Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 87

Non entrammo tutti nella galleria. Fu il Direttore a ordinarlo, ma immagino che il comandante Hass avrebbe deciso la stessa cosa, se ne avesse avuto il tempo. Non lo ebbe. Ma il Direttore era sempre così, durante la spedizione: era una personalità in scatola, chiusa in una valigetta portata in spalla da un dipendente, e non taceva mai. Parlava, parlava, parlava. E ordinava, tutto e a tutti: fai qui, fai là, fai su, fai giù. Fai, fai, fai. Era lui il capo, di fatto. Al comandante non piaceva sempre, ma pure lui doveva obbedire. Il Direttore era il Direttore, e gli altri erano niente o quasi.

Ma entrammo, dicevo. Eravamo in quattro, o cinque, a seconda dei punti di vista. Una personalità in scatola la consideri membro del gruppo? Noi eravamo costretti a farlo, anche se credo che chiunque lo avrebbe scaraventato il più possibile lontano e poi ancora un poco più in là. A guardia del veicolo rimase il capitano, quello che mi aveva aiutato con la sonda: aveva l’ordine di partire subito, se noi non fossimo tornati entro... entro non ricordo quanto. Se non fossimo tornati, punto. Ma tornammo, come puoi vedere anche tu. Era il Direttore che voleva stare sul sicuro, sai. Voleva evitare il bis di quanto successo alla prima spedizione, tutti spariti senza tracce. Ma noi la traccia l’avremmo dovuta lasciare, nel bene o nel male, anche solo per suggerire ai prossimi di non scendere.

La galleria era quella che avevo esplorato in anteprima con la sonda e su cui avevamo ricevuto gli ultimi messaggi dalla spedizione precedente. Io ero l’avanguardia, l’esperto di gallerie e sotterranei, vedi, o forse solo il più sacrificabile, chi lo sa. Così lo vidi per primo e ciò che vidi è più o meno lo stesso mondo in cui tu hai camminato finora: la differenza è che io lo vidi alla luce, tu invece lo hai attraversato al buio. Non ti lasciano certo una torcia, quando ti buttano qui sotto per smaltire la tua esistenza. Noi le torce le avevamo e illuminavano anche troppo. Niente che la sonda non mi avesse già mostrato, almeno all’inizio, ma la sonda usava infrarossi e gli infrarossi di colori te ne mostrano pochi, giusto varie tonalità di grigio. Dal vivo era tutta un’altra cosa.

Più o meno cilindrica, come forse avrai notato anche tu al tatto. No? Beh, ti assicuro che lo è. Non è una curvatura molto accentuata e netta, ma è arrotondata a sufficienza da sembrarlo. Ed è coperta da peluria, o qualcosa che assomiglia abbastanza a uno strato di peli da non fare molta differenza che lo sia o meno. Potrebbe essere uno strano muschio locale, o un lichene, e all’inizio la pensavo così. Dopo averlo toccato e ancora di più dopo avere speso quasi venticinque anni qui sotto, però, non la penso più così. Sono peli. Non te lo posso dimostrare, se vuoi una dimostrazione scientifica, ma lo sono. Lo avrai capito anche tu, no? A forza di starci dentro, dico.

Che la galleria non fosse di formazione naturale lo avrebbe notato chiunque e non ci voleva certo il parere di uno speleologo. Liscia, regolare, niente stalattiti, stalagmiti, o anche solo polvere. Niente roccia scoperta, soprattutto. Ci hai camminato anche tu, ci siamo seduti sopra proprio adesso, così è inutile aggiungere altro, no? Ti è mai sembrato di essere davvero in una galleria fatta di roccia o di un qualche altro materiale inorganico? Naturalmente no, perché non è materiale inorganico. Non lo pensava neppure il Direttore, né lo pensava il comandante, almeno a giudicare da quanto dicevano.

Bioarchitettura, così la chiamava il comandante. Bioarchitettura molto avanzata, aggiungeva. Che è una specie di architettura, ma in cui costruisci non utilizzando legno, pietre, cemento e tutto il solito materiale con cui sono fatte le nostre case e città. È architettura organica, che utilizza materia viva e organica, appunto, per realizzare la struttura di base di un edificio. O qualcosa del genere, a quanto ne ho capito io: non è il mio campo e sono cose che ho sentito anni fa, mentre altri ne parlavano ad altri. Ma secondo il comandante Hass quella struttura sotterranea doveva essere bioarchitettura, cioè il complesso di gallerie, o quello che era, era artificiale ma anche vivente. Almeno in parte vivente. Non una casa costruita, ma una casa cresciuta, giusto per darti una idea.

Sì, non è una bella idea e credo di avere fatto anche io la tua stessa faccia, quando l’ho sentita per la prima volta. Abitare all’interno di un essere vivente non è molto piacevole e non siamo solo noi che la pensiamo così. Non per niente la bioarchitettura è cosa morta, sia sulla Terra che sugli altri mondi coloniali. È stata sperimentata in più occasioni, ma non ha mai attecchito. Oh, magari esiste qualche ricco idiota che si è fatto produrre un piccolo edificio vivente, qualcosa da tenere in giardino giusto per sorprendere gli ospiti, ma niente di più. Non ai miei tempi, almeno, ma immagino che neppure adesso... Ah, capisco. Non ne sai niente, ma non ne avevi mai sentito parlare. Allora immagino che non sia cambiato molto. Secondo il comandante tutto questo mondo sotterraneo è bioarchitettura di origine aliena, prodotta dalla civiltà che si era sviluppata su Madre prima del nostro arrivo. Non so e non sapeva neppure lui perché l’avessero messa in fondo a un pozzo a quasi mille chilometri dalla superficie, ma in fondo non era uno scienziato, no? Era un militare.

Il Direttore aveva una idea diversa. Secondo lui non era un bioedificio enorme o qualcosa di simile. Secondo lui quello che si trovava sotto Madre era un essere vivente: un vero essere vivente, non una struttura che era stata creata o fatta sviluppare da una qualche intelligenza esterna, aliena o meno. Il Direttore pensava a un essere vivente autonomo, forse collegato alla civiltà scomparsa di superficie, forse indipendente da loro, ma sempre e comunque una intelligenza autonoma. Capisci? Secondo il Direttore eravamo scesi all’interno di un essere vivente, di sicuro senziente, forse anche pensante. E lui lo voleva incontrare. Se possedeva una qualche forma di cervello capace di comunicare con noi, lui voleva comunicare. Per questo si era unito alla spedizione di persona, o quanto più possibile lui si potesse unire di persona senza rischiare danni.

Non avrei mai accettato di partire con loro, se lo avessi saputo prima. Se lo avessi saputo prima, me ne sarei rimasto sulla Terra, oppure sarei andato su qualche mondo coloniale, a esplorare grotte vere e proprie, non orrori sotterranei viventi. Ma non l’ho saputo prima. Quali fossero le loro opinioni su ciò che poteva esserci in fondo ai pozzi l’ho scoperto solo dopo esserci sceso in fondo ai pozzi. Era un po’ troppo tardi per farci qualcosa, a quel punto. E infatti non ci ho potuto fare niente.

Ma procedemmo nella galleria, io avanti in silenzio, un soldato a fare da retroguardia e in mezzo il comandante e il Direttore, che parlavano e discutevano di continuo, con le loro ipotesi sul luogo e la sua possibile origine. Niente che ti sarebbe piaciuto ascoltare e niente che io ricordi in dettaglio, con tutto il tempo che è passato, per cui evita pure di chiedere. Non ti saprei rispondere. Comunque sì, è vero: in fondo al pozzo, in fondo a tutti i pozzi, c’era... qualcosa di vivente, mettiamola così. Non so come lo si possa definire, di preciso. Non so neppure se in uno dei nostri linguaggi abbiamo già un termine per definirlo, o se sarà necessario inventarne uno. Potrebbe averci già pensato il Direttore, o uno dei suoi dipendenti. Uno di quelli che sanno cosa ci sia qui sotto. Dubito che siano in molti pure adesso. Non sarebbe nel suo stile, sai. Il suo stile è ordinare, non informare.

Sto divagando? Mi succede di continuo, a quanto pare. Restare per anni qui sotto al buio, da solo, è qualcosa che non deve fare molto bene alla testa. Perdi la capacità di seguire un filo logico, credo, o quello che è. Dicevo del qualcosa di vivente in fondo ai pozzi? Giusto. Sì, guardati pure attorno e lo vedrai anche tu, per quanto si possa vedere. Non sono proprio luminosi i bruchi. In fondo ai pozzi si trova qualcosa di vivo e noi ci siamo dentro. Io ci ho vissuto dentro per anni, e tu... beh, diciamo che ci resterai per un po’. Per quanto? Non ne ho idea, ma di solito non molto. Poi dipende dai punti di vista, chiaro. In un certo senso si potrebbe anche dire che ci resterai per sempre.

Sì, sì e sì. All’interno del pianeta c’è un essere vivente. L’interno del pianeta è un essere vivente. Se vuoi sapere come sia possibile, non chiederlo a me. Ne so quanto te. Ma è così e ripeto: noi ci siamo dentro. Ma torniamo alla storia, ok? Dicevo della galleria in cui procedevamo, io davanti e sì, dietro tutti quanti, hah! Portavamo la luce con noi, ma anche quella non bastava a vederci più di tanto, così si camminava piano, controllando tutto, guardando tutto. Poteva esserci qualsiasi cosa lì, per quanto ne sapevamo. Cosa era successo alla prima spedizione? L’idea era di scoprirlo, possibilmente prima che succedesse anche a noi. E faceva caldo, caldo come lo senti anche tu adesso, ancora più caldo perché eravamo ben vestiti ed equipaggiati. Per ogni evenienza, capisci.

Raggiungemmo il punto in cui cominciavano le chiazze sulla peluria, quelle che la sonda aveva già individuato, anche se dalle sue riprese non si capiva certo il colore. Erano solo variazioni di grigio, te l’ho detto. Come? Non ne avevo parlato? La solitudine fa male davvero, credimi. Comunque sì, il pelo delle gallerie era bianco, in gran parte. Lo è anche adesso, credo. Non che di colore se ne veda molto, al buio, ma la nostra luce diceva che era bianco e questo ci bastava. Almeno all’inizio della galleria. Poi il bianco non era più uniforme e cominciavano ad apparire qui e là alcune chiazze. Non proprio colorate, non esattamente, ma al bianco si era mischiata qualche altra tinta e aveva alterato i suoi contorni. Immagina un lenzuolo, dove in alcuni punti puoi ancora vedere l’alone lasciato dalle macchie passate. Una cosa del genere, ci siamo capiti.

La causa? Non ne ho idea. Il Direttore aveva suggerito una possibile contaminazione batteriologica, portata dalla prima spedizione, o forse era stato il comandante a suggerirlo, non ricordo. Per quanto ne so, poteva anche essere. Se davvero eravamo in qualcosa di vivo, allora quel qualcosa si poteva pure ammalare, no? Ma non credo che fosse una malattia. Non lo credo adesso, dopo gli anni che ho dovuto passare qui sotto. Qui dentro, meglio. Perché... ma lo capirai anche tu, alla fine. Forse.

Continuammo ancora, forse per poco, forse per molto tempo. Difficile da capire allora, ancora più difficile da ricordare oggi. Poi la luce che portavo illuminò tre figure poco più avanti di me e allora ci fermammo. Altroché se ci fermammo: io non sarei andato avanti per primo neppure con un laser puntato alla schiena. Perché erano tre figure umanoidi, anzi umane, completamente nude. E se due non le avevo riconosciute, quella di mezzo la potevo riconoscere anch’io, che pure non l’avevo mai vista di persona. Non dal vivo, almeno. In immagini? Sì, altroché. Era la Salo, la comandante della prima spedizione. O... era quasi la Salo. Lo era abbastanza da farmi fermare.

Cosa intendo? Che il comandante Salo era stata una donna sulla quarantina, nelle immagini che io avevo visto e nelle scene registrate prima della loro partenza. Forse anche qualcosa in più, non sono mai stato molto bravo a giudicare l’età. Una donna adulta, in ogni caso. Matura. Capelli corti, neri, e qualche segno attorno agli occhi, forse non proprio rughe ma giù di lì. Quella che avevo lì davanti nella galleria, invece, era una ragazza che poteva essere appena uscita dalle superiori, forse. Stessi lineamenti, grossomodo, e la somiglianza era ovvia, ma...

Sì, lo so: potevo essermi sbagliato io. Potevo averla confusa. Magari era un’altra persona, simile ma diversa. Quello che ti pare. Ma c’erano anche il Direttore e il comandante e loro avevano conosciuto di persona il comandante Salo, erano stati colleghi, collaboratori, magari anche amici nel caso del nostro comandante. E se loro due erano convinti che fosse proprio lei, come potevo contraddirli? Lo era, da un certo punto di vista. Sempre questo punto di vista, eh? Ma capirai. Diciamo che l’aspetto era il suo, ringiovanito di parecchio, e secondo il comandante Hass anche gli altri due erano membri della prima spedizione, sempre dopo una robusta cura di giovinezza. Li aveva anche chiamato per nome, ma figurati se me li ricordo. Il punto è che li conosceva, li riconosceva.

O credeva di. Sbagliava e sbagliavamo anche noi, ma lo avremmo scoperto più tardi. All’inizio, io pensavo che fossero davvero i dispersi della prima spedizione e forse lo avevano pensato pure i miei compagni. Potevano essere ringiovaniti per un qualsiasi motivo, scientifico o meno. Eravamo in una zona strana, su un pianeta strano: cosa c’è di meglio per immaginarsi l’impossibile? Poi cominciò a parlare, quel comandante Salo, e l’impossibile diventò... beh, diciamo che peggiorò.

Parlava e parlava con una voce umana, ma non parlava da umano. Assomigliava a quei documentari sui primi annunci automatici, hai presente? Di quando erano macchine che ripetevano un messaggio registrato, magari componendolo per completare gli spazi bianchi. Il treno X arriverà all’ora Y sul binario Z. Hai presente? Parlava più o meno così, sistemando i suoni uno accanto all’altro a formare parole e le parole una accanto all’altra a formare frasi. Mentre parlava, i movimenti della sua faccia avevano tutta la naturalezza di una marionetta. Faceva senso. Meglio ancora, faceva schifo.

Cosa ci ha detto? Non ricordo di preciso, ma qualcosa sul fatto che ci stava aspettando da quando i nostri simili erano arrivati o giù di lì. Le risposero il Direttore e il comandante Hass; io ero solo uno spettatore e mi feci da parte il più possibile. Qualunque cosa stesse accadendo, non volevo esserci in mezzo. Non lo volevo neanche per sbaglio, te lo assicuro. Mi avevano portato sul pianeta dicendomi che dovevano esplorare un complesso di grotte e gallerie sotterranee, e io avevo accettato, altroché. Era il mio campo, dopotutto. Ma quello che avevo trovato era parecchi diverso dalle promesse e non volevo averci niente a che fare, io. Per quanto mi riguardava, era una fregatura. Che ci pensassero i direttori e i militari, al resto: era il loro lavoro, non il mio.

Non durò a lungo. Due o tre battute, poi il comandante Salo, o qualunque cosa avesse l’aspetto del comandante Salo, invitò il Direttore e il nostro comandante a seguirla per discutere in separata sede. Non che ci fossero separate sedi, nei dintorni, ma ecco che una grinza su una parete si allarga e via, scopri che non era una grinza ma una specie di orifizio, che adesso si è dilatato. Non una porta, ma proprio un orifizio, che si apre come per una contrazione muscolare. È qualcosa di vivente, capisci? Materia organica e viva, bioarchitettura o quello che è. E poi i nostri la seguono, e spariscono tutti e tre in quel nuovo passaggio appena aperto: il comandante Hass serio, il Direttore chi lo sa, perché era solo una scatoletta in una borsa, ma l’uomo che lo trasportava aveva la faccia di chi ha appena ricevuto prima una brutta notizia, poi un’altra, e un’altra ancora, ed è vicino a un infarto. Restiamo indietro io e un soldato, assieme agli altri due nuovi arrivati.

Dirò una cosa ovvia, ma non è stato bello, te lo assicuro. Essere lì sotto, da soli, assieme a due cosi che assomigliano a esseri umani, ma hanno tutta l’umanità di manichini, può essere considerata una bella esperienza soltanto da qualcuno che ha subito gravi danni al cervello. Almeno secondo me, poi non so. È spiacevole anche adesso, che ormai mi ci dovrei essere abituato, dopo tutto questo tempo. Figurati allora. E poi il caldo, e l’odore nell’aria, e il collo che mi prudeva. Credo che un insetto mi abbia punto, uno di quelli di cui aveva parlato anche la prima spedizione, ma forse era soltanto uno di quei pruriti normali. Perché io non ci sono stato male, quindi forse non era uno di quegli insetti.

Non lo sai? No, immagino di no. Immagino che non ne abbiano parlato molto. L’ultimo messaggio inviato dalla prima spedizione, dal gruppo sceso nel pozzo, accennava anche a uno di loro che si era sentito male dopo che un insetto lo aveva punto. O che qualcosa lo aveva punto. Noi non li abbiamo visti, quegli insetti. Abbiamo visto gli pseudoumani, che erano molto peggio. Te lo assicuro io.

Comunque io e il soldato eravamo lì nella galleria ad aspettare che gli altri tornassero e i due tizi di fronte a noi se ne stavano lì imbambolati, non proprio a farci la guardia, credo, ma... non te lo saprei descrivere bene, davvero. Tutto ciò che facevano era occupare spazio. Neanche si dondolavano sui piedi, come ogni persona normale fa di tanto in tanto, quando è in piedi e si annoia. Non che fossero persone normali. Da quello che ne ho capito io, in tutti questi anni, erano solo prototipi di materiale organico, messi assieme usando i membri della prima spedizione come modello. Esperimenti, se li vuoi chiamare così. Fatti per capire come funzionassero quelle nuove strutture, che si era trovata per le mani di punto in bianco. Li ha presi, li ha smontati, poi li ha rimessi assieme, con qualche ritocco qui e là. Deve essere una specie di gioco, credo, o forse qualcosa di peggio. Non lo voglio sapere.

Di chi sto parlando? No, non sono impazzito. O magari lo sono, sì: trovami qualcosa di normale qui sotto e te lo saprò dire. Io di esempi non ne ho ancora trovati. Ma credevo che tu lo avessi capito, ormai. Mi sbagliavo. Parlo di Madre. Non il pianeta, non esattamente il pianeta, ma quello su cui siamo seduti. Quello in cui siamo seduti. Il qualcosa vivente in fondo ai pozzi. Il qualcosa vivente che costituisce il cuore del pianeta. Madre. Chiamiamola pure così, un nome vale l’altro e un genere vale l’altro. Utilizzare il neutro sarebbe più appropriato, ma chissenefrega. Non è la grammatica il problema. La grammatica non è mai il problema: è solo un vezzo o una mania.

Ci arriveremo dopo, se non continuo a perdermi per strada. È difficile tenere dritto un discorso, se ti capita così di rado di parlare con qualcuno. Qualcuno reale e capace di risponderti, quantomeno. Ma dicevo dell’attesa nella galleria. Credo che siamo rimasti lì parecchio, io e il soldato. Che poi era un ufficiale, non un soldato e basta. Quello che spesso si occupava di gestire i turni di guardia ai pozzi. Alla fine il comandante e il Direttore sono tornati, uscendo da quell’orifizio in cui si erano infilati.

È stata una scena curiosa e ancora ce l’ho davanti agli occhi, in senso figurato. Il comandante Hass che esce pian piano, sbuffando e brontolando, al braccio sinistro la borsa che conteneva il Direttore, mentre con la destra un poco reggeva e un poco trascinava il peso morto del tizio che era incaricato di portare in giro il Direttore. Doveva essere svenuto o qualcosa del genere. Era svenuto, come poi ci spiegò il comandante, ma al momento poteva anche essere morto, con la faccia che aveva.

È un quadretto bizzarro, ma dura poco. L’ufficiale rimasto fuori con me corre subito ad aiutare il comandante, prende il tizio svenuto e se lo carica in spalla. Il Direttore brontola, si lamenta e spara qualche insulto dalla borsa in cui la sua personalità è custodita. Il comandante tace, si asciuga la faccia, sospira. Mi avvicino anch’io, non si sa mai, magari finalmente possiamo uscire da quel posto e, guarda, se è così, ti assicuro che non mi dovranno certo pregare.

È così. Non so di cosa hanno discusso dentro quel passaggio laterale e non lo voglio sapere, anche se col tempo me ne sono fatto una mezza idea. Il comandante dice che il lavoro è concluso e si può ritornare al veicolo. Il Direttore brontola ancora, ma il Direttore brontola sempre e non è una novità. Ci incamminiamo, raggiungiamo il veicolo dove l’ufficiale di guardia ci viene incontro, faccia tutta preoccupata, ma non c’è più niente da preoccuparsi, possiamo risalire, possiamo tornare a vedere il sole. Saliamo a bordo e ripartiamo.

Non ci sono state molte chiacchiere, al ritorno. Qualcosa tra i militari, ma io avevo voglia di parlare tanta quanta ne avevo di tornare qui sotto. Il dipendente del Direttore era ancora svenuto e lo stesso Direttore rimase zitto per la maggior parte del tempo. Nessuno se ne lamentò.

La seconda spedizione finì un paio di giorni dopo, per me. Qualunque cosa fosse successa assieme al manichino che assomigliava al comandante Salo, doveva essere stata importante, perché la sera stessa, riemersi dal pozzo, il Direttore annunciò ufficialmente che sarebbero tornati sulla Terra. Che saremmo tornati sulla Terra. Chi voleva si poteva fermare, altre navi sarebbero arrivate a breve, con nuovi strumenti e nuovo personale sia per gli archeologi che per gli exologi, la guarnigione militare sarebbe stata rafforzata e poi avrebbero cominciato i lavori per la colonizzazione vera e propria. Lui lo annunciò con un bel discorso elaborato, di quelli in cui capisci solo la metà ma sono tutte parole che suonano molto bene, pure e nobili, quindi non c’è problema. Soprattutto, fu la chiusura ufficiale della missione. Tempo di fare i bagagli, per chi voleva tornare a casa.

Alcuni rimasero davvero. Adesso saranno diventati pezzi grossi nel governo della colonia, credo, o almeno pezzi grossi nel loro campo. Buon per loro. Io sono ripartito e non sarei mai più tornato sul pianeta, per quanto mi riguardava. Non volontariamente e non per qualunque ricompensa l’Ufficio mi potesse offrire. È andata proprio così, come vedi. Hah! Ma non è stato un ritorno volontario, te lo posso garantire. Non è una grande consolazione, ma non è stato un ritorno volontario.

Che cosa è successo? È successo che al ritorno sulla Terra mi hanno trasportato in una struttura nei dintorni dell’Ufficio. Una specie di ospedale, credo, o almeno qualcosa di simile. Perché ero stato a contatto con organismi alieni, in fondo al pozzo, ed era necessario un certo periodo di quarantena ed esami vari. Per sicurezza. Ok, niente di strano. C’erano anche altri, come il comandante Hass, e non mi sembrava una sistemazione anormale, anzi. Era comprensibile. Non avevo esperienze di viaggi su mondi ancora da antropizzare e “adattare”, come dicevano loro, ma sembrava una precauzione a modo suo ragionevole. Per evitare infezioni o roba simile. Giusto?

Smise di sembrarlo qualche tempo dopo, quando nella struttura rimasi solo io, in isolamento, e non si parlava mai di dimissioni o altro. Ci vuole tempo, porti pazienza, ancora un poco. Ma intanto il tempo passava e io non uscivo. E mi preoccupavo. Mi arrabbiavo. Un giorno passò a visitarmi pure il Direttore in persona, ultraottantenne e già in parte artificiale. Mi lamentai con lui. Protestai. Gli chiesi spiegazioni. Quanto doveva durare ancora la quarantena? Se mi ero preso una malattia o altro nel pozzo, che almeno me lo dicessero! Non potevano trattenermi così.

Una spiegazione la ebbi. In effetti era stata riscontrata una reazione anormale nel mio organismo, o così disse il Direttore, ed era necessario esaminare e valutare con calma l’andamento delle reazioni agli agenti patogeni, distribuite su un lungo arco di tempo. Era importante per pianificare a dovere il giusto antibiotico che avrebbe risolto il problema e che, magari, si sarebbe dimostrato in futuro una grande risorsa per la colonia terrestre su Madre. Capiva il disagio e comprendeva la frustrazione che provavo, ma purtroppo non c’era altro da fare. Dovevo portare pazienza ancora per un poco.

Tutte balle, capisci, ma suonavano verosimili e io gli credetti. Poi cominciarono a somministrarmi qualcosa nelle bevande, forse il famoso antibiotico di cui aveva parlato il Direttore, e a quel punto io smisi proprio di pensarci. Smisi di pensare. Fu un lungo intervallo di febbre alta, durante il quale ero solo nominalmente connesso alla realtà. Quando ricominciai a capirci qualcosa, ero in viaggio per tornare su Madre, in una cabina piccola ma confortevole. E molto sorvegliata.

Cosa è successo poi? Lo vedi anche tu. Sono finito qui sotto, formalmente col ruolo di ambasciatore terrestre, di fatto con quello di prigioniero dimenticato. Spiegazioni non ne ho avute mai, ma non mi servono neppure. Ci vuole poco a capirlo. Sono l’unico civile ad aver visto cosa ci sia sotto Madre, l’unico che possa farsi una idea su cosa sia successo e magari anche sul perché. Ci sono i militari, è vero, ma loro sono abituati a queste cose e poi, per quanto ne so, gli ufficiali che sono scesi assieme a noi adesso occupano posizioni molto alte e molto remunerate. Sono parti interessate nella gestione della colonia, quindi non daranno problemi. Ci perderebbero e basta, capisci.

Il tizio che aveva trasportato la borsa col Direttore? Morto. Suicidio, ma suicidio vero e pulito, sia chiaro, niente complotto, niente assassinio mascherato. Immagino che sarebbe qui sotto con me, se fosse ancora vivo, ma ha preso l’uscita di sicurezza e ci ha guadagnato. Ci ha guadagnato parecchio.

Così io sono qui, sepolto vivo a mille chilometri sotto la superficie del pianeta, sepolto nel corpo di Madre, a nutrirmi di cose che farai meglio a non scoprire, fino al giorno in cui anche io diventerò un grumo di materiale organico che Madre utilizzerà per i suoi esperimenti. Fantastico, vero?

Quando il vecchio smise di parlare, Davide rimase a fissarlo in silenzio. Non sapeva cosa dire. Non sapeva neppure se ci fosse davvero qualcosa da dire. Gli doveva credere? O erano solo i deliri di un pazzo, una qualche strana razza di eremita galattico, un poco mitomane e un poco paranoico?

La seconda opzione era la più rassicurante, ma la prima suonava reale. Pazza e assurda, ma reale. E, da un certo punto di vista, spiegava una buona parte di tutte le assurdità con cui era stato in contatto, sia in superficie che lì sotto. Le spiegava in una forma che sollevava altre mille domande, ma era un altro paio di maniche. Il punto era decidere come reagire.

«È una storia molto interessante,» disse poi. Si guardò attorno in cerca di ispirazione, ma attorno a loro non c’era granché da vedere, a parte buio, buio e ancora buio. E i vaghi, fiochi aloni di luce qui e là sulle pareti, dove i bruchi si muovevano al loro passo da era geologica. Potevano quasi parere un cielo stellato, se avevi parecchia fantasia e parecchio cattivo gusto. L’aria era calda, umidamente calda, e la pelliccia su cui sedeva non era molto soffice, ma passabile. E c’era silenzio, adesso che il vecchio aveva smesso di parlare. No, non un bel posto.

«È una storia molto interessante,» riprese Davide, sempre a caccia di un modo per finire la frase, un modo che, magari, se possibile, non includesse un “ma” troppo forte o marcato. Non ne trovava.

«Interessante ma? È questo che volevi dire, giusto?» lo aiutò il vecchio. «Se non mi credi dillo pure, non mi offendo. Ho passato così tanto tempo qui sotto da solo che ti sarà facile convincermi che mi sono inventato tutto e sono solo un pazzo. A volte lo penso pure io.»

Rassicurante. Ma tutto il resto poteva attendere, perché aveva una priorità al momento, una che era stata solo accentuata e resa ancora più urgente dalla lunghezza della storia. Davide si alzò. «Ci sono bagni qui sotto?» chiese. «O qualcosa del genere. La tazza non è strettamente necessaria.»

Il vecchio scrollò le spalle. «Falla pure dove vuoi. Prima o poi qualcosa lo farà sparire. È materiale organico, dopotutto. Madre ha sempre un uso per ogni tipo di materiale organico.»

Davide valutò se domandare cosa fosse il qualcosa che avrebbe fatto sparire il materiale organico e che uso ne avrebbe fatto questa ipotetica creatura vivente nascosta all’interno del pianeta, ma le sue priorità erano altre, al momento, e ulteriori discorsi di pazzia o allucinazione potevano attendere. Si allontanò un poco, trovò un angolo sufficientemente riparato e fece ciò che doveva fare senza fretta. Al ritorno stava ancora pensando a cosa fare col vecchio, ma in apparenza non ce n’era bisogno.

Passando vicino a un grappolo di quei bruchi fosforescenti, Davide vide che qualcosa si era posato sul suo avambraccio sinistro: un insetto. Un insetto la cui forma lui conosceva fin troppo bene, per averla sentita descrivere nelle storie di Zeke, ma anche per averla vista di persona durante il viaggio con Olaf verso il vecchio ascensore. Il terribile viaggio con Olaf, una delle idee peggiori che avesse avuto nella sua vita: non perché fosse stato spiacevole il viaggio in sé, ma per le conseguenze.

E l’insetto se ne stava lì, vagamente simile a un tafano molto allungato, sei paia di ali adesso ferme, due serie di occhietti sfaccettati, che parevano luccicare nel bagliore miserabile dei bruchi. E che lo fissavano. Lì sotto, in quel buio perduto chissà dove, proprio come già lo avevano fissato sul sedile del loro veicolo, chissà quanti giorni prima. Il famoso insetto, che trovavi solo attorno all’ascensore vecchio e alla zona della base militare, almeno secondo certi coloni veterani. L’insetto che pareva collegato ai pozzi, in un qualche modo, almeno secondo i balzi logici o illogici di Davide. Allora era vero il racconto del vecchio? Erano realmente in fondo a un pozzo?

Non era un bel pensiero e Davide lo scacciò assieme all’insetto. Raggiunse poi il vecchio, al secolo Laurent Karlsson, si sedette di nuovo di fronte a lui e riprese a parlare, più sicuro. Adesso aveva una cosa reale e concreta da discutere, invece di ricordi fumosi della leggendaria seconda spedizione: gli descrisse l’ospite indesiderato che si era trovato sul braccio, gli spiegò di come lo avesse già visto in precedenza, o almeno di come avesse già visto un esemplare simile, per poi concludere col racconto di Zeke. Non sapeva bene neppure lui perché stesse spiegando ogni cosa a quel tizio, ma lo faceva lo stesso. Era un dato concreto a cui attaccarsi, per rinviare i pensieri di tutto il resto.

Laurent Karlsson alzò le spalle. «Mai sentito di soldati punti, almeno non mentre io ero di sopra. Se è successo e hanno insabbiato tutto, non lo so. Mai sentito neanche il nome di quelle persone che tu dici erano con noi, ma coi soldati non ho mai parlato molto. Società diverse, interessi diversi. A me non fregava nulla di loro e a loro non fregava nulla di me. Succede, sai.»

«Ah. E l’insetto?»

Altra scrollata di spalle. «C’è pieno di insetti, qui sotto. O cose che possiamo chiamare insetti. Non so se lo siano davvero, non sono un entomologo o un exologo. Assomigliano a quelli che noi siamo soliti chiamare insetti, sembrano occupare più o meno lo stesso spazio che sulla Terra occupano gli insetti, quindi definiamoli pure insetti, no? Un nome vale l’altro. Comunque sì, ci sono anche quei tafani, come li chiami tu. Li trovi più spesso vicino ai pozzi, ma non so cosa facciano.»

«Pungono, ecco cosa fanno. O mordono.»

Laurent Karlsson emise un suono che poteva forse essere considerato come una lieve risata. «Non li chiamerei così, non morsi. Assaggi, semmai. Forse prelevano campioni da portare a Madre, o forse chi lo sa. Assaggiare te però non serve più, visto che ormai sei qui.»

«Scusa, ma non ti seguo.»

Il vecchio sospirò. «Appartieni a Madre, ormai. Non te l’ho già detto? Credo di sì, ma forse sbaglio. Comunque i militari ti hanno scaricato qui sotto come materiale organico da smaltire; Madre poi ti preleverà e ti assimilerà. Questo te l’ho detto, sì. Quando c’è materiale organico in giro, prima o poi qualcosa lo fa sparire. È un modo per fare pulizia e riciclare. Un modo molto efficiente.»

«Quindi secondo te questa fantomatica Madre manderebbe qui qualche... creatura o roba simile per prelevarmi e portarmi da qualche parte dove mi assimilerà, giusto?» Davide sbuffò. «Vedremo.»

«Oh sì, lo vedrai di sicuro. E lo sentirai, anche.» Altro sospiro. «Ragazzo, sei già dentro Madre, lo capisci? Tutto quello che vedi, tutto quello che tocchi è Madre. Pensala come una creatura enorme, annidata dentro al pianeta. È più facile così e spesso lo faccio anch’io. Tu sei stato buttato dentro il suo corpo e presto o tardi ti digerirà. Diventerai... parte di tutto questo,» concluse, allargando le sue braccia a includere in un arco ogni cosa attorno a loro.

Di nuovo quella storia. Assurda, ovvio, e folle. Eppure. Eppure possedeva una sua plausibilità, ecco il problema. Il suolo sotto di lui era soffice, caldo, e aveva una consistenza che sì, se tu accettavi di entrare nella prospettiva del vecchio, poteva ricordare un corpo animale. Aggiungi poi la pelliccia di cui era ricoperta ogni cosa, aggiungi l’odore, aggiungi la sensazione piuttosto schifida di toccare un essere vivente, se allungava la mano verso una parete. Aggiungi pure molti altri dettagli, già che sei nelle spese, e il risultato finale era plausibile. Realistico. Se accettavi di entrare nella prospettiva di un pazzo, però, qualsiasi pazzia diventa reale e realistica, anche allucinazioni su complotti rettiliani per dominare l’universo, grandi vecchi illuminati che controllano i destini del mondo sedendo sulla poltrona ad accarezzare gatti bianchi, divinità barbute che vivono sopra le nuvole, eccetera eccetera. Il trucco della sanità mentale consisteva nel non accettare di entrare nella prospettiva dei pazzi.

Peccato che l’intero posto fosse una pazzia.

Davide sospirò. «Quindi, in fondo ai pozzi, ci sarebbe questa enorme cosa vivente, giusto?»

Il vecchio annuì. «Sì, possiamo chiamarla così. In fondo ai pozzi, sotto la superficie del pianeta.»

«E noi ci siamo dentro.»

«E noi ci siamo dentro, sì. Puoi dire che ci muoviamo attraverso i suoi pori, o qualsiasi cosa abbia a svolgere il ruolo dei pori. Non credo neppure che possieda pori nel vero senso della parola, almeno per come li intendiamo noi. Qualunque cosa sia, di certo non è terrestre e dunque non ha obblighi di seguire lo schema biologico di esseri viventi evoluti sulla Terra.»

«Sì, sì, lasciamo stare le lezioni di scienze, eh? Non le ascoltavo a scuola, figuriamoci in un carcere sotterraneo o quello che è.»

«Non è un carcere sotterraneo: è il corpo di un essere vivente.»

«Quello che è. E quanto sarebbe grande? Qualche chilometro sotto i pozzi? Come la base militare? Di più? Di meno? Tu sei qui da un po’, no? Lo dovresti sapere.»

«Sono qui da un po’, appunto, e non so quanto sia grande la tua base militare. Non so neanche quali siano le dimensioni del corpo di Madre, in effetti. Vivo qui dentro da venticinque anni, a quanto mi dici, e ho girato parecchio, ma ancora non ho trovato una fine.»

«Potresti girare in tondo.»

«Potrei girare in tondo, ma non lo faccio. Ho imparato a orientarmi, sai. Non è che avessi poi molto altro da fare qui. Posso portarti sotto ciascuno dei nove pozzi, se lo vuoi. Conosco la zona. Non c’è molto da vedere, al buio, ma le gallerie non sono tutte uguali e col tempo impari a distinguerle: per la forma, la consistenza delle pareti, anche l’odore. Non ho girato in tondo, è solo che questo posto non finisce. Continua, in ogni direzione, fin dove puoi camminare e anche oltre. Per quanto ne so, è grande come tutto il pianeta.»

Davide si prese una pausa per digerire l’affermazione. «Stai dicendo che questo coso vivente non è solo annidato sotto ai pozzi, ma è grosso come tutto il pianeta? È dentro tutto il pianeta?»

«Possibile. Per quanto ne so, potrebbe essere un pianeta dentro il pianeta. Letteralmente, hah! Ma se vuoi sapere come faccia a esistere, allora lo stai chiedendo alla persona sbagliata. Non lo so. Ci vivo dentro da anni, ma non ho la più pallida idea di come funzioni. Funziona, punto. E poi so anche che questa cosa vivente, questo pianeta dentro il pianeta, ha voluto chiamare da parte il Direttore, per discutere di qualcosa. Lo ha fatto usando uno dei suoi pezzi, un manichino che aveva modellato per l’occasione, usando la forma di qualcosa che fosse comprensibile e accettabile per noi. Qualcosa che potesse comunicare con noi. E lo fa sempre, sai? Ha cominciato con la prima spedizione, li ha raccolti e metabolizzati. Ne ha fatto dei modelli, stampi con cui produce altri organismi simili se e quando servono. Continua a raccoglierli anche adesso, tutti quelli che i militari buttano via. Quelli come te. Madre li prende, li smonta e poi li assimila. Mischia la loro struttura con le strutture umane che ha già raccolto e le usa per assemblare altre strutture umane, che ogni tanto mi capita di vedere muoversi vicino al fondo dei pozzi. Quando ne stanno per arrivare altri, soprattutto.»

Davide avrebbe avuto bisogno di parecchie pause per digerire quelle affermazioni. Ammesso e non concesso che le avrebbe mai digerite. Era una storia troppo complicata per lui e il fatto che fosse per di più una storia pazza non la rendeva più semplice da capire, anzi. «Che cosa stai dicendo?» fu la sola cosa che gli riuscì di rispondere.

Il vecchio sospirò. «Sto dicendo che le cose che verranno a raccogliere il materiale organico che sei tu, e lo porteranno dove sarà assimilato, ti appariranno come esseri umani. Grossomodo umani. Ma lo verificherai tu stesso a breve. Non c’è bisogno di capire. Succederà. Vedrai.»

E dopo aver ripetuto per l’ennesima volta la stessa minaccia, profezia o quel che era, sempre col suo tono e il suo aspetto da profeta biblico nudista sotto amfetamine, Laurent Karlsson si azzittì. Per un poco. Aspettando forse che la profezia si avverasse.