Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 81

Col profilo di Lakshmi che si ingrandiva a poco a poco sugli schermi in quell’ultima fase di viaggio che precedeva l’attracco alla stazione, Matteo Kori si sentì per la prima volta rilassato. Rilassato e un poco nostalgico, a volerla dire tutta; e siccome il monologo si svolgeva all’interno del suo cranio, non solo poteva dirla tutta, ma la diceva tutta. Ciò che diceva era: casa, finalmente! Sensazione che non aveva senso ed era scorretta, da un certo punto di vista, perché Lakshmi non era casa sua e non ci assomigliava neppure per sbaglio, ma il pianeta che aveva adesso di fronte e su cui entro breve sarebbe arrivato era pur sempre una faccia familiare, ospitale, rassicurante. Era un posto che faceva funzione di casa, o almeno di quella casa ideale che ognuno si costruisce in testa e che non sempre trova corrispondenza nella realtà reale.

O così le secrezioni ghiandolari comunemente note come emozioni lo invitavano a pensare, al caldo di una stretta cabina della nave e con le spiacevoli esperienze di Laozi lasciate ormai alle spalle e, si poteva almeno sperare, destinate a riemergere soltanto nei sogni più sgradevoli, meglio ancora se di rado e in un futuro distante. E non importa se anche su Lakshmi non è che tutto andasse bene per lui e i problemi mancassero: li poteva provvisoriamente dimenticare, nella soddisfazione animalesca di averla scampata per vedere un nuovo giorno. Il pianeta che li attendeva era un asilo, secondo la definizione di Chakra, e ben venga l’asilo, adesso! Molto meglio di certe alternative.

«Vuoi continuare a fissare lo schermo fino a che non ci avrai scavato un buco con gli occhi?»

Matteo si girò. Chakra, ovviamente: sulla soglia, braccia incrociate ed espressione da schiaffi, con la maglietta che aveva comprato come souvenir alla stazione orbitale di Laozi, giusto ad aggiungere un tocco di surrealismo alla scena. Maglietta turistica, con motto turistico e colori che soltanto una forma di vita sotto i sei anni di età poteva trovare gradevoli, oppure qualcuno che viveva in luoghi assai nebbiosi e avvertiva un forte bisogno di reclamizzare la propria presenza ai lati della strada. Laozi, un posto che non dimenticherai. Poco ma sicuro, hah!

«Continuo a fissare lo schermo perché tanto non è che ci sia molto altro da fare,» gli rispose Matteo. «Ci sono altre due ore prima dell’arrivo, no?»

«Due ore circa, sì. Nessuna legge galattica ti impone però di trascorrerle lì davanti, lo sai? Vero, non è che la nave offra molti svaghi, ci siamo dovuti accontentare della prima cosa che abbiamo trovato e il lusso, beh, non era proprio una priorità, ma non è un mortorio completo.»

«Credo che resterò qui. Mi sento meglio.»

Chakra scrollò le spalle e se ne andò, dopo qualche ultima chiacchiera. Matteo tornò a guardare lo schermo, giusto per avere qualcosa su cui lasciar riposare gli occhi, mentre il cervello si dedicava ai fatti propri. Che, nello specifico, significava ritornare ancora, e ancora, e ancora alla fine della loro permanenza su Laozi. La fuga, se così la volevi chiamare, anche se di fatto non è che fosse stata poi quel granché di fuga. Per cominciare, nessuno li aveva inseguiti. Probabilmente. Andrea Fartswell la pensava altrimenti, ma eventuali e ipotetici pseudoinseguitori metafisici non erano certo il genere di cose a cui Matteo desiderasse pensare, così non ci pensava. Nessuno li aveva inseguiti, nessuno li aveva fermati, Laozi era svanito alle loro spalle, come un peto in mezzo alla folla. E basta.

Ma li avevano fissati, altroché se li avevano fissati. Non un solo momento in cui almeno un paio di occhi non fosse rivolto verso il trio di fuggiaschi. Durante i tempi morti nelle stazioni e nei luoghi di cambio, durante il viaggio su questo o quel mezzo, durante il pasto (disgustoso) in quel locale dal cibo che potevi solo descrivere come tanto, maledetto e sacrificabile. Bolle di paranoia suggerivano che qualcuno li fissasse anche in bagno, ma era palesemente falso, giusto? Falso o meno, gli abitanti di Laozi li avevano fissati per tutto il tempo, come se fossero fenomeni da baraccone, strani mostri con quattro teste e cinque braccia, o giù di lì. Irritante. Snervante.

Non che avessero perduto la loro innaturale cortesia eterna, beninteso, ma vi avevano aggiunto quel tocco di sguardo rettileo che l’aveva resa ancora più orrenda, almeno nella percezione di Matteo. E non solo nella sua, perché anche Chakra aveva evitato le sue solite battute e i suoi sorrisetti da lanci di pietre, mentre Andrea Fartswell era rimasta zitta quasi tutto il tempo, sguardo fermo sulla punta delle proprie scarpe. E i laoziti fissavano, seri, senza parlare.

Matteo era certo che qualcuno li avrebbe fermati. Magari prima di entrare nell’ascensore, o magari all’arrivo sulla stazione orbitale, se proprio volevano essere sadici fino in fondo. Era ovvio che non li avrebbero lasciati andare, no? Quello stupido di Chakra era entrato illegalmente nella sede dello studio legale presso cui aveva lavorato, aveva rubato una copia di documenti segreti o quel cavolo che erano e adesso cercava di portarli su un altro pianeta. Cos’altro ti potevi aspettare? Ma c’erano stati solo sguardi, dall’inizio alla fine: sguardi e niente altro. Avevano avuto persino il tempo di fare invertire le operazioni a cui si erano dovuti sottoporre all’arrivo sul pianeta, con tanto di anestesia locale, e nessuno ne aveva approfittato per immobilizzarli, danneggiarli o altro.

Da un certo punto di vista, era stata una delusione. Quando quello stupido di Chakra gli aveva per la prima volta descritto il progetto di furto con fuga, Matteo si era aspettato qualcosa di avventuroso e rocambolesco, sequenze di corse mozzafiato con agenti segreti alle spalle, necessità di travestirsi in un bagno pubblico della stazione, mezzi di trasporto bloccati dai freni di emergenza con rottura dei finestrini e salto nel buio per sottrarsi alla cattura, eccetera eccetera. Non che sarebbe sopravvissuto due minuti a un’avventura simile, d’accordo; possedeva le doti atletiche di un gatto di marmo ed era pronto e attento come un cadavere, ma questo era un altro discorso. Doveva succedere qualcosa che fosse anche solo vagamente letterario o cinematografico. Era il minimo che ti potessi aspettare da una fuga. Non un viaggio tranquillo ma snervante, in mezzo a gente che ti fissava come gufi.

Pure, era andata proprio così. Avevano raggiunto senza problemi la città ai piedi dell’ascensore, poi erano saliti fino alla stazione orbitale, svolto tutte le varie pratiche burocratiche e non, inclusa anche l’operazione di cui si diceva, infine si erano imbarcati sulla nave che li avrebbe portati a Lakshmi e la nave stessa era partita in perfetto orario, tutto regolare, tutto tranquillo, come turisti che, dopo una vacanza più o meno piacevole, se ne tornano a casa carichi di bagagli e souvenirs.

Ma non doveva andare così. Non poteva andare così. Almeno secondo il modesto parere di Matteo e le aspettative ingenerate in lui da anni e anni di letture. Lo aveva fatto notare anche a Chakra, ma lui aveva scosso le spalle e replicato con un «Tanto meglio così, no?», e la risposta di Andrea Fartswell, imbarcata assieme a loro, aveva seguito grossomodo lo stesso copione.

«O li abbiamo sopravvalutati noi, o ci hanno sottovalutato loro, oppure quello che il tuo amico si è rubato non era poi così importante per Laozi.»

«Ma non erano questi documenti segreti su un processo che, non so, loro volevano tenere nascosto e insabbiare tutto perché, boh, qualcosa che non si deve sapere?» aveva chiesto Matteo.

«Non lo so, mai visti di persona e mai mi sono interessata al caso. Io sono specializzata in un altro campo. Dovresti chiedere al tuo amico, ammesso che lo sappia davvero.»

Ma Chakra non aveva parlato, tutto perso com’era nella contemplazione della refurtiva o, per essere più precisi, nella non contemplazione della refurtiva. «Sono protetti e criptati, ovviamente, e proprio come mi aspettavo. Questo vuol dire che è roba importante, capisci? Ma li sistemerò io, una volta a casa. Conosco la gente giusta per questi lavori, lo sai.»

Matteo non sapeva, ma non aveva indagato. Non che gli fregasse qualcosa, dopotutto. L’importante per lui era che Laozi fosse rimasto alle loro spalle e poco ma sicuro non ci sarebbe mai tornato. Non aveva ancora deciso cosa fare della propria vita, ok, ma Lakshmi rappresentava un buon inizio e gli avrebbe concesso tutto il tempo che serviva per pensarci sopra, sotto e anche ai lati. Il viaggio passò tra chiacchierate e altro, con qualche vago abbozzo di progetti per il futuro, almeno a breve termine e per chi effettivamente aveva qualcosa da progettare. Andrea non rimpiangeva di aver abbandonato la vita su Laozi, o così sosteneva: neppure lei aveva deciso che fare dopo, ma progettava di fermarsi per un breve periodo a Mathurnath, ai piedi dell’ascensore.

«È il genere di città in cui circolano più notizie, sai, ed è un posto buono come un altro e migliore di parecchi in cui accamparsi per un poco a fiutare il vento. Ma non resterò su Lakshmi, non è il posto che fa per me. Come pianeta, intendo, e come società. Ho sperimentato Laozi e, guarda, ti assicuro che di controlli stretti non ne voglio più. Cercherò un pianeta più normale, magari Svarga, o Indra, o qualcosa del genere. Sono avvocato, dopotutto, e un lavoro sono convinta di poterlo trovare o anche costruire più o meno ovunque nella nostra galassia. Siamo sempre richiesti.»

Se lo diceva lei... Matteo non aveva la minima idea, e neanche la massima idea di come funzionasse il mercato del lavoro galattico per avvocati e affini, ma Andrea sembrava una persona sensata ed era certo che se la sarebbe cavata meglio di lui, che non sapeva neppure da che parte girarsi. Chakra gli aveva anche spiegato che sì, in effetti col suo curriculum e le sue competenze la Fartswell si poteva aspettare di trovare impiego ovunque, specie se era disposta a spalare anche un poco di immondizia di tanto in tanto, per cui non si doveva preoccupare. Matteo non si era preoccupato.

Si preoccupava maggiormente per se stesso, semmai, adesso che Lakshmi distava solo una manciata di minuti e la stazione era definita quasi in ogni dettaglio sullo schermo. Tornava a casa, o in ciò che per lui poteva fare funzione di casa in assenza di una casa reale. Perché una casa reale non l’aveva, non sulla Terra né altrove. Brutta storia, sì. Pure, c’erano storie peggiori e almeno su Lakshmi non si doveva preoccupare di morire di fame o altro. Era un asilo, come diceva Chakra, con le maestre che controllano ogni tuo movimento ma, e su questo punto era bene soffermarsi, era un asilo in cui tutti si prendevano cura di te. O, se non tutti, almeno la società nel complesso.

Sì, avrebbe proseguito gli studi, anche se la laurea in letteratura dei mondi coloniali gli suonava più che mai inutile e ridicola, adesso, ma poteva sempre cambiare argomento. Poteva studiare qualsiasi cosa, utile o meno che fosse: aveva incontrato argomenti piuttosto interessanti in viaggio, o che a lui erano sembrati interessanti. Li poteva approfondire. Poteva approfondirne altri cinquecento, poteva prendersi anche una terza o quarta laurea in scaccologia anaerobica astrale, se proprio gliene veniva voglia. Perché no? Poteva accettare la vita da eterno bambino che Lakshmi gli offriva, fregarsene di tutto il resto e... vivere, sì. Non una scelta eroica, adulta o matura, è vero, ma una scelta nondimeno. E fanculo tutto il resto. Vivere per vivere, non per realizzare qualcosa, conquistare qualcos’altro e palle varie. Ambizioni e altra aria fritta non erano la strada per lui e lui non era la persona per quella strada. Giusto. Ottimo. Bene, bravi, bis.

Ovviamente nulla sarebbe andato secondo il suo non eroico programma, ma questo Matteo ancora non lo sapeva e non sapere qualcosa è spesso una benedizione, anche se lo scopri solo a posteriori.

Il viaggio finì sulla stazione orbitale. I tre fuggiaschi di Laozi scesero, si sottoposero di nuovo alla solita trafila burocratica e medica che accompagnava ogni arrivo su ogni pianeta, tra vaccini e altre purificazioni assortite, parlottarono un poco, scambiarono chiacchiere non impegnative con qualche altro viaggiatore, Chakra si concesse una lunga conversazione con una coppia di mezza età sul tema sempreverde del “come dovrebbero funzionare le cose secondo me”, deridendo e ridicolizzando con mascherata cautela le posizioni espresse dagli interlocutori («Ma piano, così non se ne accorgono,» come spiegò poi a Matteo) e tutto si concluse prima sull’ascensore e poi sulla superficie del pianeta, a distanza di giorni. Erano arrivati.

Ed erano anche estremamente sudati, dopo il passaggio da una cabina climatizzata all’aria aperta e soprattutto equatoriale di Mathurnath. Doveva essere primavera, in teoria cominciata da poco, ma il ciclo delle stagioni non contava poi molto quando ti trovavi all’equatore. Contava ancora di meno in un pianeta mediamente caldo come Lakshmi. «Rieccoci a casa, in pentola,» commentò Chakra, con una pacca sulla schiena del boccheggiante Matteo. «Qui il Muro non finisce mai, eh?»

Matteo si avvalse della facoltà di non rispondere. Il Muro, già: il periodo più caldo della calda estate lakshmita, in cui uscire all’aperto nel primo pomeriggio era un guanto di sfida gettato in faccia tanto al Fato quanto al proprio apparato cardiorespiratorio. Se n’era quasi dimenticato. Avrebbe preferito non ricordarlo ancora per un poco, ma grazie lo stesso.

«Fa sempre così caldo dalle vostre parti?» chiese Andrea Fartswell, asciugandosi la faccia con una qualche spugnetta idratante pescata dagli abissi della propria borsa.

«No, non ti preoccupare. A volte è peggio,» sorrise Chakra. «Ma questo ti stimolerà a cercare al più presto un nuovo lavoro, giusto? O un nuovo pianeta, magari.»

Si rifugiarono in uno dei tanti locali della città per scambiarsi le ultime battute di pessimo gusto (di Chakra), saluti e raccomandazioni varie, più qualche ricordo della fuga da Laozi, che cominciava ad acquisire già la giusta patina di nostalgia e nebbia quasi eroica. Un’avventura, ma soprattutto una di quelle avventure ormai concluse e concluse bene, in apparenza senza danni, a parte la decisione di emigrare (necessità, in effetti, ma trasformarla in decisione suonava meglio, specie per l’autostima) e ok, occhiate strane dai passati, ma le occhiate strane ti arrivano sempre, qualunque sia il mondo.

Si salutarono dopo il pranzo, Andrea Fartswell per trovare alloggio e sistemazione temporanea per il proprio bagagliaio, Matteo e Chakra per un nuovo, breve viaggio da Mathurnath a Varshi, città dove studiavano e soprattutto facevano altre cose. Sembrava un secolo da quando avevano percorso quel tratto in senso opposto, per il loro fantomatico ano sabbatico, e invece era appunto un anno. Circa.

«Anno di Lakshmi, beninteso, che è più breve dell’anno terrestre, ma più lungo dell’anno laozita,» si divertì a spiegare Chakra, incurante del fatto che il compagno fosse appisolato e quindi non nella condizione migliore per gustarsi il suo sfoggio di erudizione astronomica. «L’anno di Rudra invece è un poco più lungo, più anche del vostro anno terrestre, per cui se ti è sembrato di rimanerci per più tempo, beh, magari è vero. Percezione soggettiva e misurazione oggettiva sono tutto un casino, se ci tiri dentro calendari, orologi e roba simile. Lo sai, no?»

Ma Matteo dormiva e così Chakra si arrese. Si intrattenne invece coi propri documenti trafugati e il sogno, più realtà che miraggio, di contattare un paio di quasi colleghi che conosceva lui, per farseli decriptare. Non ci sarebbe voluto molto, ne era pressoché sicuro. Sbagliava, ma l’errore gli sarebbe arrivato in faccia soltanto in seguito, in un’altra stagione, e quello che ancora non sai non fa ancora male, giusto? Chakra probabilmente non avrebbe concordato, ma appunto non lo sapeva. E dunque.

Raggiunsero Varshi al tramonto, quando il satellite maggiore Uma era un fantasma dimenticato sul basso orizzonte e il sole tingeva di luce vagamente dorata i tetti tondeggianti degli edifici. Fontane cantavano a modo loro, o almeno emettevano le solite note di musica locale che, alle orecchie di un ascoltatore generoso o amante della cultura del posto, potevano sembrare canzoni. A Matteo, che si era svegliato da poco, sembravano gatti torturati con una grattugia arrugginita. Non aveva dormito molto bene. Nonostante tutto... casa. Il profilo di Varshi, all’uscita della stazione, gli parlava di casa.

In realtà gli parlava di una idea molto idealizzata e utopistica di casa, perché quella reale, dove per anni aveva vissuto assieme alla madre e al fratello, era un appartamento stretto e scalcagnato, fatto di pareti macchiate di umidità, ragnatele negli angoli più remoti, un riscaldamento che ti riscaldava solo con la fantasia, scarichi spesso intasati e piatti spesso sbeccati, le poche volte che sua madre si metteva in testa di cucinare. Paragonarla a una città pulita e artistica come Varshi gli sembrava una offesa per la città, nel migliore dei casi, e un reato passabile di querela istantanea nel peggiore, ma il principio era lo stesso: si sentiva a casa.

Era quasi buffo ripensare oggi a come fosse stato il suo primo incontro con Varshi, tre anni prima, al suo arrivo sul pianeta. Allora lo accompagnava Bogdan Stratos, con cui aveva viaggiato dalla Terra, e la vita universitaria era per lui un animale ignoto, in parte spaventoso e in parte affascinante. Cosa vi avrebbe trovato? Che gente vi avrebbe incontrato? Ed era tutto così diverso, così strano e alieno, se lo paragonava alla sua unica esperienza in un buco periferico della Terra. Pure, adesso la vista di Varshi gli parlava di casa, come si diceva, ed era la Terra ad apparirgli come luogo remoto e strano, quasi alieno. Sì, lo poteva considerare un segno: stabilirsi definitivamente su Lakshmi e mandare al diavolo il resto della galassia era la decisione giusta. Non potevano esserci dubbi.

Il problema dei segni è che possono essere qualsiasi cosa e segnare qualsiasi cosa tu voglia in quella particolare circostanza. Due minuti dopo, quegli stessi segni possono segnare una cosa diversa, se la tua prospettiva si è nel frattempo modificata. Nel caso di Matteo, la modifica alla sua prospettiva si sarebbe verificata dopo cena, cioè qualche ora più tardi: nel mentre, poteva così gustarsi tutte le più variegate e poetiche sensazioni di appartenenza e ritorno a casa dopo mille pericoli e roba simile.

O almeno lo poté fare fino a che Chakra non gli sgomitò la schiena. «Capisco che il tuo microcefalo non si sia ancora svegliato del tutto, ma prima di tornare in coma ti suggerisco di raccogliere tutto e darti una mossa, che prima arriviamo all’alloggio e prima ci riposeremo decentemente. Sarai pure stanco tu, che hai dormito fino ad adesso, ma ti garantisco che io lo sono molto di più. E, se non ti dispiace, avrei anche una discreta voglia di fare due chiacchiere col gabinetto.»

Andarono. Anche l’alloggio era così come lo avevano lasciato un anno prima, ossia con calzini e un buon numero di altri capi di abbigliamento sparsi ovunque e in generale la sensazione espressionista di una discarica esplosa con violenza. Immutato era anche il vago odore di cavolo che aleggiava più o meno ovunque, reso ancora più misterioso dal fatto che su Lakshmi non esistessero cavoli terrestri o altri vegetali di aspetto e olezzo simile. Ma era un enigma che Matteo non aveva fretta di risolvere e probabilmente non avrebbe risolto mai: molto meglio accatastare tutto il bagaglio in un angolo e rinviarne l’apertura e sistemazione a data da destinarsi, magari nel prossimo millennio o giù di lì. Al momento aveva soltanto voglia di coricarsi, rilassarsi e... E: la frase poteva concludersi così.

«Non dormire, parassita sociale, che tra poco andremo in mensa.» Chakra aveva scaricato a propria volta il bagaglio in un angolo, per poi sfrecciare verso il bagno. Adesso contemplava le macerie e il resto dell’arredamento con le mani sui fianchi, una espressione di vaga perplessità e il pizzetto che ancora gocciolava un poco, segno forse che si era lavato la faccia o aveva svolto strane attività su cui nessun individuo sano di mente e moralmente integro avrebbe mai desiderato indagare.

«Hai così tanta fame?» chiese Matteo.

«In parte, ma non è questo. Prima ci liberiamo della questione alimentare e meglio è: avremo molto più tempo per riposare, capisci? E senza intervalli.»

Matteo non capiva, stanco e parzialmente assopito com’era, ma si alzò e insieme si avviarono verso la più vicina mensa. Era ben più semplice che discutere, quando di fronte c’era Chakra. Avevano ormai finito il secondo e la conversazione languiva, per non dire che agonizzava nel profondo della più cupa sala di torture mai concepita dalla santa inquisizione, quando una sorpresa non prevista si avvicinò al loro tavolo. Anzi, due sorprese, che naturalmente non potevano certo essere previste, o non sarebbero state sorprese. Fosse come fosse, in quel caso specifico avevano la faccia ma anche le altre parti del corpo di Sharma e Indira. Ed erano seri, tendente al grave. Matteo li vide e gemette.

«Buonasera! Quanti gatti vi sono morti oggi?» li salutò Chakra. Indira gli rivolse uno sguardo che avrebbe fatto schiattare di invidia un basilisco con la luna storta, ma si astenne dal rispondere.

Rispose invece Sharma, con un sorriso serafico e una lieve alzata di spalla (la destra). «Nessun gatto e nessun altro animale, che io sappia. Abbiamo tuttavia notizie da riferirvi che potrebbero non farvi piacere. O almeno, potrebbero non fare piacere a uno di voi.»

«Sono io? Giusto per sapere, così nel caso mi preparo a fuggire all’estero.»

«No, non sono per te, Chakra.»

«E allora riferite pure. Ma prima sedetevi, per favore, che sembrate due lampioni parlanti.»

Sedettero. Matteo salutò, con l’entusiasmo di chi non aspetta più nulla ed è pronto ad abbracciare un albero e lasciarsi morire. Se avevano cattive notizie da portare a loro due, e il diretto interessato non era Chakra, la matematica non gli lasciava molto scampo. Cosa era successo stavolta? Soprattutto, cosa era riuscito a combinare di male, quando non metteva piede sul pianeta da un anno circa? Non che ritrovarsi di fronte Sharma e Indira fosse semplice di per sé, dopo i problemi che c’erano stati o, da una prospettiva differente, dopo i problemi che lui aveva avuto col loro gruppo. E dire che si era quasi illuso di poter scivolare via indolore e inavvertito, come una fuga di gas mentre si dorme...

Ma Sharma lo fissava e la sua faccia sembrava non portare rancore per il litigio che c’era stato e il modo in cui lui se n’era andato sbattendo la porta (virtuale). Quale fosse poi il parere del resto di Sharma era un altro discorso, ma la sua espressione suggeriva che portava cattive notizie (ovvio) e al momento avevano la priorità su ogni altro sentimento personale. Matteo scosse la testa. Di sicuro stava agendo per il suo bene, ovvio.

«Sentiamo, allora. Cosa mi è successo di brutto stavolta? Che reati irresponsabili ho commesso, se non ero neppure sul pianeta? Perché è qualcosa del genere, no?»

«No, testa bacata,» gli rispose Indira. «Il nostro bambino non si è messo nei pasticci per colpa di un mondo cattivo e crudele che ce l’ha con lui. Il nostro bambino ha ricevuto una vista da funzionari di ambasciata, l’ambasciata terrestre, hai presente?, ma il nostro bambino non c’era e così gli hanno, o meglio ci hanno, lasciato un messaggio. Perché Sharma era la tua balia, prima. Hai presente?»

Matteo ignorò sarcasmo, ironia e ogni altro sbeffeggiamento. L’ambasciata terrestre. Dei funzionai dell’ambasciata lo erano venuto a cercare. Di persona, invece di accontentarsi di contattarlo. Come era successo durante la vacanza a Nuova Kalighat. E se poi pensava al perché lo avessero cercato in quella occasione, dedurre o almeno ipotizzare la causa della ricerca attuale diventava semplice. «È Davide, vero? Cosa è successo a mio fratello, stavolta?» chiese, non desiderando davvero di sapere la risposta ma chiedendo lo stesso, perché certe cose le devi fare comunque, che non ti piacciano o che ti disgustino.

Sharma assunse la sua migliore faccia da funerale, che era una faccia davvero cupa e triste. «Non ce lo hanno voluto comunicare, il che del resto mi pare del tutto sensato. Se è una notizia personale, il primo a doverla ricevere sei tu, non certo un tuo amico. O ex amico, come credo che tu lo preferisca intendere oggi,» aggiunse, diventando se possibile ancora più funereo anche come tono di voce.

Matteo si sentì vagamente in colpa. Il che non era giusto, perché sì, ok, lui aveva fatto qualcosa di male, da un certo punto di vista, ma nel caso specifico era Sharma quello dalla parte del torno, no? Era stato lui a sorvegliarlo e spiarlo per il suo bene, no? Perché adesso faceva la vittima? Ma non aveva importanza, al momento. «Non hanno detto proprio niente su Davide? Niente di niente?»

«No, niente di niente e neanche niente di qualcosa,» disse Indira. «Ci hanno chiesto se sapevamo il tuo recapito, dovunque tu fossi al momento, ma noi non lo sapevamo, sapevamo solo che voi due vi eravate andati a divertire in giro per la galassia, per il vostro anno sabbatico.» Occhiata non proprio amichevole rivolta a Chakra, che sorrise in risposta. «Così loro se ne sono tornati a Gayat, credo, o dovunque sia la loro ambasciata, e noi siamo rimasti ad aspettare il vostro arrivo, per avvisarti. Sai, come si fa tra amici, no?»

Matteo sospirò. «E adesso?»

«E adesso contattali, informali che sei tornato, nel caso non lo sappiano già, e loro magari ti diranno cosa sia successo a tuo fratello, oppure torneranno a trovarti, o magari ti inviteranno da loro. Se te ne vogliono parlare di persona, deve essere un genere di cosa che è meglio dire in faccia, invece che in video o con un altro tipo di messaggio. Qualcosa di importante e personale, direi.»

Diceva anche Matteo, ma aggiunse anche “qualcosa di grave”, che Indira aveva preferito lasciare in quel magico spazio del non detto, giusto accanto al sottinteso. E accanto alla verità, quasi di sicuro. Davide doveva avere avuto un problema, un problema serio, di quelli per cui si finisce in galera o in ospedale. O sottoterra in una cassa, a volte, ma era una ipotesi estrema che Matteo preferiva ancora non sfiorare, per scaramanzia se non per vera convinzione. Neanche il tempo di rilassarsi, hah! Era arrivato da un paio di ore a Varshi e subito bam!, un problema sbattuto in faccia. Era davvero molto meglio credere alla casualità del tutto, perché ad ascrivere ogni cosa che accadeva a un qualche tipo di disegno intelligente o di volontà consapevole c’era da esaurire le bestemmie prima ancora di aver mosso un passo fuori dal letto la mattina. Oh beh, tanto non aveva niente da fare, a parte vivere...

«Passatemi l’indirizzo e li contatterò subito. Via il dente via il dolore.»

Ma non ci credeva neppure lui e infatti il dolore non se ne andò. Si aggravò, se possibile. Anche se, a dire il vero, non lo poteva ancora definire dolore, non fuori di metafora. Era preoccupazione, sì, di un tipo blando e strisciante: non aggressivo, non irruento, ma solo una specie di serpente che striscia calmo, silenzioso, e di tanto in tanto solleva la testa, estrae la lingua ad annusare l’aria attorno a sé, a fiutare forse dove andare per causarti il massimo danno. O qualcosa del genere, almeno: ci siamo capiti. Perché il dialogo con l’ambasciata fu breve e durò ancora meno dell’insalata di Chakra.

Ci fu silenzio, accompagnato solo da qualche blando suono di masticazione. «Non mi hanno detto nulla, vogliono vedermi di persona,» fu la risposta di Matteo agli sguardi interrogativi dei compagni di tavolo. «Notizie riservate, dicono. Possono essere comunicate solo di persona, dicono. Una legge sulla privacy o qualcosa del genere. Come se ci fosse una privacy su questo pianeta,» aggiunse.

«Che ci sia o meno su questo pianeta non ha rilevanza,» disse Chakra, con la bocca quasi vuota. «È l’ambasciata terrestre che comunica con un cittadino della Terra, dunque devono seguire e rispettare le leggi della Terra. Funziona così per ogni pianeta, sai? Posso anche citarti la convenzione in cui è stato stabilito, se davvero ti interessa.»

«Non me ne può fregare di meno, ma grazie dell’intervento.»

«Il solito, mai aperto a nuove conoscenze. Dunque adesso ci toccherà ripartire subito per Gayat? Sei proprio una rottura di palle ambulante, tu. Neanche il tempo di disfare i bagagli, davvero.»

«Posso anche andarci da solo. Sono grande e vaccinato, lo sai.»

«No che non puoi. Sei grande e irresponsabile, quindi hai ancora bisogno della balia. È la legge di Lakshmi, lo sai. Quindi, siccome io sono ancora la tua balia ufficiale, dovrò accompagnarti a Gayat e rimanere lì con te per tutto il tempo che spenderai all’ambasciata. Spero sia poco.»

Matteo sospirò. Balia, già. Perché era irresponsabile. Ecco una cosa che non apprezzava di Lakshmi e probabilmente non avrebbe apprezzato mai. Oltre al bizzarro sistema interno di autosorveglianza, ovvio. E oltre ad altre cose che non aveva ancora scoperto, ma che di certo sarebbero spuntate per rovinargli la vita, prima o poi. Oh beh, ogni mondo faceva schifo a modo suo, almeno se per mondo si intendeva la società umana che lo abitava. Il tuo lavoro era scegliere quello che ti offrisse anche i maggiori benefici, accanto allo schifo inevitabile. Lakshmi, per adesso, era ancora in attivo.

«Verremo anche noi,»disse Indira. «O hai qualcosa in contrario?» aggiunse, fissando Matteo.

«Cosa venite a fare? Non vedo perché questo vi dovrebbe riguardare. È mio fratello.»

«Ci riguarda perché, volenti o nolenti, siamo stati coinvolti anche noi in questa storia. I funzionari di ambasciata si sono rivolti a noi, visto che tu eri in giro per la galassia a fare i tuoi porci comodi, e questo ci ha coinvolti, nel caso tu non sappia fare due più due. Abbiamo aspettato il vostro ritorno e abbiamo dovuto controllare di continuo la stazione di Mathurnath, per scoprire dove come e quando vi sareste fatti rivedere su Lakshmi. Non è stato divertente, sai? E adesso vogliamo almeno vedere il finale di questa storia, già che ci hanno tirato in mezzo.»

«Controllato la stazione?»

«Sì, controllato. Come credi che vi abbiamo trovati qui in questa mensa, a quest’ora? E ti assicuro che io avevo cose più divertenti da fare, in questi giorni. Non che ci voglia molto a trovare una cosa più divertente che osservare il traffico in entrata a una stazione orbitale.»

Chakra nel frattempo era passato alla frutta, ma soprattutto si era ritirato in una comoda posizione di spettatore, mentre il quasi diverbio si svolgeva attraverso la tavola. Scambiò una occhiata e mezzo sorriso con Sharma, che scrollò appena le spalle. Lasciamo che se la risolvano loro, diceva: sembra che si divertano così. Tanto il risultato lo conosciamo già, giusto?

E il risultato fu che Matteo cedette, per carenza di punti a cui ribattere, nonché per un vago senso di sfinimento che ricordava da tutte le precedenti, analoghe occasioni, riemerse dagli abissi del tempo attorno a quel tavolino della mensa. O da ciò che avvertiva come abissi del tempo, anche se di fatto si limitavano a un anno e mezzo locale o giù di lì, ma in fondo anche cinque minuti possono essere un abisso, se vissuti con la giusta intensità.

Sarebbero andati a Gayat tutti e quattro, e sarebbero partiti subito, anzi il giorno dopo, perché pure quando l’impazienza è avvertita e giustificata, e Matteo ne avvertiva parecchia al momento, restava comunque uno spazio in cui inserire il mondo reale e le sue distanze, oltre ai necessari preparativi e alla stanchezza di almeno due dei diretti interessati. Anzi, i due diretti interessati, gli unici ad avere ragioni valide e legittime per partire: Matteo atteso all’ambasciata e Chakra la sua balia. Quanto e come fossero interessati direttamente anche Sharma e Indira era una questione del tutto diversa e su cui nessuno, ora come ora, si sentiva in vena o in arteria di discutere.

Parlottarono ancora per un poco, mentre due terminavano la cena e gli altri due stavano a guardare. E gli argomenti inevitabili furono ciò che era successo ai reduci del viaggio, che li aveva portati su Rudra e Laozi, ma anche ciò che era successo nel frattempo su Lakshmi a chi era rimasto indietro. A parere di Matteo, gli eventi lakshmiti si potevano riassumere in una parola: nulla. Se si preferiva poi una espressione più estesa ed eloquente, allora li si poteva anche descrivere come “un bel niente”. Il vecchio X aveva cambiato il piano di studi, Y aveva fallito lo stesso esame due volte di fila, W non sapeva se continuare o passare a un’altra facoltà, questo e quello, su e giù. Chiacchiere, appunto, un cumulo di fatti e fattoidi avvenuti a una persona o all’altra. Potevano formare vite, se li osservavi da una certa distanza e con la mente aperta, ma potevano anche formare fuffa, spuma sparpagliata sulla cresta di onde, forfora umana disseminata tra i capelli o precipitata a ricoprire spalle e impigliarsi in sopracciglia. Matteo si sorprese più assonnato che mai, sentendo senza ascoltare il gregre di ranelle.

E Davide era su Madre, da qualche parte, e qualcosa gli era successo. O aveva combinato qualcosa, o altre variazioni sullo stesso tema. Che cosa? Il funzionario che aveva risposto non gli aveva detto altro. Forse non aveva potuto, come sosteneva Chakra, o forse non aveva voluto. Cambiava poco: il punto era che lui, lui Matteo, non sapeva e non avrebbe saputo fino al giorno seguente, pomeriggio se tutto fosse andato bene, ancora più tardi in caso contrario. Proprio un bel ritorno.

C’erano anche Indira e Sharma a cui pensare, ma al momento non aveva davvero voglia di pensarci. Pure, in parte lo fece lo stesso, perché la mente è una scimmia e si attacca a quello che trova, infila le dita ovunque, fruga, agita, che tu lo voglia o meno. O qualcosa del genere, ci siamo capiti. Aveva creduto di poter scivolare via in silenzio, staccandosi dalla gente con cui aveva speso il primo anno di vita su Lakshmi, come spesso si scivola via dalle persone incontrate qui e là. Poteva pure avere funzionato, forse. Poi ecco che ti spunta un funzionario di ambasciata, che viene a cercarti per darti notizie sul tuo fratellino scemo, disperso chissà dove, e tu non ci sei e gli unici nei paraggi a cui può lasciare un messaggio sono le persone da cui avevi cercato di lasciarti scivolare via. E alla fine te le ritrovi al tavolo, come se niente fosse, come se niente tu avessi deciso.

Il che era in parte vero. Matteo non aveva deciso, non proprio deciso. Si era lasciato scorrere giù per gli scarichi della vita, come un frammento di carta igienica usata, ma alla fine quello scarico aveva deciso di espellerlo al punto di partenza, o abbastanza vicino da non fare alcune differenza concreta, se non dopo un lungo studio al microscopio. Fantastico. Oh beh, era andata così e la sua ricerca del quieto vivere, a ogni costo o quasi, lo spingeva in una direzione soltanto: quella di minor resistenza. Buon viso a cattivo gioco, per usare una frase fatta che fa sempre scena e va sempre di moda.

«A che ora si parte, dunque?» chiese, tanto per ricordare agli altri la propria esistenza.

Sharma sorrise. «Stavo controllando proprio adesso gli orari. Possiamo partire realisticamente verso l’alba, poco dopo le sette, se siamo tutti d’accordo. Questo ci garantirà sia il tempo necessario per i preparativi, sia un arrivo sul posto che ci consenta di essere in ambasciata nel primo pomeriggio.»

«Io mi oppongo,» disse Chakra. «Le sette del mattino sono contrarie alla mia religione. È vietato e peccaminoso avere due ore sette nel corso della stessa giornata.» La sua mozione fu respinta.

Ultime chiacchiere, saluti, rientro in alloggio. Era accaduto tutto così in fretta che Matteo ne doveva ancora digerire la maggior parte, proprio come la cena, che aveva masticato poco, inghiottito molto e da cui non aveva ricavato che il più pallido dei sapori, nonostante le spezie e i condimenti fossero sempre abbondanti nella cucina lakshmita. A volte anche ottimi, ma non necessariamente. Ottima di certo non era la partenza del giorno dopo, né soprattutto i motivi della partenza. E la compagnia? Se ne poteva discutere, ma lui era propenso a votare contro. Pazienza. Pazienza per la partenza e anche partenza con tanta pazienza. O giù di lì.

Il mattino seguente, puntuali e in parte assonnati, i quattro si riunirono in stazione e partirono, di un umore che, anche se non proprio del tutto, si poteva definire almeno in parte come pacifico. Specie per Chakra, che sembrava essere prossimo a sviluppare l’abilità di dormire mentre camminava. E il viaggio a Gayat, ma soprattutto le sue conseguenze, avrebbero assestato a Matteo un altro robusto e vigliacco spintone in piena schiena, per spedirlo fuori strada e, con un poco di fortuna o sfortuna, gli avrebbe anche fatto misurare da vicino la consistenza del suolo su cui precipitava. Tutto questo però non lo sapeva ancora, così in viaggio chiacchierò, scherzò e quasi sorrise.

Poi Gayat gliene tolse la voglia. Decisamente.