Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 94

Il luogo che avevano trovato come alloggio temporaneo su Madre era un funambolico appartamento minimale in un edificio che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente identico a tutti gli altri edifici di quella zona periferica di Oklahoma City, capitale amministrativa della colonia per mancanza di alternative. Matteo lo aveva localizzato soltanto grazie alla mappa che Sharma aveva allegato al messaggio e gli era bastato uno sguardo per sapere che, qualunque cosa fosse accaduta, lui non avrebbe mai e poi mai imparato a riconoscerlo, neppure se vi avesse dovuto vivere per mille anni. Non che si augurasse di vivere mille anni in quel buco, beninteso, o anche solo di vivere mille anni in un qualsiasi altro posto. Al momento non si augurava alcunché, se non di potersi sedere per un poco, alzare i piedi, pensare ad altro, riposare. Probabilmente non ci sarebbe riuscito.

L’edificio in sé non era proprio brutto: orrendo lo avrebbe forse descritto meglio, agli occhi di chi possedesse una briciola di senso estetico. Matteo però non ne possedeva, così per lui era soltanto un coso grigiastro fatto a scatolone, col fascino di qualcosa rimasto attaccato sotto alla scarpa, disperso in mezzo ad altri cosi grigiastri fatti a scatolone, estesi fin dove l’occhio poteva arrivare. Come una raffigurazione in cemento e acciaio di un mare mosso, a voler essere poetici. A volerlo essere molto di meno, poteva essere un sobborgo in stile periferia industriale sovietica del dopoguerra, ammesso e non concesso che un simile stile architettonico sia mai stato codificato. Matteo non lo sapeva, né al momento riteneva che fosse una informazione rilevante nella sua vita.

L’interno dell’edificio era spartano, per un dato valore di spartano. L’appartamento in cui avrebbero speso il proprio periodo su Madre era un buco con due camere da letto modello carcere di massima sicurezza e minima comodità, una cucina di fortuna o sfortuna, a seconda dei punti di vista, dove un poco di buona volontà ti avrebbe forse concesso di riscaldare qualcosa di già pronto, ma non avresti trovato lo spazio fisico e mentale per cucinare realmente, e infine un salotto, o almeno un facente funzione di, dove accomodarsi sardinamente a fissare il muro grigio. E un bagno, sul quale però la decenza e la misericordia umana suggerivano di soprassedere. Unico arredamento a non apparire in una qualche tonalità di grigio erano i suoi tre compagni di viaggio e di sventura, che lo attendevano seduti e con tutta l’impazienza di chi ha abbandonato ogni speranza.

«Bello,» mentì Matteo, guardandosi attorno senza convinzione. «Molto rustico. Minimalista.»

«Sembra che tutti gli alloggi siano così, da queste parti,» gli rispose Sharma. «E anche da altre parti. È una colonia nuova, di recente fondazione, e come sempre in questi casi per le comodità dovranno attendere un futuro non proprio prossimo, ma i coloni di solito si sanno adattare. La storia ce lo ha insegnato, dopotutto. È un luogo per pionieri, non per turisti, e...»

«E praticamente è un carcere dove spedire tutti i vostri terrestri indesiderati o in surplus,» continuò Indira a modo suo. «Una discarica spaziale, uno sgabuzzino siderale, una cantina galattica, ma più di tutto il resto è un cesso monumentale. Te lo assicuro io. Ti sei guardato attorno?»

Matteo si guardò attorno di nuovo.

«Dico in città, non qui dentro! Idiota.»

Matteo sospirò e scrollò le spalle. «Non è poi così diverso dal posto in cui sono cresciuto, a casa. In termini generali, dico. Come spirito e... come stile, sì, anche quello.»

«Non voglio visitare il posto in cui sei cresciuto sulla Terra. Non voglio visitare la Terra. Quando ce ne andiamo, allora? Cosa hai scoperto sul tuo fratellino scemo?»

Matteo sedette e riferì della propria visita alla sede locale del Teatro, arricchendola di nuovi dettagli artisticamente veri e rendendo un poco più solido il suo ruolo in quella che, di fatto, era stata giusto una noiosa perdita di tempo, che poteva essere sbrigata in due minuti e da lontano. Il racconto pian piano sgocciolò verso una siccità sahariana via via che le reazioni dei compagni diventavano più e più chiare sulle loro facce non entusiastiche, non serene e non molti altri aggettivi positivi. Persino la sempre impassibile e quasi amorfa Mei Qualcosa sembrava esserne colpita.

«Dieci giorni prima che sia dichiarato ufficialmente disperso?» chiese Indira, un tono di voce che si sarebbe potuto usare per una fantastica partita a biliardo.

«Sì, dieci giorni,» rispose Matteo.

«E altri quindici giorni prima che i colleghi di tuo fratello rientrino in città?»

«Quindici giorni circa, sì.»

«Quindici giorni dopo che sarà stato dichiarato disperso, oppure quindici da oggi?»

«Ehm, da oggi. Credo. Io ho capito così, almeno. Fra dieci lo dichiareranno disperso e fa quindici i suoi ex colleghi torneranno in città. Non dieci e poi quindici. Dieci e quindici. Insomma. Ecco.»

Indira chiuse gli occhi e si accarezzò piano le tempie con una mano, il pollice sulla tempia destra e l’indice sulla sinistra. Mei Saddhatissa teneva la testa china, a fissarsi le ginocchia. Sharma aveva in apparenza scoperto qualcosa di incredibilmente affascinante su una parete vuota e brulla. Per più di un minuto il quadro non cambiò. «C’è qualcosa che non va?» chiese infine Matteo.

«Non esattamente che non vada,» gli rispose Sharma. «Io stavo solo calcolando quanto ci sarebbero durati i nostri fondi e pensavo a cosa dovremo fare poi. Lo sai anche tu come funziona, no? Sei già stato su altri due pianeti con Chakra e ti avrà spiegato...» Si fermò quando la faccia di Matteo diede senza parlare tutte le risposte necessarie e pure qualcuna extra, aggiunta per fare numero. «Non ti ha proprio spiegato nulla? Voglio dire, non i dettagli, d’accordo, ma almeno come funziona in termini generali. A un certo punto avete cominciato a lavorare per mantenervi, no?»

«Sì, ma non mi ha spiegato bene questa storia dei fondi e altro. O almeno non me lo ricordo, ecco,» si corresse subito dopo. «Potrebbe anche averla spiegata ma, sapete anche voi com’è, ascoltare tutto ciò che dice Chakra non è, beh, insomma, capite. Dopo un po’, cioè, ecco. No?» Sorrise senza gran successo: i tre continuavano a fissarlo come se fosse lo scemo del villaggio. Matteo sospettava che, sotto certi aspetti, potesse anche corrispondere alla verità. O a un tipo di verità, quantomeno.

«Su Lakshmi non esiste il denaro, lo sai,» spiegò il sempre paziente Sharma. «Quando un lakshmita si deve recare su un altro mondo, o si vuole recare su un altro mondo, non è necessario che ci sia un obbligo, il governo mette a sua disposizione una certa quantità di denaro prelevandolo da un fondo accumulato grazie alle esportazioni. I dettagli tecnici non sono necessari, ma è una somma che basta per le prime necessità e un periodo di tempo più o meno lungo, a seconda dei casi. Esaurita quella somma, puoi rientrare a Lakshmi oppure trovarti un lavoro sul pianeta e guadagnare denaro secondo i metodi normali per quella società. Anche tu e Chakra avete dovuto lavorare a un certo punto, no?»

«Oh, sì. Già. Capisco. Me lo aveva spiegato più o meno quando dovevamo andare su Rudra, ma poi lo avevo dimenticato. Succede, no?» Matteo sorrise di nuovo e di nuovo fu accolto da uno sguardo con cui gli altri confermavano per acclamazione la sua nomina a scemo del villaggio galattico.

«Il punto è che, non sapendo bene quanto a lungo ci dovremo fermare ancora, ma la tua visita alla sede del Teatro mi lascia supporre che non sarà un periodo breve, cominciare da subito a pensare ai lavori che potremmo svolgere per mantenerci sarebbe una idea saggia,» disse Sharma. «Almeno per stare sul sicuro ed evitare brutte sorprese, capisci?»

Matteo sospirò. Sì, capiva. Gli sarebbe toccato qualche altro lavoro schifoso, tipo quello che aveva dovuto svolgere su Rudra. Lavori manuali. Lavori di bassa manovalanza, che era pure peggio. Non si poteva certo aspettare un comodo posto seduto da insegnante, non in una colonia così primitiva e quasi tutta ancora imballata. Adesso che cominciava a guardare anche al lato pratico della storia, più che mai gli appariva chiaro il perché Chakra e Indira avessero sconsigliato il viaggio. Scoprire cosa fosse successo a Davide, ok, ma... Ci avrebbe dovuto pensare meglio, prima di decidersi, e pensare soprattutto in direzioni migliori. Oh beh, ormai era andata così.

«Quindi da domani dovremo cercare qualcosa?» chiese. «Nel caso sia necessaria una lunga sosta.»

«Da domani cominceremo a guardarci attorno e studiare cosa si potrebbe fare» rispose Indira. «Non è detto che sarà necessario, anche se quasi sicuramente lo sarà, ma è sempre meglio prepararsi, cosa che gente come te fatica a concepire e mettere in pratica. Già che siamo su questa specie di pianeta, e dato che non ci torneremo mai più in futuro, tanto vale che lo visitiamo ancora un poco e vediamo come sia la vita su una colonia primitiva nella fase iniziale di colonizzazione. Così sarà contento il nostro Sharma, che sembra avere uno strano feticcio per la vita rude e preistorica.»

«Non ho strani feticci per la vita rude e preistorica,» obiettò Sharma.

«Potresti anche smetterla di parlarne come se fossimo nel paleolitico. Non mi sembra poi così tanto primitivo come posto,» disse Matteo. «È la nuova colonia terrestre.»

Indira sbuffò e allargò le braccia. «Come volete, come volete, strana coppia. Allora ammireremo le indescrivibili e fantascientifiche meraviglie che soltanto questo vero pinnacolo della civilizzazione umana ci saprà offrire, vertici che nessun altro pianeta nella galassia saprà mai toccare. Così vi va meglio? Il narcisismo nazionalista del terrestre è soddisfatto? Possiamo passare a cose serie?»

«Cose serie tipo?» grugnì Matteo. «Mi pare che stessimo già parlando di cose serie.»

«Oh, se pare a te allora siamo a posto. Mei gradirebbe vedere la nuova pietra che è stata scoperta, e magari anche altri reperti della supposta civiltà aliena, che poi sono l’unica cosa interessante che si possa trovare da queste parti, almeno per il prossimo secolo e oltre. Facciamo anche per i prossimi due secoli, se tutti i terrestri sono come il nostro esemplare domestico. Vederle non dispiacerebbe neppure a me, già che ci siamo, così da dare almeno una vaga traccia di senso al nostro soggiorno in questo buco primitivo. Oh, scusa, volevo dire su Madre. Suppongo che la sede del vostro Teatro non funzioni anche da centro per i turisti, vero?»

«No, è solo per i coloni. Coloni nuovi arrivati, credo,» rispose Matteo.

«Coloni nuovi arrivati, crede. Allora domani cominceremo cercando qualcosa che offra un minimo di servizi anche per chi non è un colono, e magari potremmo rimediare anche informazioni su lavori occasionali, già che siamo da quelle parti. Non so come funzionino nei dettagli, ma da quello che ho controllato prima di partire, e da quello che ha detto il tuo amico Chakra, per quanto inaffidabile sia, luoghi che si occupano di accogliere turisti e visitatori temporanei su altri pianeti dovrebbero offrire anche un minimo di assistenza per brevi impieghi. O quello che sono. Giusto?»

«Giusto, per quello che ho potuto appurare anche io,» rispose Sharma. «O almeno funziona così sui mondi coloniali che hanno raggiunto uno stadio sufficientemente avanzato. Sui mondi agli inizi...» Alzò le spalle, a confessare la propria ignoranza e incertezza.

«Sui mondi agli inizi lo scopriremo,» disse Indira. «E scopriremo anche se sia possibile visitare le poche cose interessanti che ci sono su questo pianeta. Stavano costruendo un museo, no? Quindi ci saranno reperti che possono essere esibiti in pubblico. Immagino che li avranno sistemati intanto da qualche parte, in attesa che il nuovo edificio fosse pronto. Peccato che non sarà mai pronto.»

«Perché non dovrebbe essere mai pronto, scusa?» chiese Matteo.

«Area sigillata dai militari. Ci siamo passati proprio oggi. Non so perché lo sia e non sono certa di volerlo sapere, ma è così. Verifica tu stesso, se non credi. Ci sono soldati ovunque da queste parti. O mi vuoi dire che non te ne sei accorto? Se hai attraversato la città e non te ne sei accorto, allora tu ci vedi proprio come un culo fasciato, come avrebbe detto mia nonna.»

«Sarebbe un modo di dire lakshmita che ancora non conoscevo?»

«No, sarebbe un modo di dire di mia nonna, che ancora non conosci e che dubito conoscerai mai.»

Ma era vero e Matteo lo dovette riconoscere. Non che ci vedesse come un culo fasciato, ma che in città e oltre ci fossero soldati ovunque. Ne avevano visti parecchi anche sull’ascensore, ma era quasi normale. Anzi, era normale, soprattutto in una colonia di recente fondazione, che spesso e volentieri diventava un luogo dove fuggire dalla giustizia, la legge o situazioni socialmente scomode. Non che si fuggisse davvero, come insegnava la storia di Davide: anche con falso nome e falsa identità, tutti lo avevano riconosciuto e monitorato. Prodigi del controllo totale e della privacy quasi nulla, ancora lontana dai livelli di Lakshmi ma in avvicinamento su tutti i pianeti.

Però ne aveva incrociati molti anche in città. Soldati, spesso in gruppetti, anche solo due o tre, non a sorvegliare qualcosa di preciso, ma solo camminare, guardare, farsi vedere. Non aveva pensato che fosse strano, al momento, ma lo pensava adesso. Adesso che altri glielo facevano notare. Ma forse o di sicuro una ragione ci doveva essere e comunque non era importante, al momento. A meno che la ragione non fosse proprio Davide. Possibile? No, improbabile. Eppure...

«Lakshmi chiama Terra. Rispondete.»

La voce di Indira lo riportò al presente. Che era un presente angusto, scomodo e con un vago odore di qualcosa per cui Matteo non conosceva il nome, ma che non ricordava di avere mai fiutato prima. Strani odori del pianeta, probabilmente. «Ci sono, ci sono. Si diceva?»

«Che domani andremo a cercare un ufficio turistico o la cosa più simile che abbiano in questo buco di pianeta. Hai qualcosa in contrario? Obiezioni? Altri progetti? Figuriamoci se li hai, tu.»

Matteo non li aveva, né aveva obiezioni. Aveva quindici giorni da fare passare e in fondo un modo valeva l’altro. Che facessero pure i turisti. Non ci avrebbe guadagnato nulla, ma forse non avrebbe neppure perso. Uno zero che, al momento, gli sembrava incarnare la sua stessa esistenza. O giù di lì.

Trovarono un ufficio turistico, o un facente funzione di, nella zona centrale della città, non lontano dalla stazione di arrivo sotto l’ascensore. Sharma e Matteo si sarebbero occupati della raccolta di informazioni e altro materiale su possibili lavoretti temporanei, mentre le donne avrebbero pensato a luoghi da visitare, cose da fare, cultura varia ed eventuale. Il posto non era proprio entusiasmante, ma era qualcosa e qualcosa è quasi sempre meglio di niente. Quando non è un qualcosa di negativo, beninteso. Forse quella loro tappa non lo sarebbe stata.

Non era un pianeta turistico, Madre: chiunque avesse avuto bisogno di conferme le avrebbe trovate in quell’edificio. Uguale agli altri, cioè più anonimo di un milite ignoto, seguiva lo stile a scatola di cemento comune a tutta l’architettura umana della zona. Sola concessione estetica era un portone di ingresso un poco più grande, che aggiungeva un semicerchio alla sua struttura base rettangolare e lo riempiva con pannelli di un materiale simile al legno, per ragioni che nessuno nel gruppo di Matteo riuscì a capire. «Potrebbe essere qualcosa di estetico,» aveva suggerito Mei a mezza voce. «Oppure si sono accorti tardi di avere sbagliato le misure e hanno tappato il buco con quel che gli avanzava,» aveva invece proposto Indira. Fosse come fosse, accanto al portone c’era anche una targhetta, così vecchio stile da puzzare ancora di naftalina. Lo annunciava come ufficio turistico.

Era vuoto. No, d’accordo, non completamente vuoto. Cinque persone dall’aria disfatta e smarrita vi ciondolavano come anime del limbo, ma soprattutto come sventurati che si sono appena accorti, con grande rimpianto, di avere scelto il pianeta sbagliato per le vacanze. Gli impiegati trasmettevano poi tutta la gioia di vivere di mosche su una finestra. Secondo il sempre modesto e morigerato parere di Indira, un suicidio lo avrebbe soltanto rallegrato. Pure, era ciò che passava il convento.

Le ricerche furono lunghe, ma soprattutto lente. L’intera mattinata se ne andò tra un’attesa e mille sbadigli, in stanze odorose di muffa dove la vita scorreva con ritmi geologici. Quando ne uscirono con qualcosa in mano era ormai ora di pranzo e i risultati, beh, neanche con tutti gli eufemismi della galassia si sarebbero potuti descrivere come soddisfacenti. «Ce li dobbiamo far bastare, ragazzi,» si strinse nelle spalle Indira. «Su una topaia primitiva come questa, oppure una colonia diversamente civilizzata se non vogliamo offendere la sensibilità del nostro terrestre, dubito che potremmo fare di meglio. A meno che non vogliate tentare una irruzione in una base militare: con tutti i soldati che si vedono in giro, le informazioni utili saranno finite lì. Sempre che non se le siano mangiate.»

«Ahaha, spiritosa!» disse Matteo. «Fai pure irruzione, se vuoi, e salutameli tutti.»

«Però c’è una specie di museo,» disse Mei Saddhatissa a bassa voce. «Una struttura provvisoria, per ospitare i reperti in attesa della fine dei lavori al museo.»

«Che non finiranno mai,» disse Indira.

«Sì, beh. È vicino a un centro studi, più o meno dall’altra parte della città.»

«Vuoi dire che è il ripostiglio di un centro studi, Mei. A ogni modo sì, c’è e magari potremmo anche trovarci qualcosa di interessante, o di non del tutto non interessante.» Indira sospirò. «Ci passeremo domani, però. Oggi non ne posso davvero più di stare chiusa da qualche parte a fissare il vuoto. Voi invece che avete trovato di bello, o più probabilmente di brutto?» aggiunse, girandosi verso Matteo e Sharma. «Lavori? Guide alla sopravvivenza per persone che sono finite sul pianeta sbagliato?»

Non avevano trovato molto e Sharma lo spiegò. Non avevano trovato nulla di piacevole, soprattutto, il che fu molto più difficile da spiegare. Il lavoro non mancava, anche se i coloni terrestri avevano e probabilmente avrebbero sempre avuto la precedenza su stranieri di passaggio, ma la manovalanza era comunque richiesta, ancora scarsa l’automatizzazione e i macchinari in generale, per cui chi era disposto a rimboccarsi le maniche e spaccarsi la schiena poteva guadagnarsi almeno il necessario a una sopravvivenza accettabile, se non dignitosa. L’entusiasmo di Indira si sarebbe potuto misurare in quark senza raggiungere la doppia cifra.

«Ci penseremo poi,» disse. «Ci penseremo da domani. Per oggi, godiamoci ancora le gioie di una indimenticabile città al profumo di cantina. E cerchiamo un repellente per insetti, grazie: non so voi, ma oggi me ne girano attorno di continuo e gradirei molto fermarli prima che qualcuno si decida a pungermi, grazie. C’è un limite anche al rustico e lo abbiamo già superato.»

Il giorno seguente visitarono il cosiddetto museo temporaneo, che sembrava davvero una specie di capanno degli attrezzi aggregato all’edificio principale, ma soprattutto sembrava qualcosa che, nato con l’idea di essere uno spazio temporaneo, aveva finito per diventare fin troppo stabile e definitivo per il bene di tutti. Come ogni altro spazio non lavorativo che avessero visto su Madre, pareva pure vuota e visitata soltanto dagli insetti del pianeta.

«Adoro vedere come voi terrestri apprezziate e valorizziate la cultura,» commentò Indira, entrando e guardandosi attorno. Con un poco di fantasia potevi quasi sentire l’eco di giorni infiniti, tutti fatti di vuoto e dimenticanza, rimbombare da una parete all’altra, scorrere sulle teche, sulle riproduzioni tridimensionali, sulle proiezioni, sui sassi veri e sui calchi verosimili. L’odore di cantina era qui una sostanza quasi solida, che ti prendeva a schiaffi, ti afferrava per un orecchio, ti trascinava in lacrime fino alla porta e ti buttava fuori con un calcio ben mirato al coccige. Metaforicamente parlando.

Assai meno metaforico era il tizio che sonnecchiava in un angolo, abbigliato come la parodia di una guida turistica, secondo uno stile che Matteo conosceva fin troppo bene per averlo sperimentato, in un senso molto letterale, sulla propria pelle. Lo stile del “siamo la cara, vecchia Terra, il museo di fossili a cielo aperto”. Lo stile che lo aveva costretto a vestirsi da paggetto durante il primo anno su Lakshmi, nello sciagurato spettacolo al centro culturale terrestre di Varshi. Il ricordo era una ulcera mentale, che si apriva all’improvviso e inondava il suo cervello di sangue caustico. Poi il tizio che sonnecchiava si raddrizzò, si girò verso i nuovi arrivati e l’ulcera mentale di Matteo si aggravò.

«Quello mi sembra di averlo già visto,» sussurrò Mei, mentre il tizio si avvicinava a loro, un sorriso da cadavere ubriaco impresso a fuoco su una faccia incorniciata di capelli rossicci, tagliati forse da un cieco sotto orribili torture. «Ma non l’ho già visto. Vero?»

Matteo sospirò. Lo aveva già visto? Forse, può darsi, probabilmente. Non che avesse importanza. A essere importante era che lo aveva già visto lui e avrebbe fatto volentieri a meno di rivederlo, se non forse in circostanze estreme e quasi disperate. Perché sì, sapeva che Steve Dingledine era anche lui su Madre e sapeva che stava seguendo un qualche corso di specializzazione o roba simile, ma come poteva sapere o anche solo immaginare che il suo cosiddetto corso di specializzazione includeva tra le altre cose anche turni di lavoro come guida in una sottospecie di museo locale? Che razza di corsi di specializzazione stava facendo? Perché toccavano tutte a lui?

Pure, Steve era una faccia nota e, a modo suo, la meno fastidiosa di quelle che avevano infestato e in parte ancora infestavano il centro culturale su Varshi. Meno fastidiosa perché le altre erano molto più fastidiose di lui e se a venirgli incontro fosse stata Maelle, beh, Matteo sarebbe fuggito urlando, ma si sarebbe comunque risparmiato l’incontro. Aveva già deciso di risparmiarsi l’incontro; peccato solo che l’incontro avesse deciso di non risparmiare lui. Al solito. Così modellò la faccia fino a farle assumere una espressione sul tema del “sorriso ma non troppo”, ingoiò il rospo virtuale e si mosse verso Steve, mano tesa ed entusiasmo non pervenuto.

L’incontro fu come tutti gli incontri tra conoscenti che, in posti stranieri, fanno le veci di amici e in certi casi forse anche le loro feci. E come va, come non va, ma dai, ma che ci fai qui, ma mi potevi avvertire, a saperlo prima, ma pensa, e già, non ci credo, che sorpresa, proprio non me lo aspettavo, figurati un po’, ma dai che non c’è problema, non ti preoccupare. Eccetera eccetera, minuti di vuoto che diventavano ore nel tempo interiore dei coinvolti senza colpa e senza voglia. In tutto lo scambio non fu scambiata una sola notizia, a riempire le funzioni fatiche del concordato civile. Poi Steve si accorse che dietro a Matteo si trovavano due esemplari di sesso femminile e tutto il resto svanì.

Le riconobbe? Forse, o forse no. Dettagli senza rilevanza al momento, almeno per lui. Si potevano essere visti al centro culturale, magari durante il periodo di tensione tra Terra e Lakshmi, oppure nei periodici spettacoli che organizzavano a fine primavera, ma perché preoccuparsene? Da quando era stata trasferita altrove la tipa con cui aveva cominciato a lavorare sui protoscarafatti acquatici, Steve non aveva avuto molte occasioni di vedere da vicino donne umane, almeno non sotto i quarant’anni (o anche cinquanta, se era per quello) e non per più di qualche minuto. Adesso ne apparivano due in un colpo solo. Chi mai avrebbe perso tempo con la memoria? Non certo lui.

Con la cupa insistenza e pervicacia di una zanzara alle tre di notte, che ha deciso di invitarti come piatto del giorno al suo banchetto e non accetta manate alla cieca come risposta, Steve Dingledine si inventò cicerone privato di Indira e Mei (e gli altri due) durante la loro visita al museo temporaneo. Presentò uno dopo l’altro i vari reperti, si scusò per le condizioni non ottimali in cui erano esposti, si lanciò in prolungate, sgrammaticate e soprattutto non richieste spiegazioni su vari esemplari della fauna locale, decorò il tutto con battute e spiritosaggini che non ti avrebbero fatto ridere neppure se le avessi assunte assieme a dosi da cavallo di solletico, impreziosì ogni cosa con perle di vita vissuta nella colonia e servì la discutibile prelibatezza alle due ragazze. Che la rispedirono al mittente.

«Non ti sembra di avere esagerato un poco col tuo lavoro di guida?» gli disse Matteo, mentre erano da soli. «Voglio dire, capisco il tuo entusiasmo ma, ecco, forse sarebbe stato meglio...»

«La storia del colono a cui è caduto un occhio dentro il piatto, eh? Sì, la potevo evitare. Ma guarda, ti assicuro che è successo davvero. Non che io fossi presente, d’accordo, ma... Già, non era adatta, capisco.» Steve scosse la testa. «Ha rovinato l’atmosfera, già.»

Matteo trovò la compassione necessaria per astenersi da commenti troppo diretti. «Non direi che è stato proprio questo il problema, non il problema principale, almeno, ma... Di’, com’è che sei finito a fare la guida in questo... questa specie di museo?» gli chiese poi, cercando e sperando di dirottare il discorso verso aree più sicure, sebbene non certo più interessanti. «Avevo capito che eri venuto a prendere una specializzazione o qualcosa del genere, no? O così dicevano i tuoi messaggi, ecco.»

«Beh, sì, sono qui per questo ma, vedi, è che ai ricercatori fanno fare anche altre cose, ecco, cose di utilità sociale, per così dire, tipo corsi ai coloni appena arrivati, o aiutare in lavori che, insomma, è un po’ complicato da spiegare e, sì, adesso non è che ci sia molto tempo così, non so, magari poi ne possiamo parlare in un altro momento, eh? Resti qui a lungo?»

Matteo bofonchiò una risposta evasiva e senza impegno, sul tema del “non so, si vedrà, forse”. Gli altri sarebbero tornati a breve ed era importante prendere tempo e aspettare la cavalleria. Sarebbe stato in salvo, a quel punto. Saluti, niente baci, arrivederci il più tardi possibile, magari mai già che ci siamo, grazie. Peccato solo che Steve non attese.

«Beh, allora magari potremo sentirci una di queste sere, uscire a bere qualcosa assieme, parlare dei vecchi tempi, invita pure le altre, non c’è problema, conosco io un bel posto, lasciami il tuo contatto e poi ci mettiamo d’accordo bene, eh?» Steve sorrideva, Matteo si deprimeva, ma alla fine come gli accadeva quasi sempre alzò bandiera bianca, aprì le porte ai barbari invasori e gettò le armi. E saluti a tutti. Sarebbero usciti a bere assieme una di quelle sere e avrebbe invitato anche le altre, sapendo però come gli avrebbero risposto, per cui almeno su quel fronte non ci sarebbero stati problemi.

La visita guidata riprese. Il copione era lo stesso, con Steve in testa a fare da guida alle due ragazze e Matteo e Sharma in coda a scambiarsi pensieri inespressi. Non fu rapida e non fu indolore, almeno su un piano metafisico e psicologico, ma alla lunga anche quel supplizio si concluse. Quando infine uscirono a non rivedere le stelle, perché era solo primo pomeriggio e il cielo era pure nuvoloso con tendenze a restarlo, persino l’aria stantia della città sembrava un prato fiorito nel pieno fulgore della primavera, a confronto del mortorio asfittico che era stato il quasi museo.

«E non abbiamo visto niente della nuova pietra,» si lamentò Mei. «Neanche una riproduzione.»

«Ma ti interessa davvero così tanto questa nuova pietra? Non sapevo che fossi così appassionata di archeologia,» le disse Indira. «Dovresti discuterne con l’amica malata di mente di Matteo.»

«Non sono così interessata all’archeologia, ma la volevo vedere. È importante.» Mei si strinse nelle spalle. «Invece c’erano solo modelli e riproduzioni di esseri viventi, più qualche altro sasso che era lì solo per una qualche importanza geologica e non archeologica.»

A Matteo non era molto chiara la differenza tra una nuova pietra e qualche altro sasso, ma evitò di commentare. Evitò anche e soprattutto di esprimersi su quella sua “amica malata di mente” secondo la sempre imparziale e misurata Indira. In fondo, da un certo e parziale punto di vista, erano finiti lì per causa sua, per cui doveva aspettarsi una dose di punzecchiate, considerato quanto deludente si fosse dimostrato il pianeta. Che lui non avesse invitato nessuno dei presenti a seguirlo era dettaglio secondario e tutti sembravano avere deciso di ignorarlo. Per quieto vivere lo ignorò anche lui.

«In tema di insetti e altri esseri viventi, quel terrestre vestito da scemo che faceva da guida al museo era particolarmente nocivo e molesto,» disse Indira. «Amico tuo, giusto?» girandosi verso Matteo. «Dalla festa che ti ha fatto quando vi siete visti direi di sì, ma da dove lo hai pescato?»

«Era uno dei tizi che frequentavano sempre il centro culturale terrestre a Varshi, hai presente? Credo che lo abbiate già incontrato anche voi, ma immagino che lo abbiate rimosso dalla memoria. Non è un ricordo piacevole da portarsi dentro il cranio.»

«Direi che non è piacevole da portare da nessuna parte. Ma fa sempre così od oggi era in calore?»

Matteo sospirò. «Per quanto ne so fa sempre così. Mi ha anche chiesto di uscire insieme a bere una di queste sere, mentre siamo qui. E portare anche voi due, ovviamente, per...»

«No!» risposero Indira e Mei in sincronia quasi perfetta.

«Sì, beh, ovvio, immaginavo. Era solo per dire, giusto perché lo aveva chiesto lui, sia chiaro.»

«Tu però ci dovresti andare lo stesso,» disse Sharma. «È qui già da qualche tempo, no? Magari lui sa qualcosa su tuo fratello, oppure potrebbe avere sentito voci su altre persone scomparse...»

Indira sbuffò. «Oh, sì, altri fantastici aneddoti sulla vita del posto! Potrei andarci anch’io, allora. Sì, morta e imbalsamata. Anzi no, neanche morta e imbalsamata,» si corresse subito. «Soprattutto non morta e imbalsamata. Non voglio neanche immaginare cosa farebbe con una donna imbalsamata.»

E su quella nota che avrebbe richiesto a tutti una secchiata di candeggina mentale il discorso scemò, disperdendosi per rivoli vari fino a inaridirsi nel nulla delle giornate che li attendevano. Risorse solo in serata, nel tiepido sconfortevole e sconfortante del loro alloggio, di fronte a cibi sulla cui natura nessuno si sentiva di indagare e col notiziario locale che spandeva nella stanza gli aggiornamenti sui fatti più recenti, o almeno su quei fatti più recenti che potevano essere spanti ad usum delphini e ad usum populini. Non che succedesse molto da quelle parti, in apparenza.

«Parlavi tanto della pietra ed eccoti una notizia sulla tua pietra,» disse Indira a Mei. «Sono arrivati i ricercatori di Agni che si uniranno ai locali per lo studio del reperto e pepperepé. Contenta?»

«A me però interessava vederla, non sapere che altri la vedranno. Ecco.»

«Non sei mai contenta, eh?»

«Oppure potremmo dire che non è Mei contenta,» intervenne Matteo non richiesto. Seguì un minuto di silenzio per contemplare la bruttezza profonda della battuta, mentre il notiziario proseguiva e non fatti si accumulavano nell’aria diversamente soave della stanza. «Se vi ha fatto davvero così tanto schifo potete anche dirlo, eh? Guardate che non mi offendo. Mi avete già offeso tante volte...»

«Credo che il tuo senso dell’umorismo non sia del tutto apprezzabile da persone provenienti da una cultura differente,» disse infine Sharma. «Questo non significa necessariamente che sia brutto, ma è ostacolato e guastato da un problema sottile di incomunicabilità, una barriera culturale che rende ad altri popoli molto difficile un corretto apprezzamento delle tue battute.»

«No, è che fa proprio schifo,» sintetizzò Indira. «Spero almeno che tu ti sia pentito di averlo detto.»

Matteo si arrese. Il notiziario nel mentre riferiva della situazione su Rudra, rara incursione nei fatti di politica estera motivata forse dalla carenza strutturale di cose da dire su Madre. Si era conclusa la serie di attentati e altri incidenti che, per mesi, aveva tentato di destabilizzare il governo rudriano e il conto dei danni indicava una situazione difficile, ma non grave. Il commercio delle terre rare, che per un certo periodo aveva subito limitazioni, sarebbe a breve ripreso al ritmo abituale e i prezzi dei prodotti sugli altri pianeti si sarebbero abbassati di conseguenza. Forse. Se le grandi corporazioni si fossero comportare con onestà. Quindi non sarebbero mai calati, ma solo saliti. Così è la vita.

Ma Matteo non stava più ascoltando il commento dell’annunciatore. Ripensava a Rudra, ai mesi che vi aveva trascorso a spalare letame di un qualche animale nativo, ma soprattutto a quella piattola di un malato di mente che gli si era appiccicata addosso nell’ultimo periodo di vita sul posto. Com’era che si chiamava, poi? Tran Quin, Trin Quong: un nome strano, un nome lungo, un nome che proprio non ricordava più. Non che importasse qualcosa: era anche un tizio che non avrebbe rivisto mai più, per cui dimenticarne il nome era il minimo che potesse fare. Un pazzo aspirante rivoluzionario, uno che era meglio perdere che trovare. E lui lo aveva prima trovato, poi perso, quindi nel complesso si bilanciava come tutto quanto, producendo il solito, consueto, nostalgico zero, cifra della sua vita.

E mancavano ancora due settimane circa al ritorno degli ex colleghi di Davide. Il che non aveva una qualsiasi forma di collegamento col notiziario, i mesi su Rudra o tutto il resto, ma era un pensiero a cui Matteo rimaneva sempre appiccicato, sicut cozza a uno scoglio. Era un riferimento. Non sapeva cosa aspettarsi da quei fantomatici colleghi, non sapeva neppure come fossero, ma erano almeno un possibile passo in avanti, o di lato, o in una qualche direzione. Lo avrebbero portato a capire meglio come fosse stata la vita di Davide lì su Madre. Forse. Con molto ottimismo. No, seriamente: scherzi a parte, erano la sola cosa su cui potesse contare, nel bene o nel male, per evitare che l’intera storia del viaggio si concludesse in un fallimento totale. Quindi...

«Ti sei perso di nuovo nelle terre selvagge e inesplorate all’interno del tuo cranio? Serve un gruppo di ricerca e soccorso per recuperarti e riportarti indietro?»

La voce di Indira lo ricondusse al presente trascinandolo per il lobo di un orecchio metaforico. Gli altri lo stavano fissando, come si aspettassero qualcosa da lui, e magari se lo aspettavano davvero. Il problema era che Matteo non aveva idea di cosa si stessero aspettando da lui, o anche solo di cosa stesse accadendo in generale. Avevano detto qualcosa? Gli avevano chiesto qualcosa? Lo domandò.

«No, non è successo qualcosa,» rispose Indira. «Stavamo solo aspettando di sentire il tuo parere sul programma per domani. Sei consapevole che stavamo discutendo del programma per domani, vero? Hai trascorso almeno qualche frazione di secondo sul nostro piano di esistenza?»

«Beh, non proprio in tempi recenti,» disse Matteo. «Stavo pensando ad altro, ecco.»

«Sì, di questo ci eravamo accorti, e suppongo anche che l’altro a cui stavi pensando non abbia a che fare col programma per domani, giusto? Oppure ci sorprenderai, dicendo che no, in realtà ti eri solo immerso in un livello più alto di consapevolezza, in cui hai già pianificato ogni cosa per i prossimi cinque o dieci anni, seguendo linee di pensiero non accessibili a miseri mortali come noi?»

«Er, sì, qualcosa del genere, ecco. No, è che stavo pensando al periodo su Rudra e...»

«Un pensiero molto appropriato e pertinente alle circostanze attuali, senza dubbio,» disse Indira.

«Perché il notiziario ne aveva parlato e... no, lasciamo perdere, non ha importanza. Dicevate?»

«Si parlava del programma per domani,» intervenne Sharma. «Vuoi che te lo riassuma?»

Matteo non voleva davvero, non gliene poteva fregare di meno del programma per domani o per un qualsiasi altro giorno che non fosse il tempo del rientro dei colleghi di Davide, ma accettò. Ascoltò a mezzo orecchio e cervello lampeggiante, annuì dove serviva annuire, bofonchiò commenti dove i commenti dovevano essere bofonchiati, non si oppose a nulla e accettò tutto.

«Certo che sei sempre molto utile, tu,» disse poi Indira, a programma fatto. Matteo scrollò le spalle. Sarebbero stati giorni vuoti, in cui non aveva alcunché da fare. Giorni di attesa. Giorni di non vita. Che gli altri facessero pure ciò che preferivano per riempirli: lui non aveva obiezioni.

Il messaggio di Steve Dingledine arrivò due giorni dopo e in un certo senso gli riempì la giornata. Anche se non forse in modo molto positivo e soprassedendo sul materiale con cui la riempì, ma in fondo sono dettagli secondari e non hanno rilevanza. Non quanto il pensiero e la consapevolezza di dover spendere e sprecare una serata con Steve. Ma chissà, magari ne avrebbe ricavato qualcosa di positivo. Forse. Con tanto, tanto ottimismo.

In fondo, cosa poteva succedere di male, a parte tutto?