’altra, ma alla fine era lo stesso, giusto? Per il fu Olaf poteva essere giusto, almeno fino a prova contraria, e quella prova non l’avrebbe cercata lui.

Si diceva dell’arresto. Quello lo ricordava bene e da entrambe le prospettive, sia vittima che autore. Carnefice, si potrebbe anche dire, ma di carneficine non ce n’erano state, né morti o sangue. Tutto si era concluso in pace, senza schiamazzi, senza violenza. Quindi anche senza carnefici. Ma l’arresto lo aveva ordinato lui. Era la sua missione, dopotutto. Parte della sua missione, almeno. Molta parte dei dettagli gli era ancora oscura, nebbiosa e annebbiata. Avrebbe ricordato col tempo, secondo quel dottore, ma secondo il fu Olaf soltanto alcune cose potevano essere ricordate. Altre no. Perché non puoi certo ricordare cose che non hai mai saputo, giusto? E nella missione, o nel grande disegno in cui la piccola missione si inseriva, tanti erano i dettagli che non gli erano stati comunicati, né prima né dopo. Forse non li avrebbe saputi mai. Forse neppure gli interessava saperli.

Un sergente passava, vide il graduato, salutò con rispetto. Il fu Olaf rispose al saluto. Conosceva il soldato? Probabilmente no. C’erano troppe persone in quella base e mica le potevi conoscere tutte. Se poi avevi trascorso gli ultimi due anni e mezzo come civile, sotto falsa identità e con una ancora più falsa personalità innestata nel cervello, anche le persone che un tempo avevi conosciuto potevi oggi non riconoscerle più, o non ricordarle più. Era brutto, ma era parte del lavoro.

Il sole guadagnò qualche altra posizione tra le nubi, rivendicando un più ampio spazio vitale per sé e per le sue truppe. L’odore di terra umida si intensificò, o forse si intensificarono i sensi del fu Olaf e glielo fecero sembrare più forte. Dettagli. Non era un dettaglio che il generale Petkovic lo stesse attendendo, così smise di ammirare il paesaggio e fiutarne gli aromi e si incamminò lungo la strada vagamente gommosa della base, verso il quartiere generale, lo strano edificio che ricordava un poco la sagoma di un vecchio municipio, forse per rafforzare l’illusione cittadina, forse perché qualcuno aveva pensato che sarebbe stata una buona idea. Secondo il modesto parere del fu Olaf, funzionava abbastanza bene, anche se non aveva neppure uno sputo di militaresco.

L’arresto. Secondo il suo calendario interno era trascorso quasi un mese da quel giorno, quando una squadra di militari li aveva fermati nei pressi della base, durante il tentativo stupido e insensato che Bruno (Davide, si chiama Davide, pure la sua identità era falsa) aveva deciso di eseguire. Voleva entrare e cercare i pozzi, lui! O almeno sperava di arrivare il più vicino possibile alla base, prima di essere scacciato come un bambino sorpreso dove non doveva essere. Poi ci scusiamo, ci dispiace, ce ne andiamo subito, tanti saluti, ritorno a Bidonia e il giorno dopo a casa, o a quella che, su Madre, potevano chiamare casa, in mancanza di alternative migliori o di alternativa e basta. Che poi era un alloggio scialbo a Oklahoma City, fra mille e mille altri alloggi scialbi, dove campavano i lavoratori ancora in attesa di stabilità. Quelli come loro, come il loro gruppo.

Ma non era andata così. I militari erano arrivati, sì, ma non li avevano rimproverati, scacciati o altri participi passati innocui e temporanei. I militari erano arrivati e li avevano arrestati, caricati a bordo e portati nella base. Il fu Olaf aveva perso di vista Davide quando li avevano spinti verso le celle, il primo in una direzione e il secondo nell’altra. Era sembrato normale e probabilmente era normale, se trascuravi un piccolo particolare da nulla: gli arrestati erano due, ma il prigioniero uno solo. E il fortunato vincitore di una cella singola con vista sul muro era Davide Kori, pure lui con falso nome e falsa identità, appunto, ma non falsa personalità. Questo probabilmente lo aveva fregato.

Il fu Olaf era nato dalla paranoia di Leonardi e dalla obbedienza servile del generale Petkovic, una coppia di genitori da cui non poteva scaturire nulla di buono. O così la pensavano alcuni, tra cui il comandante in capo Staplewood, ma Staplewood era considerato molle da chi non apparteneva alla sua fazione, per cui nessuno si era premurato di avvertirlo. Quello che non sai non ti fa male e palle varie, ma soprattutto quello che non sai non lo puoi vietare, se non forse a cose fatte, ma a cose fatte è ormai troppo tardi e quindi non ci sono problemi. O, se ci sono, sono problemi altrui e soprattutto sono cazzi altrui, ahaha. E poi c’è il generale Petkovic che ci copre e c’è pure Leonardi, che è quello che comanda davvero. Nessun problema.

Il fu Olaf era stato fatto offrire volontario dal suo superiore. Per parte sua non si era opposto: lavoro facile, non troppo rischioso, magari palloso ma ehi, può valerti una promozione e un trasferimento sulla Terra, via da questo letamaio di pianeta. Chi ci sputa sopra? Il fu Olaf non ci aveva sputato né sopra, né sotto, né accanto. Aveva accettato di offrirsi, gli avevano assegnato un nuovo nome, una nuova identità e soprattutto una nuova personalità che si accordasse al resto. Non più militare, ma un civile qualsiasi, magari un poco stupido, versione riveduta e corretta del gigante buono, classico di mezza letteratura o roba simile. «Ma non ti preoccupare, alla fine ti faremo tornare come prima e non te ne accorgerai neanche. Sarà come mettere o togliere un vestito, te lo assicuriamo.»

Non era stato proprio come un vestito, o almeno non come i vestiti a cui il fu Olaf era abituato, ma nel complesso non avevano mentito troppo. Probabilmente non si sarebbe mai liberato del tutto del russare, quello sembrava difficile da rimuovere, ma per il resto... beh, poteva andare peggio. E non avrebbe più rivisto il pianeta. Doveva trattenersi alla base ancora per un mese circa, per verificare il corretto funzionamento della nuova vecchia personalità originaria, dopodiché lo avrebbe atteso una bella licenza premio sulla Terra, per dargli tutto il tempo di riabituarsi al posto. E sulla Terra sarebbe rimasto, da graduato. La vita sembrava sorridergli.

A volte il fu Olaf percepiva un blando senso di colpa, o almeno una vaga sensazione che si poteva interpretare come senso di colpa, se proprio lo si voleva. Gli succedeva quando pensava a Davide, o Bruno, o quel che era. Erano stati amici e lui lo aveva tradito. Non proprio tradito tradito, vero, e in fondo lo aveva fatto per il suo bene, dove l’aggettivo possessivo era volutamente lasciato ambiguo e si poteva adattare a entrambe le persone coinvolte. Ma anche quel pensiero era soltanto un fantasma della personalità posticcia e sarebbe svanito col tempo. Perché era stato il fu Olaf a diventare amico di Davide; era stato il fu Olaf a trascorrere gli ultimi due anni assieme a lui e al gruppo; era stato il fu Olaf ad avvisare il comando della base, mentre preparava la spedizione al vecchio ascensore; era stato sempre il fu Olaf ad avvisarli di nuovo, quando era chiaro che il compagno voleva scendere e avvicinarsi alla base. Infine, era sempre stato il fu Olaf ad assistere al duplice arresto e a tutte le sue più immediate conseguenze. E il fu Olaf non esisteva più, oggi. Dunque...

Dunque il tenente Peter Sussman, fresco di nomina e un poco rigido nella nuova divisa, raggiunse il quartiere generale, salutò, entrò, salutò di nuovo, salì fino all’ufficio in cui attendeva Petkovic, tra svariati altri saluti al personale di passaggio, a volte di grado inferiore ma più spesso suoi superiori, infine si sistemò in attesa della chiamata. Che venne quasi dieci minuti dopo, per l’occasione con la forma e la faccia di un giovane attendente, o almeno di un attendente giovanile. Era sempre meglio non fidarsi troppo della sola vista, quando si voleva definire l’età di qualcuno: troppo facili ritocchi e correzioni, come lo staff medico gli aveva spiegato per passare il tempo tra un intervento e una visita. Non che la spiegazione fosse davvero necessaria, ma c’era stata e pazienza.

Il generale Demetrios Petkovic, comandante in seconda delle forze armate su Madre e responsabile della sicurezza dei pozzi, sedeva dietro la scrivania in vero legno, sfoggiando quella che forse era la sua migliore espressione di benevolenza, ma che forse riciclava anche per le scoregge meglio uscite. Era di mezza età, per quanto ne sapeva Peter Sussman, e dimostrava tutti i suoi anni, sebbene non si potesse escludere qualche piccolo ritocco qui e qui, in ossequio alla moda e una vaga vanità. Anche in ufficio, anche da solo, era sempre impeccabile nella sua divisa semplice, ma appesantita da varie decorazioni, conquistate chissà quando e chissà perché. Certo non in guerra, perché di guerre non se ne vedevano da decenni; non guerre che richiedano l’uso di un esercito, quantomeno. Oh beh, nulla di importante. Il generale lo aveva convocato e il generale voleva parlargli: al tenente Sussman, il fu Olaf, non interessavano altri dettagli. Gli ordini si ricevono, non si discutono mai. Non a voce e mai al cospetto dell’ordinante.

«Mi fa piacere rivederti così in forma,» cominciò il generale. «La riabilitazione procede bene? Così mi informano i medici, ma preferisco sempre verificare di persona, lo sai.»

Cordialità, chiacchiere di basso calibro. Il tenente Peter Sussman rispose, tutto bene, pronto a ogni comando, qualche ultimo effetto collaterale, o così dicono, ma dovrebbero passare presto, dicono, e come nuovo, sì, attendo la licenza sulla Terra, sarà bello rivederla con la mia personalità, sono stati due anni lunghi, e se poi contiamo anche, ma no, davvero, sono fiero di avere potuto contribuire alla sicurezza e al bene della mia patria, questo e quello, blablabla, pepperepè. Parlarono per un poco di aria fritta, sorridenti e rilassati, recitando un copione che non richiedeva l’intervento attivo di alcun settore del cervello. Inalare, aprire bocca, modulare l’uscita dell’aria, inalare di nuovo e così via, nel simpatico modello di ricorsione noto anche come comunicare o, nel caso specifico, emettere suoni senza curarsi di ascoltarli. C’era un qualche altro motivo dietro la convocazione e sarebbe emerso da solo, prima o poi, relitto organico gonfiato e sospinto verso l’alto dai gas generati dalla propria decomposizione. Attendi e saprai. Forse.

Alla fine Peter seppe. «In relazione all’esito della tua missione,» disse il generale, faccia di colpo seria e un poco grave, da piccolo problema in famiglia, «posso informarti che l’interrogatorio si può ormai definire concluso. Purtroppo non siamo riusciti a scoprire molto, neppure coi nostri mezzi più persuasivi, ma è evidente che l’individuo stesso non sapeva granché. Possedeva giusto la spolverata più lieve di storie in gran parte fallaci e confuse, che questo fantomatico Zeke Boodie gli deve avere rifilato a getto continuo o quasi. Tutto ciò collima col tuo rapporto sugli eventi.»

«Un povero stupido che agiva per sentito dire e non sapeva neppure lui cosa stava facendo. Triste, e un poco deludente,» disse Peter, scuotendo la testa. «Speravo che prima o poi mi avrebbe rivelato qualcosa in più, ma alla fine...»

«Lo so e ne abbiamo già discusso. Abbiamo ritardato il più possibile il nostro intervento proprio per garantirti il tempo di lavorare, come da tua richiesta, ma alla fine ci è risultato evidente che stavamo solo sprecando questo tempo. No, non è questione di informazioni: quelle le abbiamo già trasmesse al nostro distaccamento presso l’Ufficio e saranno loro a occuparsene di persona, o così sostengono. Si vedrà. No, il problema non sono le informazioni. Sono gli oggetti.»

«Oggetti?»

«Oggetti non è probabilmente il termine migliore per descriverli, data la loro natura, ma lascerò agli scienziati le parole giuste. È il loro lavoro, dopotutto, e anche loro sono stati già notificati di tutto ciò che abbiamo trovato sul prigioniero. O, più precisamente, nel prigioniero.»

«Nel prigioniero? Ma...»

Il generale Petkovic glielo spiegò. «Non ne era consapevole neppure lui, per quanto abbiamo potuto appurare, e sai bene che i nostri mezzi sono molto persuasivi, in certe circostanze. No, suppongo sia una sorpresa che il fantomatico Zeke Boodie ha preparato all’insaputa del suo messaggero, se così lo possiamo chiamare. Una sorpresa sgradita, peraltro. Non so come la prenderà l’Ufficio, quando la notizia sarà arrivata a loro. Vorrei che queste comunicazioni fossero più veloci, ma...» E il generale sospirò, di nuovo scuotendo la testa, uomo vinto da forze al di fuori del suo controllo.

Il tenente Peter Sussman non rispose. Qualcosa dentro Davide? O Bruno, a seconda di come volevi chiamarlo. Ma il nome non contava. Avevano trovato un misterioso qualcosa, meglio non chiedersi in che modo, e Petkovic non gli diceva cosa fosse, pur accennandovi vagamente. Forse si aspettava che lui gli avrebbe domandato ulteriori dettagli, o forse dava per scontato che un semplice tenente, per giunta appena promosso, avrebbe tenuto il becco chiuso, niente domande e niente curiosità. Un tempo l’addestramento militare gli avrebbe suggerito quasi come per istinto quale fosse il corretto comportamento da tenere, ma adesso era piuttosto arrugginito e la personalità originaria non si era ancora ripreso il controllo totale. Nel dubbio, però, scelse di tacere.

«Beh, non ha importanza,» riprese il generale. «Sono problemi di cui ci occuperemo noi che siamo di stanza qui su Madre. Tu, che tra poco tornerai sulla Terra in licenza e poi sarai assegnato in pianta stabile in un qualche posto tranquillo laggiù, non avrai nulla di cui preoccuparti, giusto? Sappi solo che al tuo ex amico ed ex collega penseremo noi. O, dovrei dire, ex amico ed ex collega di Olaf, no? Una personalità che ha svolto un ottimo lavoro e adesso si potrà riposare come merita.»

Già, smettendo di esistere, pensò il tenente. Ma era giusto così. Olaf non era mai esistito davvero e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. Lui e Davide, o meglio Bruno, erano scomparsi in qualche modo misterioso, non i primi e neppure gli ultimi nella galassia. Li avrebbero cercati per un poco, forse sul serio o forse solo per pro forma, a seconda di quanto e cosa sapevano le autorità civili, ma alla fine sarebbero stati dichiarati dispersi. La vita nel gruppo di coloni sarebbe continuata senza di loro, con un nuovo responsabile e magari una infornata di novellini per aumentare il numero. Niente di cui preoccuparsi e infatti Peter Sussman non se ne preoccupava. Se ne preoccupava Olaf, o lo spettro che si attardava da qualche parte. Ma sarebbe svanito pure lui. Dichiarato disperso, forse.

Ci furono ancora convenevoli, chiacchiere senza impegno, e così l’incontro terminò, con sollievo e nessun rimpianto. Pro forma anche quello, giusto per ricordare al soldato reduce dalla missione che il comando era consapevole di lui, ne apprezzava l’impegno e in futuro, forse, chissà, avrebbe anche tenuto conto della preparazione e prontezza dimostrata e palle varie. Per cosa? Per qualcosa, che in futuro magari decideremo. In futuro. E di nuovo magari, per carità.

Il tenente Peter Sussman uscì. Il generale Petkovic rimase per qualche secondo a fissare la porta ora chiusa, l’ufficio vuoto, e respirò a fondo. Anche questa era andata. Una rottura di scatole in meno e un peso morto da scaricare altrove. Ottimo. Sussman non era poi una cattiva persona, ma era vuoto, vagamente inutile. Il generale non ricordava come fosse prima della missione, perché non ricordava neppure la sua esistenza, si erano occupati di tutto i suoi sottoposti, che in fondo servivano a questo, no?, ma sospettava che la sua piattezza attuale fosse derivata dal cambio di personalità. Ricordava ancora troppo, però, e bisognava farlo notare ai medici. Dovevano andarci più pesanti con la terapia e la pulizia. E se poi qualcosa andava storto, beh, era un danno accettabile. L’operazione era riuscita bene all’andata e se il processo di ritorno era un poco difettoso, beh, non era un problema suo. Cose che capitano, la via della conoscenza è lastricata di errori, orrori, quello che è.

Il problema suo era il prigioniero. Lui e ciò che aveva dentro.

Che aveva avuto dentro. Avevano rimosso tutto, è ovvio, e per sicurezza avevano ripulito ancora un poco, raschia e risciacqua, giusto perché non si sa mai e tanto era merce di scarto, roba da gettare e saluti a tutti. Ma lo aveva avuto ed era stato sistemato perché cercasse di portarlo nei pozzi. Dunque il famoso Zeke Boodie sapeva dei pozzi. E cosa c’era in fondo ai pozzi. Sapeva o sospettava, da qui la mossa di utilizzare il ragazzino scemo come kamikaze. Tentativo fallito, ma restava il principio.

Al dottor Leonardi non sarebbe piaciuto. Non gli era piaciuto scoprire dove lo avevano catturato (la cattura sì, quella l’aveva apprezzata parecchio, almeno a giudicare dalla risposta) e il resto... beh, il resto lo avrebbe probabilmente fatto esplodere, ahaha. Petkovic avrebbe pure atteso Leonardi prima di interrogare il ragazzino, ma il gran capo aveva annunciato la sua impossibilità a recarsi sul posto. Troppo lontano, non posso spostarmi, non adesso, ci sono problemi da risolvere anche qui, niente di grave, ma richiedono la mia presenza personale e non mi fido a utilizzare copie. Eccetera eccetera. Così lo avevano interrogato loro, da soli. E aveva parlato. C’erano sempre modi per farli parlare ed erano sempre modi legali, almeno finché qualche ficcanaso di organizzazione interplanetaria non ti scopriva a utilizzarli. Niente tortura, per carità, troppo antiquata e inaffidabile. Serve solo a produrre balle, la tortura. Setacciarli in modo più scientifico e quasi medico, invece...

Così avevano ottenuto la storia di Zeke Boodie, capo di una cellula Isolazionista di cui il ragazzino era stato membro. Avevano ottenuto la storia che quello Zeke gli aveva raccontato per convincerlo. Petkovic aveva anche fatto controllare se ci fosse qualcosa di vero nel racconto del soldato punto da un insetto durante la seconda spedizione, più per scrupolo che altro, ed era arrivata la conferma che no, nessun caso registrato. Tutte balle. Ma il ragazzino aveva creduto alle balle e così era partito per Madre, in cerca dei pozzi. Che suo padre aveva visto. Quel padre che non era mai stato su Madre.

Ercole Cori, poi Kori. Aveva inoltrato il nome anche alle banche dati della Terra, ma il risultato era rimasto lo stesso: nessun militare con quel nome, nessun colono con quel nome. Soltanto un tizio di nessun conto, che era partito dalla Terra anni prima sotto la più vaga delle etichette: rappresentante per una compagnia mercantile. Bah! Il ragazzino era un nessuno, figlio di un nessuno, con la testa piena di panzane. Ce n’erano a milioni di individui come lui. Il che era un bene dopotutto: nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. Nessuno lo avrebbe cercato. Sacrificabile.

Pure, Petkovic avrebbe aspettato ancora un poco, tanto per stare sul sicuro. Era sotto chiave, fuori uso e a malapena consapevole di essere ancora in vita. Praticamente una pianta in vaso. Non c’erano problemi e magari, chissà, avrebbe attirato qualcuno. O magari no, ma non era importante. Contava semmai verificare che da nessuna parte dentro di lui rimanesse qualche brutta sorpresa, dopodiché lo avrebbero riciclato. Per modo di dire. Il generale sorrise. Esistevano modi per smaltire i rifiuti di origine organica che nessuno avrebbe mai creduto possibili altrove. E li aveva proprio... a portata di piedi, già. Il ragazzino avrebbe avuto ciò che desiderava, anche se magari non come lo desiderava.

Staplewood avrebbe brontolato. Staplewood brontolava sempre, ormai. Stava invecchiando e non in buona forma, questo era certo, almeno secondo il suo modesto parere. Circa venticinque anni prima, giovani e ambiziosi, erano scesi assieme nei pozzi, col comandante Hass e il Leonardi inscatolato. E il portatore di Leonardi, già, ma quello non contava, semplice omino impiegatizio ormai morto e da nessuno compianto. Petkovic e Staplewood erano stati la scorta armata, i sacrificabili, ma alla fine non erano serviti sacrifici e non c’era stato neppure bisogno di proteggere qualcuno da qualcosa. I boss avevano risolto tutto, da soli e in separata sede, quindi erano riemersi, non proprio allegri e tranquilli, ma... riemersi, sì. Solo questo contava, almeno secondo Petkovic.

C’erano stati cambiamenti, e promozioni. Meritate promozioni. Scendere nei pozzi non era stato poi orrendo, non proprio orrendo, ma neppure una cosa che vorresti ripetere spesso. Petkovic, tanto per cominciare, non l’aveva proprio ripetuta, né spesso né di rado. Gli era bastato un viaggio. Sapeva che Staplewood ci era tornato assieme a Hass, quella volta famosa che la moglie del comandante (ma non era più comandante, a quel punto) era morta, e Petkovic aveva svolto il proprio dovere di portinaio, prima facendoli entrare e poi facendoli uscire, ma quello che era accaduto là sotto non lo voleva sapere, ma grazie lo stesso. Se lo sognava ancora, certe notti, e lui c’era stato una volta sola e quella volta non era successo niente di brutto. Meglio restare in superficie, a controllare gli accessi e proteggere, nascondere, sorvegliare. Se lo godessero altri, il sotto.

Ma era utile, questo sì. Leonardi lo aveva capito subito e alla fine c’era arrivato anche lui, ne aveva visti i lati positivi (ma a distanza, sempre a debita distanza, beninteso). E aveva abbracciato l’idea di Leonardi, proprio come aveva deciso di fare anche la Rossi, il governatore. Staplewood, invece... Il secondo viaggio nei pozzi doveva avergli lasciato qualcosa, qualche brutto regalo, perché da allora era cambiato, proprio come era cambiato Hass, oggi ministro della difesa. Dettagli di poco o nessun interesse. Ma un tempo, su Madre e per Madre, avevano remato tutti nella stessa direzione, come si diceva, e adesso l’armonia si era rotta, fazioni erano emerse, spaccature si erano allargate, eccetera eccetera. I due grandi contendenti erano Leonardi e Hass e gli altri si schieravano chi con uno e chi con l’altro, a seconda dei casi delle convenienze.

Petkovic aveva scelto Leonardi. Il comandante Hass non gli era mai stato particolarmente simpatico e l’ingresso in politica era servito soltanto a peggiorarlo. Un giorno la spaccatura si sarebbe risolta da sola, quando una delle due fazioni principali avesse vinto sull’altra, ma Petkovic non aveva fretta e in fondo era divertente così. Quando lavoravi e vivevi in un mortorio come Madre, qualcosa che ti riempisse la vita serviva sempre. Per molti, quel qualcosa era giocare a scacchi per avere più fondi o una posizione migliore nell’amministrazione locale. C’erano cose peggiori, no?

Sì, c’erano cose peggiori. Tuttavia sarebbe stato meglio che Staplewood non scoprisse mai del suo prigioniero. Poteva avere qualcosa da ridire. E poi il signor comandante in capo delle forze armate sul pianeta non si doveva certo disturbare per cose di così poco conto, no? Cose di così poco conto si dovevano inoltrare direttamente a Leonardi, per informarlo e attendere istruzioni. E chissà, forse alla fine avrebbe deciso di venire di persona a controllare, il caro vecchio. Il generale Petkovic non lo poteva escludere. Era sempre così premuroso nei confronti di Madre, il nostro Leonardi...

Ma l’importante era ricevere al più presto l’ok allo smaltimento. Via il prigioniero via le prove, tutti vissero felici e contenti, nei secoli dei secoli amen. Peccato che le comunicazioni fossero così lente tra Terra e Madre. Con un sospiro, il generale Petkovic si sistemò meglio sulla poltrona.

Assai meno premuroso era il tenente Peter Sussman, mentre tornava al proprio alloggio. Una nuova giornata di test e controlli lo attendeva, per monitorare la progressiva scomparsa (o non scomparsa) delle ultime vestigia della personalità Olaf. Il colloquio col generale non gli era piaciuto, ma non gli piacevano mai molto i colloqui coi superiori, almeno quando non servivano a nulla e non riusciva a capire cosa volessero davvero da lui. Ammesso e non concesso che volessero davvero qualcosa. E il generale era uno di quelli. Peter Sussman lo aveva incontrato solo due volte da quando era riemerso da Olaf e in entrambe le occasioni non gli era piaciuto. Aveva qualcosa di... non proprio viscido, il suo istinto di autoconservazione gli avrebbe impedito anche solo di pensare pensieri simili, specie se rivolti a un superiore così superiore come il vice comandante in capo, tuttavia sì, poteva essere il termine più appropriato per descriverlo. Volendo. A distanza di sicurezza.

Che opinione aveva avuto di Petkovic, prima di diventare Olaf? Aveva avuto una qualche opinione? Probabilmente no. Nulla di preciso e giustificato, quantomeno, perché appartenevano a due mondi e due ranghi così diversi e distanti, che ogni contatto poteva avvenire solo da lontano e per interposta persona, se mai qualche contatto avveniva. Ma aveva ammirato moderatamente il comandante in capo Staplewood, che si diceva avesse raggiunto il vertice partendo dal basso che più basso non si poteva (Peter sospettava che almeno parte della storia fosse leggenda, ma era una bella leggenda e il resto non contava), e negli anni spesi come Olaf i due si erano allontanati sempre più, non proprio in un clima da guerra fredda ma quasi, diciamo semifredda, quasi un sorbetto. E quindi...

Ma quindi cosa? Era qui che cominciava la confusione. Sempre qui. I ricordi e le esperienze di Olaf lo spettro filtravano pian piano nella personalità originale, goccia dopo goccia, e la inquinavano, ne annebbiavano le conclusioni, le riflessioni. Era fastidioso. Passerà, vedrai, è un effetto collaterale di breve durata, temporaneo, niente di serio. Così diceva il dottore. Serio o meno che fosse, c’era e lo infastidiva non poco. Gli complicava la vita, proprio adesso che avrebbe gradito il minor numero di complicazioni possibile, per riadattarsi ai nuovi vecchi ritmi e pensieri. Comunque, il punto era che il generale Petkovic non gli piaceva e sarebbe stato molto contento di tornare sulla Terra e non aver più bisogno di rivedere quel pianeta e chi vi abitava e lavorava.

Anche quel giorno gli esami dissero che tutto procedeva bene, era necessario ancora qualche ciclo di riabilitazione per consolidare la presa della personalità ristabilita e rimuovere gli ultimi residui di Olaf, depurare il cervello dalle scorie accumulate in due anni e mezzo. «È un processo lento, come è facile da intuire, e richiede pazienza,» spiegava il dottore, che di personalità ne aveva sempre avuta una sola. «Puoi immaginarlo un poco come la purificazione di un organismo che è stato sottoposto a tossine per un lungo periodo e adesso le deve smaltire un poco alla volta. Il grosso delle tossine può espellerlo anche subito, magari, ma per il resto, quello che è sceso più in profondità nell’organismo e ha già cominciato ad attecchire, è necessario tempo, pazienza, lavoro. Ma un poco alla volta ce ne libereremo, vedrai. Quando sarà tempo di tornare a casa, l’ospite indesiderato sarà sparito del tutto.»

Peter Sussman se lo augurava, ma non era così ottimista. Non sempre. Lo era quando pensava alla Terra; lo era molto di meno quando pensava al pianeta che aveva sotto ai piedi. Madre. Madre era il problema. Finché rimaneva lì, sospettava che non si sarebbe mai liberato del tutto da Olaf. Parte di quel colono ottuso e amicone sarebbe rimasta dentro di lui, assieme alla vita che aveva vissuto con gli altri. Quindi, meglio andarsene al più presto.

Un paio di giorni dopo discusse della propria teoria in mensa con Florian Holk, con cui aveva fatto amicizia durante la riabilitazione o, più precisamente, con cui aveva parlato più volte durante le ore di riabilitazione. In mancanza di meglio, anche un compagno di chiacchierate può fare funzione di amico, se necessario. Holk era un giovane medico specializzando, che faceva tirocinio col dottore che si occupava del caso di Sussman, con una mezza idea di utilizzarlo per qualche pubblicazione, se il boss lo autorizzava. Il dottore boss per adesso non aveva né autorizzato né vietato, così Florian raccoglieva dati, nella speranza di un possibile via libera.

«E secondo te riusciresti a liberarti meglio della personalità falsa, se tu abbandonassi il pianeta a cui la personalità falsa è maggiormente collegata, giusto?» chiese, mentre osservava con sospetto quello che il personale della mensa gli aveva spacciato per carne, ma che in realtà assomigliava a un blob minaccioso di materia forse organica e non del tutto inerte.

«Beh, sì,» rispose Peter Sussman. «Voglio dire, il tempo che ho passato sulla Terra come Olaf è più o meno nullo, solo un paio di mesi, mentre sono rimasto qui su Madre per un paio di anni, in cui ho viaggiato parecchio, fatto amicizia e, beh, sì, diciamo proprio vissuto, non solo occupato un posto.»

«Dovrei rimproverarti per l’uso della prima persona, quando sai bene che non sei stato tu a vivere le esperienze di cui parli. È stato Olaf e Olaf adesso è sparito. Tuttavia sì, capisco cosa intendi e da un certo punto di vista ha un suo senso, ma ancora non disponiamo di dati sufficienti per affermare che, oltre ad avere senso a livello superficiale, sia anche efficace. Il Grande Capo non è convinto e, come sai anche tu, è il Grande Capo quello che decide. Secondo me... sarebbe un esperimento interessante da svolgere, sì. Non che possa farci molto, come sai. Io sono solo il suo schiavetto.»

«Sì, già. Comunque sarò seguito anche sulla Terra, no? Quindi potreste rimpatriarmi subito e non ci pensiamo più. Partire adesso o partire tra un mese, tanto...»

«Ci stai così male qui? Voglio dire, posso capirti se la tua risposta è sì, il posto in sé è una schifezza e sulla Terra ci tornerei di corsa anch’io, soprattutto se avessi prospettive migliori.»

«Non è che ci sto proprio così male io; è che ci sta, o ci stava bene Olaf e...»

«E finché rimani qui non se ne vuole andare, già. Beh, proverò ad accennare al Capo che accelerare il tuo rimpatrio potrebbe giovare alla tua causa, come si dice, ma non garantisco nulla. Il tuo caso è piuttosto interessante, dopotutto, perché con te è stata sperimentata una nuova tecnica per sostituire la personalità. O almeno una tecnica che era nuova tre anni fa, ma che adesso ha perso un poco del suo fascino. Non te ne dovrei parlare, ma qualche incidente c’è stato, insomma, niente di grave o di serio, sia chiaro, ma... problemi, sì. È anche per questo che il Capo vuole tenerti ancora un poco qui sotto osservazione, prima di spedirti a casa. Per sicurezza.»

«Sua o mia?»

«Come?»

«Intendo, per sicurezza sua o mia?»

«Ma tua, naturalmente,» mentì Florian Holk. «Sulla Terra troverai personale medico più qualificato, è vero, ma lo scambio iniziale è stato svolto proprio qui, e i medici qui ti conoscono meglio. È solo per questo che puntano un poco i piedi, quando parli di voler tornare sulla Terra subito. Questo e, sì, ok, diciamolo pure, un po’ di invidia professionale. Ma solo un poco, eh.»

Peter Sussman storse un angolo della bocca in quello che poteva sembrare un mezzo sorriso, se così lo volevi interpretare. Dunque non si sarebbe mosso dalla base per tutto il mese che restava. Oh, sì, si sarebbe discusso di rimandarlo sulla Terra in anticipo, ma, deve capire, ci sono priorità, è tutto per il suo bene, vogliamo essere certi che non ci siano crisi, perché magari, si sa, il viaggio, esperienze della personalità rimossa potrebbero riemergere, farsi sentire, no, guardi, glielo assicuro, è meglio il nostro programma, ancora un mese di controlli e terapia, poi tanti saluti, vedrà. Eccetera eccetera, di promessa in promessa. Solo nei sogni, giusto. Olaf sarebbe riapparso solo nei sogni e anche da lì lo si poteva rimuovere, con tempo e pazienza.

«Va bene, ci ho provato,» disse. «Mi toccherà restare qui proprio fino alla fine, eh? Niente vacanza in anticipo, purtroppo. Oh beh, c’è di peggio, giusto?»

«C’è di peggio, c’è di peggio,» sorrise Florian Holk. «La roba che ci fanno mangiare, per esempio.»

Il tenente Peter Sussman si arrese. Quella notte sognò per la prima volta da quasi due settimane una scena della vacanza a Bidonia. C’erano persone di cui non ricordava i nomi, ma le facce sì, le facce e le voci. Chiamavano Olaf, parlavano a Olaf, erano amici di Olaf. E c’era anche il tizio che aveva fatto arrestare al termine della missione. Come si chiamava? Non lo ricordava. Sapeva di avere fatto arrestare qualcuno, conosceva il risultato della missione, ricordava il prima della missione, ciò che gli avevano raccontato prima di innestare la nuova personalità e spedirlo sulla Terra, dove si sarebbe imbarcato come colono per tornare su Madre. Il resto era un buco, un oceano da cui riaffioravano di tanto in tanto schegge di relitti affondati, sempre più di rado, sempre più confusi. Ma non era nulla di importante, non lo riguardava. Era la storia di Olaf e Olaf non esisteva più, non era mai esistito.

Pure, come sarebbe stato bello essere di nuovo sulla Terra, lontano da tutto!

Una settimana dopo il tenente Peter Sussman vide un insetto posato sul vetro della sua finestra. Era fuori dalla stanza e sembrava fissarlo. Una specie di tafano, sei paia di ali, due proboscidi e occhi sfaccettati, da mosca. Fissavano. Fissavano. Di insetti così ce n’erano tanti alla base, specie attorno ai parchi e agli alberi. Erano un poco fastidiosi, per la loro mania di fissarti di continuo, quasi come se ti stessero guardando davvero, ma in fondo li potevi ignorare.

Ma quell’insetto aveva significato qualcosa, per Olaf. Durante la sua missione, sì. C’era qualcuno a cui interessavano, chissà perché. La persona che aveva fatto arrestare, forse? E chi era, poi? Era un colono, giovane, nuovo. E aveva un nome. Un nome che Olaf conosceva, ma Peter Sussman no, non più. Sparito, assieme a molto altro. Ed era meglio così. In fondo, che importanza aveva?

Niente di tutto questo era successo a lui. Non davvero.

E quando il tenente Sussman fu infine pronto alla partenza, al termine della lunga riabilitazione, del colono Olaf e della sua vita non restava ormai alcuna traccia, in superficie. Tabula rasa, pulita, che a breve sarebbe stata riempita di nuove esperienze sulla Terra. Fine, stop, niente più pensieri. Adesso era libero. Era una persona piena, completa, compatta.

Senza uno sguardo di rimpianto a ciò che si lasciava alle spalle, il tenente Peter Sussman si imbarcò sull’ascensore militare, prima tappa del lungo, lungo viaggio che lo avrebbe riportato a casa.