Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 88

Davide Kori rimase seduto ancora per un poco a riflettere su tutta quella storia assurda, adesso che il vecchio aveva finito finalmente di chiacchierare e ripetere vaghe profezie di sventura e derivati. Il silenzio era grande, troppo grande per i suoi gusti, così si alzò e cominciò a ciondolare peripatetico per la galleria, incespicando come se non ci fosse un domani: la gamba destra non sembrava essersi ancora decisa a collaborare decentemente. Affari suoi. Lui non ne poteva più di stare seduto, quindi non sarebbe rimasto seduto. E poi camminare aiutava. Aveva una bella dose di materiale da filtrare e ruminare, non ultima la promessa strampalata che cose semiumane sarebbero a breve passate di lì per recuperarlo e smaltirlo come rifiuto organico o quel che era, e svolgere attività fisiche favoriva sempre l’attività cerebrale. Giusto?

Matteo non sarebbe stato d’accordo, ma Matteo non contava. Era soltanto un bradipo rasato e con la manicure, suo fratello, e nessuna persona sana di mente avrebbe mai deciso di eleggerlo a modello di comportamento. Così Davide zoppicava avanti e indietro nell’aria calda e dall’odore vagamente sgradevole, al buio, sulla peluria sottile che sembrava coprire ogni superficie di quel colossale coso vivente sotterraneo. Almeno se si voleva credere alle parole del vecchio, che sembrava più fuori di testa di un orologio a cucù bavarese. Se non volevi credere alle parole del vecchio, allora quel luogo era soltanto un enorme complesso sotterraneo di gallerie misteriose, dove vivevano cose misteriose e un poco luminescenti e in generale potevi abusare senza scrupoli dell’aggettivo “misterioso”, per definire più o meno qualunque cosa tu vedessi o sentissi. Allegria di naufragi e naufraghi.

E lui ci voleva credere? Credere magari no, non proprio, non si sarebbe sbilanciato così tanto, ma il problema era che lì sotto, dovunque fosse di preciso lì, anche le cose più folli suonavano plausibili, se ci pensavi bene. Se invece non ci pensavi bene, suonavano reali e realistiche. Ma il problema non era quello, in fondo. Il problema era...

Davide si fermò. «Quanto è grande questo posto?» chiese, rivolto nella direzione in cui supponeva si trovasse ancora il vecchio, almeno in base al suo vago senso di orientamento. «Seriamente, dico.»

Laurent Karlsson non si era mosso e aveva lasciato che il ragazzo si sfogasse quanto voleva. Aveva già raccontato la stessa storia ad altri condannati, nel corso degli anni di solitudine sotterranea, e più o meno tutti avevano reagito allo stesso modo, ossia non credendogli, pensandolo pazzo. Poi erano venuti davvero a ritirarli e a quel punto avevano smesso di considerarlo pazzo. Nonché di vivere, da un certo punto di vista, che era poi anche il solo punto di vista che contasse davvero per un umano.

«È grande,» rispose semplicemente. «Grande quanto tutto il pianeta, per quello che ne so. Mi pare di avertelo pure già detto, no? Non mi credi proprio?»

Davide accolse l’informazione con uno sbuffo. «Dai, seriamente. Quanto è grande? Arrivi o no da qualche parte, se continui a camminare? E dove arrivi? C’è una uscita?»

«Se c’è una uscita, io non l’ho mai trovata. A parte i pozzi, ovvio, ma arrampicarmi a mani nude su una superficie quasi perfettamente verticale, al buio e per mille chilometri è un poco al di fuori delle mie capacità, sai com’è. Nessuno però ti vieta di tentare, se proprio ci tieni.»

Davide sbuffò di nuovo. «Sono serio!»

«Anch’io lo sono. Lo sono molto più di te. Credi che non abbia mai cercato di andarmene da qui? Ti pare che io mi sia divertito qui sotto da solo, al buio e per venti, venticinque anni, o quelli che sono? Ti pare che sia divertente sapere che le uniche persone che ti capita di incontrare, di tanto in tanto, o sono aborti prodotti da Madre per giocare, sperimentare o quel che è, oppure altri disgraziati buttati qui per fornire nuovo materiale organico al pianeta? Ti pare una bella vita? Se è così, accomodati: io faccio cambio più che volentieri. Qualunque alternativa non potrà essere peggiore di questa.»

Davide fece qualche passo indietro alzando d’impulso le mani, come a proteggersi dalla improvvisa rabbia del vecchio. Non se l’era aspettata. Gli era sembrato pazzo, sì, ma innocuo, come i vecchietti mezzi rimbambiti che aveva visto qualche volta attorno all’ospizio per poveri, a casa sulla Terra. Ma quelli non reagivano così. Non che lui ci avesse mai parlato, al massimo li derideva da lontano con Amir (che fine aveva fatto Amir? Stava bene? Ma non era il momento giusto per pensarci, con tutti i problemi più urgenti che aveva), ma era certo che non avrebbero mai reagito a quel modo, con la rabbia e sì, ok, diciamolo pure, con l’odio che quella specie di eremita gli stava rovesciando addosso. Era schizzato del tutto?

«Scusa, scusa, non volevo offenderti,» mugugnò in risposta. «È solo che è tutto così...»

«Tutto così, già.» Laurent Karlsson sembrò calmarsi di nuovo, pentola d’acqua che qualcuno aveva tolto dal fuoco quando stava cominciando a bollire. «Sempre tutto così. Comunque no, non lo so di preciso quanto sia grande questo posto. Ho camminato e camminato, ma è sempre tutto uguale. Per quanto ne so, è davvero grande come tutto il mondo. È un pianeta dentro il pianeta, te l’ho detto. Sei tu che non mi credi. Continuo a ripetere le stesse cose ma tu non mi credi. Bah!»

«E da qui non si esce, giusto?»

«E da qui non si esce, giusto. Ma non ha importanza, per te, perché tanto ti verranno a prendere.»

«Questi spazzini messi assieme da Madre, giusto? Mi verranno a prendere e mi porteranno alla loro discarica o quello che è. Un impianto di riciclaggio, magari, da quello che hai detto tu.»

«Scherzaci pure, ma verranno. Vengono sempre, prima o poi. Ma non hanno molta fretta. Non so se abbiano anche solo una vaga idea di cosa sia il tempo, almeno come lo concepiamo noi, ma credo di no. Non sembrano molto autonomi o capaci di pensare, sai?»

«No, non lo so, ma ti crederò sulla parola. Se non arrivano in fretta, però, cosa faccio? Resto qui a crepare di fame e di sete? Che poi, tu cosa mangi? E cosa bevi? Non mi sembra di avere visto molto da queste parti. Non mi sembra di avere visto in generale, tra il buio e tutto quanto, ma, voglio dire, ci sono bar? Self-service? Mense? Riserve di caccia? Perché, non so te che hai chiacchierato per un secolo e mezzo, ma io con questo caldo ne ho accumulata parecchia di sete. Devo tenermela fino a che non verranno a smaltirmi come i rifiuti?»

Il vecchio sospirò. «Ancora non mi credi e ci scherzi, ma non importa. Vuoi davvero bere? Seguimi e ti farò vedere dove puoi bere. O mangiare, anche, se davvero lo vuoi. Non so se avrai ancora fame dopo aver visto quello che c’è da mangiare da queste parti, ma è un altro discorso e comunque non è affare mio, giusto? Tanto io sono pazzo.»

Davide lo sentì allontanarsi prima di avere il tempo di rispondere, così cestinò le eventuali risposte e lo seguì. Camminarono per un po’, di tanto in tanto svoltando in gallerie laterali, che forse erano più larghe o forse più piccole. Non c’erano molti bruchi luminosi da quelle parti e il mondo attorno a loro diventava poco più di un vago sogno, percezione a pelle che senti e inventi più che conoscere davvero. O giù di lì. Il punto era che Davide si sentiva più disorientato di un ubriacone allo stadio terminale su un toboga e aveva semplicemente rinunciato a capirci qualcosa del posto: diventava tutto molto più semplice, così. Lasciati portare dalla corrente e stai a vedere dove ti scaricherà.

Lo scaricò in quella che poteva essere l’ennesima galleria identica alle altre, ma qualcosa di diverso lo doveva possedere, dato che il vecchio si era fermato proprio lì e lo invitava a guardare la parete di fronte. Davide gli fece notare che era buio pesto e non ci vedeva una sega, figurarsi poi la parete di fronte, o anche su un qualsiasi altro lato, così il vecchio lo invitò ad allungare una mano e toccare ciò che si trovava sulla parete di fronte. Così fece, non senza esitazione e non senza sospettare che il vecchiaccio gli stesse preparando una qualche sorpresa strana, magari perversa.

Qualche secondo dopo Davide non solo non toccava più quello che aveva toccato sulla parete, ma si strofinava vigorosamente la mano contro la gamba dei pantaloni, per rimuovere ogni atomo residuo del contatto. Se poi avesse rimosso anche la memoria tattile, tanto di guadagnato. Qualunque cosa ci fosse sulla parete, con tante e tante speranze che non fosse proprio quella cosa particolare a cui non riusciva a non pensare, lui non lo voleva sapere. No. E no. Gah!

«Sì, posso capire che la prima impressione non sia così felice,» spiegava nel mentre il vecchio, «ma ti posso assicurare anche che non è così terribile come adesso stai pensando tu.»

«Cosa ne sai di quello che sto pensando io? Mi hai fatto toccare un...»

«Hai ragione, non so cosa stai pensando tu, ma posso immaginarlo. Probabilmente non è diverso da quello che ho pensato io quando ho scoperto per la prima volta uno degli abbeveratoi.»

«Abbeveratoi? Non so le tue abitudini e non le voglio sapere, ma io non lo chiamerei abbeveratoio. Non è il genere di cosa che mi piace toccare! Non se appartiene a qualcun altro, almeno.»

Laurent Karlsson sospirò. «La prima impressione è sgradevole, d’accordo, lo ammetto, ma in realtà sono qualcosa di molto naturale. Con qualche bruco li potresti anche vedere, ma diciamo che li puoi immaginare come un incrocio tra una uretra e la mammella di una mucca. Hai presente, vero?»

Davide, ragazzo di città, non aveva mai visto mucche intere e animate, ma sapeva vagamente che le si poteva considerare come la materia prima da cui erano estratti alcuni alimenti per ricchi. Tutto ciò però non aveva rilevanza, dato che al momento aveva tanta voglia di discuterne quanta di infilare la testa dentro a una pressa, così emise un grugnito poco impegnativo, con la speranza che il vecchio avrebbe smesso di parlare di quelle schifezze. Non smise.

«O, ecco, ecco, se preferisci puoi immaginarle come una specie di biberon. Hai presente un biberon, vero? Funzionano più o meno così. Anzi, se chiudi gli occhi e liberi la mente, puoi riuscire davvero a immaginare, a fingere di bere da un biberon. Vuoi che vado a cercare un paio di bruchi e ti faccio vedere come funzionano? Così se hai sete puoi...»

«Non ho più sete, grazie. Possiamo andare da qualche altra parte?»

Stavolta il vecchi lo accontentò, continuando però a parlare di come fosse stato difficile il suo primo periodo lì sotto, quando si era svegliato e trovato lì al buio, senza sapere come bere, come mangiare o anche solo come ci fosse finito, che era probabilmente l’ignoranza più terribile di tutte. Ma piano piano si era abituato e aveva imparato a sopravvivere. Lo aveva aiutato uno di quei cosi assemblati da Madre, che possono sembrare umani soltanto al buio e da lontano. «Non so se fosse proprio una specie di guida o di istruttore, ma mi ha spiegato lui come nutrirmi. Forse Madre voleva esaminare da vicino come funzionasse uno di noi, forse voleva tenermi come animale da zoo, non lo so. Ma so che non è stato bello, questo te lo assicuro. È stato...»

Ma Davide si impegnava a fondo a non ascoltarlo e in parte ci riusciva. Ancora meglio, sembrava di poter ignorare i vaghi brontolii dello stomaco e la gola che si inaridiva. Poteva anche esserci acqua e cibo, in quel luogo, ma in fondo c’erano cose che potevi mangiare e bere anche in una discarica o nelle fogne; questo però non significava che tu le volessi anche mangiare o bere. Se e quando dovrò proprio, ma proprio proprio, allora lo farò, se non avrò alternative. Finché posso resistere, la merda la lascio mangiare a lui. O così pensava Davide, zoppicando al buio lungo una galleria.

Che poi, se davvero erano dentro a un essere vivente, come sosteneva quel vecchio pazzo, da dove arrivava l’acqua? E il cibo? Le sue competenze in fatto di biologia e scienze in generale si potevano incidere sulla capocchia di uno spillo, se si era anche in possesso degli strumenti adatti a quel tipo di artigianato estremo, ma per quanto credeva di saperne Davide non c’erano fontane dentro al suo corpo, né alberi da frutto, cacciagione o altro. Valeva la pena di farlo notare al vecchio? Dopo breve e non sofferta riflessione, decise che no, non ne valeva la pena. A lui non interessava sapere come il posto funzionasse, ma dove fosse l’uscita, grazie tante.

«Non c’è una uscita, te l’ho già spiegato,» rispose Laurent Karlsson. «Siamo chiusi dentro al corpo di Madre. Entri ed esci solo passando dai pozzi e da quelli non ci passi senza un qualche mezzo di trasporto. Rassegnati. Accetta le cose come stanno. Da qui non uscirai.»

«Ma rassegnati tu, grazie. Io da qui uscirò, vedrai!»

Altro sospiro del vecchio. «E come intendi fare, se non ti è di troppo disturbo spiegarmelo?»

A questa domanda Davide non sapeva rispondere, ma avrebbe bevuto da uno di quei biberon prima di ammetterlo sia a se stesso che al vecchiaccio. Sarebbe scappato. Sarebbe tornato in superficie. E poi avrebbe deciso cosa fare, ma questo non era rilevante al momento. Era rilevante cercare una via di uscita. Ce n’era una. Per forza. Così come era entrato, poteva anche uscire. Giusto? E la storia dei pozzi, poi, era chiaramente una fantasia. Oh, c’erano, d’accordo, ma profondi mille chilometri? Non ci aveva creduto molto prima e non ci credeva molto adesso. Doveva solo trovarne uno e poi...

«Ehi, sapresti portarmi a uno di quei pozzi?» chiese al vecchio. «Hai detto che sono da queste parti, no? Mi piacerebbe vederne uno, dato che, a quanto pare, quando mi hanno fatto scendere dormivo.»

«Un pozzo? Sì, ti ci posso portare, se vuoi, ma non vedrai molto. Siamo in fondo ai pozzi. È buio. Al massimo sentirai uno spazio molto largo e molto vuoto, con uno spiffero di aria un poco meno calda che arriva dall’alto. Forse. Alcuni giorni succede, almeno.»

«Sì, ok, non ti preoccupare, ma accompagnami là, eh? Tanto per fare due passi, no?»

«Non mi sembra che cammini molto bene ma d’accordo, seguimi pure. Non farà molta differenza.»

Che non camminasse bene era vero, almeno in parte; in parte, invece, tendeva all’eufemismo. Aveva la gamba destra che ogni tanto sembrava fatta di legno e funzionava solo come perno, stampella di ossa e carne attaccata alla sua anca. E c’era anche qualche fitta all’addome, a volte. Fitte strane, una specie di dolore pulsante, ma non forte, non violento: tutum-tutum, due colpi poi passava, sbiadiva, si mescolava ai normali movimenti delle viscere. Poi riappariva. E ancora. E ancora. Gli dovevano avere fatto qualcosa, dopo la cattura, ma non riusciva a ricordare quasi niente di cosa fosse accaduto dopo la cattura. Era... nebbia, appunto. Nebbia rosata.

Chissà se anche Olaf era da qualche parte li sotto? Il pensiero lo colse improvviso e Davide lo girò e rigirò per un poco nella propria mente, gatto che tortura un topo prima di sventrarlo e gettarlo via da qualche parte. Che fine aveva fatto Olaf? Si erano persi di vista subito dopo la cattura e da allora il compagno sembrava uscito del tutto (definitivamente?) dalla sua vita. Forse era ancora in una cella, forse non lo era. Non c’erano molte alternative. E se non era più in cella, allora magari...

La voce piatta del vecchio lo riportò al presente. «Sono arrivati. È stato un piacere conoscerti.»

«Arrivati chi?» ebbe il tempo di chiedere Davide, poi li vide.

Vaghe sagome nere disegnate nel nero delle gallerie, soltanto il fioco lucore dei bruchi sparpagliati sulle pareti ti permetteva di localizzarli e distinguerli dal mondo da cui parevano emergere, rutti che seguono una robusta mangiata o una sbevazzata allegra di liquidi ad alto contenuto gasssoso. Ma non erano gassosi. Erano solidi. O almeno apparivano solidi, che non è sempre la stessa cosa.

Umani? Per quanto ne capiva lui, potevano esserli. Davide distingueva due gambe nella metà bassa della loro struttura, due braccia grossomodo a metà, verso l’alto, e quella che poteva essere la testa a completare il quadro. Umanoidi e antropomorfi, sì, ma si muovevano come marionette manovrate dal marionettista più alienato che lui avesse mai visto. Se c’era un marionettista, da qualche parte. E se si ipotizzava che lui avesse mai visto davvero un marionettista, il che era falso.

«Cosa...» farfugliò, immobile nella galleria su una gamba malferma.

«Esperimenti di Madre,» rispose il vecchio. «Non molto ben riusciti, sembra. Ma è normale, manda quasi sempre i prodotti di scarto per questi lavori. Quelli buoni li tiene per altro. O almeno credo.»

Davide avrebbe potuto esprimere un parere non del tutto concorde su quell’ultima uscita paranoica del vecchio, ne avrebbe potuto discutere, avrebbe potuto osservare i dettagli delle sagome che in un vago chiaroscuro molto scuro e pochissimo chiaro procedevano lente verso di loro, e magari sì, alla fine si sarebbe pure potuto dichiarare grossomodo convinto di almeno alcune delle storie che aveva dovuto ascoltare nel corso di quella giornata (giornata? Ma non c’era giorno lì sotto: solo una notte che non finiva mai, né cominciava). Magari. Forse. Siccome però le sagome stavano effettivamente avanzando verso di loro ed erano rassicuranti come una pinna triangolare che emerge dalle acque a poca distanza da te mentre stai facendo il bagno in mare aperto, Davide decise di buttare fuoribordo pensieri, discussioni ed elucubrazioni, optando invece per l’azione diretta. Nello specifico, fuggì.

Laurent Karlsson lo osservò svanire nel buio, diretto verso un punto qualsiasi alle sue spalle. C’era solo l’imbarazzo della scelta in fatto di gallerie e cunicoli laterali e prima o poi ne avrebbe centrata una, se altri non le avevano già bloccate. Buona fortuna a lui. Non che la fortuna lo avrebbe aiutato, perché la fortuna non aveva niente a che vedere con quella storia, ma un uomo aveva pure diritto a sperare, giusto? E poi un poco di moto gli avrebbe fatto solo bene.

Karlsson sospirò, mentre quattro sagome umanoidi gli passavano oltre. Sempre la stessa storia. Le vittime scaricate nei pozzi cercavano tutte di scappare, quando spuntavano gli spazzini, ma mai che ci riuscissero. Non potevano riuscirci, dopotutto. Erano dentro Madre e non potevano fuggire, più di quanto il loro pancreas potesse fuggire dall’addome. No, anzi, non il pancreas: era troppo grande in proporzione. Gli umani erano batteri nel corpo di Madre, che cercavano di fuggire dai leucociti. Ma quei leucociti vincevano sempre, alla fine. Avevano tutto il tempo che volevano. Sempre ammesso che volessero, cosa di cui Karlsson dubitava. Non gli erano mai sembrati in possesso di una volontà.

Il vecchio sorrise, stanco. La ritrita, vetusta immagine degli umani come batteri sulla pelle di un pianeta non era mai stata così vera come su Madre, dove non era soltanto una metafora, ma realtà di fatto. Solo nella galleria, la corsa zoppicata di Davide ormai sparita, spariti anche i passi leggeri dei suoi inseguitori, Laurent Karlsson pensò di nuovo a come sarebbe stato bello arrendersi. Era solo un animale in gabbia, dopotutto, esemplare di fauna aliena conservato ancora vivo per motivi di studio invece di essere assorbito. Era condannato a sopravvivere al buio, in solitudine, nutrendosi di cose su cui preferiva non speculare e bevendo cose su cui speculava ancora meno. Perché continuare?

Perché la vita è un brutto vizio, da cui è così difficile liberarsi. Anche quando significa strisciare, o mangiare immondizia, campare come un fungo, tu continui ad artigliare quel nulla che ti rimane, un occhio verso ciò che hai perso, un occhio verso ciò che puoi ancora perdere. Strabismo esistenziale a cui neppure lui sapeva rinunciare. Perché dava dipendenza. Come ogni brutto vizio che alla fine ti seppellirà, dava dipendenza. Meglio a te che a me, pensò, e del ragazzo non si preoccupò più.

Ben più preoccupato, ma parimenti ostile alla idea di arrendersi, Davide correva e incespicava nella sua fuga insensata e senza direzione. Nei suoi movimenti viveva tutta la grazia e l’agilità di un gatto di marmo, la gamba destra lo aveva già scaraventato a terra (o il materiale facente funzione di terra) due volte, senza uno straccio di preavviso, e non aveva idea di dove stesse andando. Sapeva che era da un’altra parte rispetto ai suoi inseguitori e tanto gli bastava, per il momento. Il dopo poteva pure ritirare il numerino e sistemarsi in coda ad attendere il proprio turno. Se mai fosse arrivato.

Aveva infilato una galleria laterale, ed era buio pesto. Credeva di averne infilata un’altra, che era un poco più luminosa, con un grumo di bruchi impegnato a fare chissà cosa sul soffitto. Procedeva ora lungo un’altra galleria ancora, alla cieca, sbattendo di tanto in tanto contro una parete, pallina persa in un flipper senza fine. Ma da qualche parte doveva pure finire, giusto? Da qualche parte dove non avrebbe trovato quei cosi ad aspettarlo, quelle specie di marionette umanoidi.

Sempre che proprio adesso non stesse correndo verso di loro. Il buio, un labirinto che non conosci, aria calda che ti soffocava, una gamba in sciopero contro il padrone: poteva succederti più o meno di tutto, giusto? Soprattutto se quel “di tutto” si riferiva a eventi sgradevoli. Tipo, per esempio, giri un angolo (ammesso che ci fossero angoli, lì sotto: ancora non ne aveva visti) e bam! Dritto contro il più sgradevole dei muri umani, reso ancora più sgradevole dal suo non essere umano.

Davide si fermò ansimante. Si afflosciò contro una parete, i muscoli della gamba destra come legno sotto la pelle, la caviglia che pencolava amorfa, indifferente agli stimoli dei tendini e dei nervi. Gli avevano fatto qualcosa di brutto mentre era in cella, poco ma sicuro. Prima non era così. D’accordo, si era ammalato facilmente e sembrava essere allergico più o meno a ogni cosa su Madre, ma il suo corpo aveva continuato a funzionare. Tutto il suo corpo. Ma adesso?

Un giocattolo rotto e buttato via, ecco cosa sembrava. Gettato al buio, al caldo, avvolto da odori che lo intossicavano e lo stordivano con la loro stranezza. Magari li aveva raggiunti davvero i pozzi, era davvero in fondo a un pozzo. E allora? Cosa ci guadagnava? A cosa era servito tutto quel lavoro? Il compito assegnato da Zeke lo aveva forse svolto, se il vecchio aveva ragione. E il vecchio sembrava avere ragione. Erano venuti davvero a prenderlo, no? Quindi era davvero dentro Madre. Ora sapeva cosa ci fosse sotto la superficie. Missione compiuta.

Hah! Bella roba, ci aveva proprio guadagnato molto. Se solo fosse rimasto con gli altri, Sebastian e Tunde e tutto il resto del gruppo. Se solo fossero rientrati assieme a loro, lui e Olaf, invece di andare verso il vecchio ascensore. Se solo, se solo. Adesso era solo, senza se. Solo, perduto e sfinito.

Un fruscio sulla desta, come di passi scalzi su un tappeto folto. Stavano già arrivando? Davide non li attese, si alzò e riprese a incespicare, in avanti, lontano dal rumore degli inseguitori. Non correva più, adesso. Non ce la faceva proprio. Zoppicare come un vecchio con le stampelle era il massimo a cui potesse ambire, una mano appoggiata al muro, a sorreggerlo e guidarlo. Muro caldo, soffice, su cui cresceva senza interruzione quella specie di pelliccia rada. Era davvero in un essere vivente? Se si, dove si trovava? A fuggire dentro una sua narice? Erano peli nasali quelli che scorrevano sotto la sua mano e i suoi piedi? Meglio non pensarci. Meglio fuggire e basta.

E fuggire fuggì, ancora per un poco. Poi dovette fermarsi di nuovo, accasciato a terra, a massaggiare muscoli inerti della gamba inerte. Come aveva riso della mollezza profonda di Matteo il sedentario, quando entrambi vivevano ancora sulla Terra e la mamma era viva! Quante volte si era vantato delle capacità atletiche che solo lui possedeva in famiglia! Adesso lo avevano abbandonato. Proprio nella occasione in cui più gli sarebbero servite, lo avevano abbandonato anche loro, come già lo avevano abbandonato tutti gli altri. Matteo volato su Lakshmi, la mamma morta, Amir e gli altri...

Passi, di nuovo. Si avvicinavano. Merda!

Davide strinse i denti e si rialzò, soffocando una bestemmia. Buffo come le bestemmie rimanessero ancora di moda, quando le religioni che le avevano prodotte si annebbiavano ormai nel passato e nel blando senso di indifferenza di una galassia a cui non servivano più, se mai erano servite davvero. A Matteo era sembrato curioso e ci aveva anche perso tempo, anni prima, chiaro segno che non aveva altro da fare. Poteva anche ricordare un pomeriggio in cui il fratello aveva cercato di condividere i risultati delle sue meditazioni, ma Davide lo aveva mandato a cagare. E adesso, mentre fuggiva sul fondo di un pianeta alieno, anche scemenze senza senso come quella riemergevano nella memoria e gli sussurravano di tempi migliori, anni migliori. Brutto segno.

Non doveva guardare indietro, doveva guardare avanti! Anche se avanti non è che ci fosse molto da vedere, a parte buio, buio e ancora buio. Neppure un bruco da quelle parti, niente che spezzasse la tenebra completa del sottosuolo. Niente che gli dicesse dove stava fuggendo, anche, ma in fondo la conoscenza del verso cosa non è così fondamentale mentre fuggi, non certo quanto lo è sapere il da cosa. E Davide conosceva il da cosa: fuggiva dagli esseri che lo inseguivano, qualunque cosa essi fossero. Esperimenti di Madre, aveva detto il vecchio. Esperimenti falliti di Madre, aveva aggiunto in seguito, e falliti dovevano esserlo davvero, se ancora non erano riusciti a raggiungere il fuggitivo zoppo. Ma che esperimenti fossero e perché sperimentare, beh, questo Davide non lo sapeva, né gli pareva una informazione così importante da possedere, almeno al momento.

E aveva sete. Maledizione, aveva sete. Aveva cercato di ignorarla, fare finta di niente, tutto piuttosto che bere da quei... quei biberon, come li aveva chiamati il vecchio. Biberon proprio, hah! Adesso si sarebbe anche abbassato a bere, dopotutto: adesso che la sete aveva cominciato a picchiare davvero. Cosa avrebbe dato per una bella bibita fresca? Molto meno di quanto avrebbe dato per un veicolo a motore, che lo portasse via di lì. Perché quella era la priorità: andarsene.

Davide fuggì per un tempo che non avrebbe saputo calcolare, sia perché non possedeva cronometri, sia perché non lo avrebbe comunque attivato per misurare la fuga, se anche ne avesse avuto uno. Fu dura, fu frammentata, fatta di soste seduto e camminate sempre più brevi, sempre più lente. Adesso la gamba non solo non rispondeva più, ma era anche un ostacolo attivo, che quasi cercava di farlo cadere in continuazione, intralciandolo, scivolando davanti alla collega che ancora lavorava. Era un sabotatore, uno sporco collaborazionista che cercava di affrettare la cattura, sempre e comunque. La quinta colonna che si annidava nel suo esercito, serpe in seno, questo e quello.

Non ce l’avrebbe fatta. La consapevolezza lo colpì alla nuca come un mezzo mattone, con tutto il peso della verità che aveva cercato fino a quel momento di negare. Non sarebbe fuggito. Stava solo ritardando l’inevitabile, ormai, e non lo ritardava neppure di tanto. Le soste erano sempre più brevi, i passi più vicini, gli inseguitori gli erano virtualmente addosso e mancava poco perché il virtuale si facesse reale. Non gli serviva un indovino per prevederlo.

Ci fermiamo? Ci arrendiamo? Glielo chiedeva la gamba destra, glielo suggeriva la testa. Davide non ascoltava. Una pausa, breve, a respirare, a tentare inutili allungamenti, come se servissero a ridare un brandello di vita all’arto inerte. Non ancora, non ancora. Non si poteva fermare, non era giusto e non lo voleva. Perché forse non era finita, non davvero. Forse aveva ancora una speranza. Poco più di un cerino in mezzo a un uragano, ma c’era, la sentiva. Sulla faccia, sulla pelle sudata. Più avanti, in un qualche punto perso nell’oscurità, c’era una via di uscita. Uno spiffero di aria poco più fresca, che quasi non riuscivi a percepire, che forse non stava davvero percependo, forse era la speranza, il trucco con cui l’illusione lo spingeva avanti, forse era un inganno, forse, forse.

Fanculo i forse. Davide si rialzò, i passi sempre delicati dietro di lui, ma vicini, troppo vicini. Avanti poteva esserci l’uscita ma poteva anche essere arrivata tardi. Non importa. Non importa. Continua, un passo, un altro passo. Davide continuava, mano contro la parete, per sostenersi, il piede destro a strisciare come una coda troncata dietro di lui. Lo spiffero c’era, non lo stava immaginando. Adesso lo sentiva più forte, era reale, doveva essere reale, perché se non lo era...

Davide non concluse il pensiero. Meglio continuare a sperare, meglio continuare a incitarsi, ripetere forza Davide, tieni duro Davide, non mollare Davide, perché se non se lo diceva lui, chi altri glielo avrebbe dovuto dire? Il fratello disperso per la galassia? Gli amici persi per strada, chi per colpa chi per necessità? No, c’era solo lui, poteva contare solo su se stesso e su se stesso avrebbe contato, coi passi degli inseguitori nelle orecchie, la gamba che non funzionava, il soffio di aria più fresca che lo colpiva in faccia. Era vero. Era reale. L’uscita era davanti a lui.

L’uscita era davvero davanti a lui. Un gruppetto di bruchi luminosi era sparpagliato lungo i contorni di qualcosa che sembrava l’imboccatura di un passaggio, ma era diversa, c’era qualcosa di diverso dall’altra parte. Non un nuovo passaggio, non una nuova galleria, ma uno spazio molto più largo, di cui non riusciva a scorgere i confini. E sì, c’era luce. Non molta, d’accordo, era solo una oscurità un poco meno oscura, ma persino quella miseria era ricchezza senza fine, per lui. Trascinando dietro di sé la gamba destra, gattonando più che camminando, Davide avanzò ed entrò nel nuovo spazio.

Era enorme come gli era apparso da fuori. O da dentro? Dove si trovava adesso, di preciso? Non lo sapeva. Poteva essere all’esterno, oppure ancora all’interno, ma in quel caso doveva essere un posto simile a una qualche specie di anfiteatro, o un palazzetto dello sport, qualcosa del genere. Non c’era luce, ma una penombra marcata, da cui emergevano i contorni delle cose, macchie nere in un mare di grigio scuro. E il contorno che emergeva più chiaro di tutti era circolare.

Un cerchio. Era entrato o uscito in un cerchio. Perfetto? Forse, magari, ma la geometria non aveva importanza al momento, se mai ne aveva avuta nella vita di Davide. Il diretto interessavo lo avrebbe negato con passione. Ma era un cerchio, uno spazio circolare, e la quasi luce che gli consentiva con molta fatica di vederlo era proiettata da bruchi, bruchi incalcolabili, che coprivano le pareti attorno a lui, in alto, sempre più in alto.

Pareti. Il cerchio era racchiuso tra pareti. Quindi non era l’esterno? Non lo sembrava. Ma c’erano in lontananza altri passaggi, altri cerchi neri che si aprivano su altrettante gallerie come quella da cui lui era appena emerso. Come quella o simili, perlomeno. Davide non se la sentiva di speculare più di tanto, perché i suoi occhi erano attratti verso l’alto, continuavano a sfuggirli, a trascinare la testa e costringerla a piegarsi, piegarsi all’indietro, ancora, e ancora. Le pareti salivano ed erano coperte di bruchi luminosi, chissà perché, chissà come. Sembrava di essere sul fondo di un cilindro, forse un nuovo tipo di botte, costruita di roccia anziché di legno.

Perché sì, qualunque cosa fosse il materiale di cui erano fatte le gallerie da cui era appena emerso, a trenta, quaranta, forse anche cento metri di distanza verso l’alto cedeva il posto alla pietra, solida e reale, vera come i sassi che a volte si tiravano da bambini. La illuminavano i bruchi e la illuminava altro: pietra butterata, dall’aspetto un poco ruvido. Pietra scavata? Pietra scavata, forse, perché no?

Davide guardava ancora più in alto, dove finivano i bruchi ma persisteva una traccia di quella vaga penombra, che era un nero sbiadito, un vestito a lutto lavato troppe volte. E in alto, a una distanza che non avrebbe mai e poi mai saputo calcolare, c’era... Un cielo stellato? Lo sembrava, sì, ma non lo era. Forse non lo era. Sfinito e confuso, Davide non sapeva azzardare ipotesi, sparare alla cieca nel mare dell’ignoranza, cavare qualcosa dal cilindro ed esibirlo al cospetto della folla composta da lui solo, unico e abbandonato. Ma c’erano piccole, piccole luci e parevano stelle. Cosa fossero, poi, Davide non lo sapeva, né gli interessava molto.

Perché da lì non sarebbe uscito. Perché adesso sì, adesso aveva capito. Aveva guardato in faccia la gorgone, aveva strappato la maschera al pagliaccio, aveva questo e quello, aggiungere cosa retorica a piacimento. Soprattutto, e sopra tutto, aveva visto il posto in cui si trovava. Il pozzo in fondo a cui si trovava. Il pozzo, che saliva per chilometri e chilometri verso una superficie remota, la cui sola e vaga testimonianza erano le poche luci perdute lassù.

Era vero. Tutto ciò che il vecchio gli aveva raccontato era vero. Non poteva fuggire, neppure se la sua gamba destra fosse stata perfetta, neppure se ne avesse avute mille di gambe. Come avrebbe mai potuto scalare quella parete infinita? O dove poteva correre? Dentro a un’altra galleria? Di nuovo al buio, di nuovo nel caldo soffocante, di nuovo nell’odore soffocante della bestia annidata al centro di Madre, il pianeta dentro il pianeta? Perché sì, adesso poteva accettare anche quella follia; adesso era schiacciato a sufficienza, piegato e schiantato a sufficienza per accettare tutto e il suo contrario.

Era in fondo a un pozzo, proprio come gli aveva chiesto Zeke. Peccato che non avrebbe potuto fare niente altro di quello che gli aveva chiesto. Non che avesse poi importanza, ormai. Ormai.

Davide si accasciò al suolo, quel suolo che non era terra o roccia, ma carne viva, pulsante. Glabra in quel luogo, per chissà quale ragione, ma la ragione non aveva importanza. I passi lo raggiunsero, si fermarono attorno a lui, ma Davide non li guardò neppure. Non avevano importanza. I suoi occhi si erano incollati alle luci in fondo al pozzo, alle luci in cima al pozzo, e non se ne sapevano staccare.

Si staccarono quando mani forti lo sollevarono, riportandolo verso la gallerie da cui era uscito. O lo portavano verso una galleria diversa? Non aveva importanza. Davide lasciò correre lo sguardo sugli umanoidi che lo reggevano e lo circondavano e sì, anche lì trovava una nuova conferma alla storia del vecchio. Sembravano davvero umani, sembravano giovani, erano nudi, ma non si muovevano da umani. Come quella donna comandante di cui aveva parlato il vecchio, già. Davide sorrise. Dunque avrebbero smaltito il suo materiale organico, giusto? Qualunque cosa fosse, poteva solo sperare che non fosse dolorosa. O almeno non troppo, e non lunga. Era finita.

Poi i suoi occhi incontrarono il volto di uno di quei manichini umanoidi, disegnato a fatica dal poco chiarore dei bruchi. Lo incontrarono e si fermarono. Era il volto di una persona che conosceva, ma non poteva essere lei. Non poteva essere la ragazza che era nel suo gruppo quando era assieme agli Isolazionisti, mille vite prima, sulla Terra. Perché Amani non era partita, era rimasta a casa e aveva partecipato all’operazione che avevano programmato, assieme ad Amir, assieme agli altri. E cosa le fosse accaduto poi, se qualcosa le era accaduto, Davide non lo sapeva, ma non poteva essere lì, non su Madre, non in fondo a un pozzo, non in quella massa di esperimenti falliti.

Ma c’era. La stava guardando. O almeno guardava un volto identico al suo. Fu anche l’ultima cosa che Davide vide, prima di sprofondare nella tenebra delle gallerie e dell’incoscienza.

Ne riemerse solo una volta, prima della fine. Si trovava in un ambiente piuttosto ampio, un soffitto a cupola ricoperto da bruchi. Era sollevato dal suolo. Mani lo tenevano sollevato, mani di persone che lui non vedeva. Erano dietro, lo reggevano da dietro. Il terreno davanti a lui era vuoto e scendeva, in una depressione circolare. Poteva sembrare una dolina, anche se Davide non l’avrebbe mai descritta con quella parola, per il motivo molto semplice e banale che non la conosceva. Avrebbe detto però che il suolo scendeva a imbuto e che in fondo all’imbuto c’era una specie di foro, abbastanza largo, e da quel foro usciva un liquido simile ad acqua. O era una pozzanghera? Non lo sapeva né capiva, la sua testa era ovatta, una scatola piena di ovatta. Ed era stanco.

L’odore però faceva schifo. Ma schifo schifo, come di cibo andato parecchio a male. Cibo lasciato in un luogo molto caldo, sì, ecco a cosa assomigliava. Ma la testa gli girava, girava troppo, e Davide smise di pensare. C’era almeno una galleria che portava a quel posto ed era poco più avanti di lui, a destra. Buia, ma non buia del tutto, almeno non all’inizio. Ed era occupata. Da qualcuno o qualcosa. Una sagoma che vedevi appena nel buio e che forse non era una, forse erano più sagome e di certo non erano umanoidi, ma proprio per niente, neppure per sbaglio. Erano...

Poi le mani che lo avevano sostenuto lo lasciarono andare e Davide precipitò nella dolina, verso la imboccatura acquosa sul fondo. Non fu breve. Non fu indolore. Ma fu la fine e alla sua fine Davide Kori non c’era più.