Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 95

Il locale che Steve gli aveva indicato si trovava non lontano dall’edificio in cui avevano sistemato il museo temporaneo. Non è difficile da trovare, gira qui e poi qui, ci arrivi proprio davanti. O così lo descrivevano le entusiastiche indicazioni stradali del quasi amico, che per motivi ignoti non aveva aggiunto una mappa. La realtà fu piuttosto diversa. Matteo Kori lo raggiunse solo dopo avere girato a vuoto per oltre mezz’ora, esistenzialmente incerto su quali fossero i qui e i qui in questione. Quasi tutto il tempo, poi, ebbe anche la compagnia non richiesta di un bastardino di razza indefinibile ma odore molto, molto ben definibile. Il perfetto compagno di viaggio.

Alto poco più di uno stivaletto, il suo aroma intenso avrebbe disgustato anche una discarica in pieno agosto, se mai fosse stato possibile trovare una discarica fornita del senso dell’olfatto, in agosto o altri mesi. E zoppicava. E agitava il suo moncherino di coda. E gli piazzava un naso freddo e umido contro la caviglia ogni volta che lui si doveva fermare a studiare la mappa che si era procurato, nel tentativo quasi sempre fallimentare di farla coincidere con la realtà del quartiere. Matteo lo avrebbe strozzato volentieri, o almeno preso a calci. Non lo fece.

Per strada non c’era molta gente. Anzi, ce n’era proprio poca. Se non fosse stato per quello sgorbio che lo pedinava, avrebbe quasi potuto dire che in giro non c’era un cane. Ma uno c’era. Ahaha. Non sembrava una città notturna, quella. O almeno, non sembrava un quartiere notturno. Il che, per certi versi, era sensato. Steve glielo aveva descritto come la zona degli accademici e gli accademici non dovevano essere nottambuli. Non quegli accademici, almeno. Non nottambuli da strada. Chissà che ne avrebbe detto Chakra, con le sue idee molto particolari su come si dovesse condurre una sana vita da “inserire una professione a scelta che permetta robuste dosi di alcool o facenti funzione di”.

Il cane però era curioso. Matteo non aveva visto cani randagi in altre città di altri pianeti. Neanche molti cani non randagi, in realtà. Su Laozi aveva incontrato solo una specie di roditore gigante, che ricordava un poco un gatto a cui fossero successe cose molto brutte e molto dolorose, e per quanto aveva capito lui era l’animale domestico che andava per la maggiore. Gusti strani. Lui non avrebbe voluto un coso del genere neppure come tappetino del gabinetto, ma a ognuno il suo. Rudra aveva sviluppato alcune razze di cane originali incrociandole artificialmente con animali locali, e lo stesso era accaduto su Lakshmi per quanto aveva potuto vedere, ma entrambi i pianeti non sembravano poi così fissati con gli animali da compagnia, non come lo erano i terrestri. Adesso che era tornato su un pianeta governato dalla Terra, non solo c’erano cani, ma erano anche randagi. Fantastico.

Matteo aveva anche tentato di accarezzarlo, spinto da un afflato fraterno di simpatia verso un altro e forse più sfortunato ultimo della classe. Il cane aveva ricambiato cercando di mordergli la mano, per poi fuggire zoppicando rapido e svanire dietro una curva.

«No ma, simpatico, eh?» Matteo aveva scrollato le spalle e sospirato. Oh beh, almeno un risultato lo aveva ottenuto, ed era stato anche positivo, da una certa prospettiva. Il cane era sparito: un pensiero in meno. Aveva anche aspettato un poco per vedere se il botolo sarebbe tornato, ma non era tornato. Bene. Ottimo. Fantastico. Matteo aveva ripreso le sue peregrinazioni, in cerca della meta.

Ma il cane non aveva importanza nel grande schema delle cose; ne aveva il locale. Non è vero. Pure il locale aveva poca importanza in una prospettiva più larga e a lungo termine, ma se la prospettiva era stretta e a breve termine, limitata diciamo alle successive due o tre ore nella vita di Matteo Kori, allora sì, il locale contava. E finalmente lo aveva raggiunto, dopo avere vagato tra strade identiche e case identiche, su un marciapiede vagamente gommoso e luci poco più intense di un cielo stellato. E il locale che aveva raggiunto era nel piano interrato di un edificio identico a tutti gli altri edifici che lo circondavano su ogni lato. Ovvio che non lo avesse notato. Persino l’insegna era nascosta, quasi si vergognasse di attrarre potenziali clienti. Con un entusiasmo da interrogazione, Matteo entrò.

La vita con Chakra lo aveva costretto ad accumulare una discreta esperienza in fatto di locali. Come i suoi occhi si furono adattati alla scarsa luce del posto, non poi molto diversa dalla scarsa luce delle strade, Matteo si sentì confidente di poterlo ben classificare nella scala chakriana del divertimento. Ultimo posto, o almeno in basso a sufficienza da non cambiare granché. Nessun effetto interessante di luci, nessuna musica di sottofondo o soprafondo, nessun aroma gradevole ma un poco sospetto a riempire l’aria, nessuna decorazione che regalasse un minimo di svago all’occhio, pochi colori, una vaga traccia di verde sconforto e bianco ospedale. E basta. Soltanto sagome curve ai tavolini o al bancone, voci che parlottavano, brevi risate secche, che sparivano subito, in un’atmosfera generale da dopolavoro ai confini della bocciofila. Chakra si sarebbe rannicchiato in un angolo ad attendere la morte, magari dopo aver scritto mille volte “Il mattino ha l’oro in bocca”.

Steve Dingledine gli venne incontro con un sorriso da commesso. «Sei da solo, eh?» disse. «Me lo aspettavo, già, ma non si sa mai, sempre meglio chiedere, no? Bel posto, eh? Vieni, vieni!»

Matteo si lasciò condurre verso un tavolino d’angolo, con qualche ultima occhiata agli altri clienti. Giovani per la maggior parte, o almeno giovanili, ma tutti già appesantiti da quel particolare tipo di vecchiezza che ti si deposita addosso come polvere, o forfora sulle spalle, quando tutti i giorni della tua vita sono uguali a tutti gli altri, e nessuno ti regala anche solo una scheggia di entusiasmo, in un rosario infinito che possiede un grano soltanto. Come essere chiusi tra due specchi, in una galleria di riflessi senza fine, identici, e tutti quei riflessi erano varianti sul tema Steve Dingledine. C’era da fuggire urlando, ma Matteo non lo fece. Per adesso.

«Sono quasi tutti colleghi, qui,» spiegava intanto la sua guida. «È una specie di locale per gente dei centri di ricerca, sai. Ce ne sono parecchi nella zona. Beh, non così parecchi, non come a Varshi, ma parecchi per essere Oklahoma City, su Madre. Siamo ancora un poco indietro coi lavori, sai.»

Tutti suoi colleghi, diceva, ma nessuno lo aveva salutato, o anche solo gli aveva rivolto un qualche cenno, un segno che si fosse accorto della sua esistenza, di quello Steve che guidava un estraneo nel nido della proto-intellighenzia madriana. No, non era vero. Qualche segno c’era stato, se così volevi vederlo, ma non erano proprio segni positivi. Un tizio coi capelli corti e biondi e una faccia un poco da schiaffi aveva guardato verso di loro, ma si era subito girato meglio di schiena. E due poco più in là avevano ridacchiato, forse accennando a Steve. O forse no, difficile dirlo, ma Matteo si sorprese a provare un poco di compassione per il conoscente e a domandarsi se forse, almeno per quella serata, non sarebbe stato meglio pensare a lui col termine “amico”. In via del tutto provvisoria, beninteso, e solo per l’occasione. «Bel posto,» mentì.

Sedettero. Matteo si aspettava un fluire lutulento di lamentele e sofferenze, non proprio i dolori del giovane Steve ma da quelle parti. Era inevitabile. Di cosa mai gli avrebbe voluto parlare quel... ok, quell’amico, ma amico soltanto per la serata? E non ne fu deluso. Non del tutto. Pure, la discussione prese anche strade che non aveva previsto. Strade più larghe, più battute; strade che non giravano soltanto attorno alla lanugine nel proprio ombelico. Uno Steve un poco diverso da quello che aveva dovuto sopportare ai tempi del centro culturale terrestre a Varshi. Poteva andare peggio.

Ci furono le solite domande da persone che non si vedono da tempo e che vogliono fingere di essere interessate alla vita del proprio interlocutore. Matteo abbozzò in poche pennellate un ritratto del suo anno in giro per la galassia con Chakra (parola grossa, quando di fatto aveva visto solo due città su due pianeti, ma il vero storico non deve mai diventare un ostacolo al vero poetico, almeno secondo la sua personale interpretazione dell’arte del raccontare), tralasciando per adesso ogni cenno al caro fratello desaparecido. Ne avrebbe parlato, più avanti, ma non subito. Prima era opportuno sondare il terreno con Steve, capire cosa facesse, cosa sapesse, come fosse la situazione su Madre, eccetera. O così si giustificò Matteo di fronte al tribunale di se stesso.

«Beh, ne hai fatte di cose, tu,» commentò infine Steve. «Hai visto nuovi posti, hai conosciuto nuove persone. Sei indietro col tuo piano di studi ma... ne è valsa la pena, no?»

Matteo si dichiarò d’accordo, ma restando sul vago. Aveva abbellito un poco le sue avventure e non era il caso di perdersi in altre balle: c’era il rischio di non uscirne più vivo. «Ma anche tu qui ti sei sistemato piuttosto bene, no?» cambiò argomento. «È la frontiera, oggi, e chissà quante esperienze avrai fatto, un mondo su cui viveva una civiltà aliena, pieno di misteri, segreti da scoprire...»

«Sì, sì, interessante, non lo nego, ma...» E venne il diluvio, a cui Matteo era preparato ma non tanto quanto gli sarebbe servito. Dovette puntellarsi con più bicchieri di quel beverone che spacciavano per un fantastico cocktail locale e che avrebbe probabilmente indotto Chakra a vomitare o, peggio, a scatenarsi in una scarica di sarcasmo e battute di gusto agghiacciante. Sul versante positivo, almeno non sembrava molto alcoolico. E mentre Matteo beveva, Steve raccontò.

All’inizio non era stato male, diceva. Lo avevano affidato a una ricercatrice un poco più vecchia di lui, non male, personalità interessante (Matteo non volle indagare su quale aspetto della personalità fosse interessante o che taglia avesse quel particolare aspetto interessante della sua personalità). Sì, la tizia lo aveva messo a studiare degli scarafaggi marini o quello che erano e il lavoro non lo potevi proprio definire fantastico, ma c’era anche di peggio, no? Aveva temuto di trovarsi tra le scatole un qualche vecchio barbogio bavoso e invece gli era andata piuttosto bene, una donna sulla trentina o giù di lì. Era anche convinto che presto o tardi, insomma... ci siamo capiti no? Matteo sospirò.

«Solo questione di tempo,» ripeteva Steve. «Solo questione di tempo. Era chiaro. Pensa che avevo anche già cominciato a lavorarmela, sai, un po’ come succedeva quando eravamo a Varshi,» non era mai successo, per quanto ne sapesse Matteo, ma si astenne dal commentare, «e insomma ormai non mancava molto, era ovvio, praticamente ce l’avevo fatta, no? Si vedeva. E sai cosa è successo? Sai cosa è successo, eh?» Matteo non lo sapeva, né era particolarmente interessato a saperlo.

Era successo che non era durata abbastanza a lungo. La tizia (curioso che Steve non usasse mai il suo nome, se lei aveva una personalità tanto interessante, ma Matteo non indagò) stava studiando un qualche tipo di tafano e l’avevano trasferita altrove. «Alla base militare presso l’ascensore vecchio, credo,» spiegò Steve. «Non so se hai presente dove sia, ma non è un gran posto, te lo assicuro io.»

«Ci sei già stato?» chiese Matteo. Base militare presso l’ascensore vecchio. Sapeva che esisteva un altro ascensore spaziale, diverso da quello che avevano usato loro per scendere sul pianeta, ma oltre i ristretti margini urbano della città c’erano solo leoni, almeno nella sua conoscenza del posto.

«No, non ci sono mai stato e non ci voglio andare, ma so come funziona,» rispose Steve con tutta la certezza di un barbiere autoproclamato esperto del mondo e delle persone, oppure un anziano al bar sport della sua città. «Sì sa come va a finire, no? È così ovunque.» E cominciò a spiegare in dettagli che suonavano inventati di sana pianta il modo in cui, secondo lui, funzionavano le cose e andavano sempre a finire dovunque. C’era da farsi crescere il muschio sulle sopracciglia.

I militari erano una piaga, su Madre. Questo, Matteo era pronto ad accettarlo. Ne vedevi ovunque, per strada, e chissà quanti te ne finivano tra i piedi se conducevi una qualsiasi ricerca. Ma per Steve erano una piaga anche in molti altri sensi. Ogni volta che scoprivi qualcosa di interessante, ecco che ti piombano addosso come mosche su una merda (sue parole testuali). Qualcuno trova un fossile ed ecco che loro chiudono il cantiere stradale. Trovano una pietra negli scavi per il museo ed eccoli che ti chiudono gli scavi per il museo. Studi un insetto ed ecco che ti prelevano per portarti in una base militare. «Davvero, non ti immagini quanto sia difficile combinare qualcosa di buono, qui.»

«Ma perché?» chiese Matteo.

Steve scrollò le spalle. «Saperlo! Il professor Thoreau si lamenta ogni tanto, e lui è un pezzo grosso, sai, ma i militari non lo ascoltano proprio. I pezzi più grossi sono loro, da queste parti, ed è meglio che non ti dica pezzi di cosa. Lo puoi immaginare anche tu.»

Matteo poteva immaginare, ma non lo trovava rilevante. «Chi è il professor Thoreau?» chiese.

«Non lo conosci? È il nostro boss, il capo dei ricercatori, non so bene che titolo abbia, ma è lui che si occupa dello studio delle forme di vita locali, presente? Se avessimo un governo vero, immagino che sarebbe un ministro dell’ambiente, o magari anche dell’istruzione o qualcosa del genere, sai, ma comunque è lui che si è occupato fin dall’inizio della terraformazione del pianeta e coordina tutti i vari istituti di ricerca. Era un membro della seconda spedizione, sai,» aggiunse, come se quel fatto bastasse a spiegare ogni cosa. Il che magari era anche vero.

Matteo non sapeva, ma annuiva per quieto vivere. «E tu lo conosci?»

«Beh, non proprio conosco, ma è il mio capo, sai. O il capo dei miei capi. Il vertice della piramide, insomma. Pare che non vada molto d’accordo coi militari, o almeno non con tutti i militari, ma pure lui deve obbedire. Perché sono i militari che comandano davvero. Per adesso.»

Matteo preferì non commentare. Sembrava uno schifo di posto in cui vivere e sembrava uno schifo di posto in cui fuggire, se avevi avuto problemi di qualche tipo con la giustizia sulla Terra, eppure lo aveva fatto. Davide, suo fratello. Si era mischiato a una specie di gruppo di terroristi sulla Terra, poi era fuggito sotto falso nome su una colonia dove comandavano i militari (secondo Steve, per cui le cose potevano anche non andare proprio così), infine era sparito. A Matteo sembrava la fiera della demenzialità ma forse, se cercavi molto ma molto bene, poteva anche esistere una qualche forma di logica sotto a tutto quel cumulo di scemenze. Forse. Con dosi da cavallo di ottimismo.

Steve continuò ancora per un poco a lamentarsi dei militari, poi tornò a raccontare la storia della sua vita sul pianeta. Che non era proprio appassionante, a voler essere generosi. Dopo che la tizia aveva lasciato per andare alla base militare, lui aveva proseguito con lo studio dei suoi scarafaggi marini, non il massimo della vita ma poteva andare peggio. Non gli erano stati proprio assegnati in forma ufficiale, ma a nessun altro interessavano e i suoi superiori non sapevano bene dove sistemarlo, così avevano lasciato tutto com’era. Per un poco. Poi dovevano avere deciso e così gli era arrivato un nuovo incarico che, se possibile, faceva ancora più schifo del precedente. Lo avevano spedito nelle fogne. A investigare su una nuova specie di insetto che ci viveva.

«E quando dico fogne non hai idea di cosa siano, credimi,» spiegò Steve. «Più che fogne erano una specie di complesso di caverne, tanto erano grandi. C’era da perdersi. L’odore poi te lo raccomando. Non so cosa ci scarichino e non lo voglio sapere, guarda. Da morire, credimi.»

Matteo non gli credette. «Le fogne delle città non sono così grosse, dai! Sono tubi che trasportano i liquami, mica ci puoi camminare in piedi, magari anche in due o tre affiancati. Quelle sono storie da romanzi, spettacoli o altra roba inventata. Lo sanno tutti,» concluse, chiedendosi se fossero davvero così. Non gli era mai fregato molto delle fogne, ma non gli sembravano realistiche.

Steve scrollò le spalle. «Io ci sono dovuto scendere e ti assicuro che sono così. So pure io che sono parecchio grandi per fogne normali, ma funzionano anche da canali di scolo per l’acqua piovana o roba simile, credo. Non che piova mai molto da queste parti. Comunque non le hanno costruite così, da quello che ho capito. Hanno riciclato canali che esistevano già sotto la città, forse naturali o forse no. Li hanno scoperti mentre scavano le fondamenta per certi grossi edifici e così si sono detti “Ehi, usiamoli! Lavoro in meno da fare”. O qualcosa del genere, non so.»

«Un qualche reperto degli alieni?» chiese Matteo, per la prima volta interessato.

«Boh, forse sono naturali, che ne so. Sono uno exologo, non un archeologo, un urbanista o come si chiamano quelli che studiano quella roba. Chiedilo a qualcun altro. So quello che mi hanno spiegato quando mi hanno mandato di sotto a investigare sui bruchi luminosi, il resto non me lo posso mica inventare. O sì, se vuoi me lo posso inventare, ma non so quanto ti interesserebbe.»

Più o meno quanto tutto il resto che mi racconti, non rispose Matteo. «Bruchi luminosi?» chiese.

«Bruchi luminosi, sì. La nuova specie di insetto, se sono insetti. Un esemplare lo avevamo già, uno dei lavoratori aggrediti lo aveva catturato, ma ne volevano altri, assieme a studi sul loro habitat e un resoconto sul loro comportamento, cose così, solita roba. E chi ci hanno mandato? Ma il novellino, ovvio! A sguazzare nelle fogne. Che non so poi se fossero fogne e basta o anche altro, ma ti assicuro che puzzavano per mille. Uno schifo.»

«Bruchi luminosi che avevano aggredito due lavoratori?» Matteo non riuscì a tenere l’incredulità a debita distanza dalle sue parole, anche perché neppure ci provò.

«Beh, non proprio aggredito, ecco, e non tutti e due. Uno di quei bruchi aveva spruzzato un liquido in faccia al tizio che si era avvicinato troppo, uno di quei mezzi scemi che quando vedono qualcosa di strano ci vanno a ficcare il naso in mezzo, hai presente? Era in ospedale quando l’ho interrogato, anche se interrogato non è proprio la parola giusta, sembra una cosa da polizia o da scuola, ma hai presente anche tu come funziona, no? Gli ho fatto domande su cosa fosse successo, ho raccolto una copia delle cartelle cliniche, i risultati dell’analisi del liquido, solita roba, sai. Quando poi ho portato tutto ai miei superiori, speravo che se ne sarebbe occupato qualcun altro, sai, non è che avessi molta voglia di infilarmi nelle fogne, e infatti alla fine se n’è occupato qualcun altro, sì, ma alla fine, no? I giri nelle fogne li ho dovuti fare io, per completare la documentazione, ma a studiare gli esemplari e prendersi gli onori sarà un altro. Uno che non è uno specializzando, ma più in alto nella piramide di cui ti parlavo. Sempre se ci saranno onori. Immagino che prima o poi arriverà qualche altro militare, come al solito, e il grosso della ricerca finirà insabbiato chissà dove. Finisce sempre così, qui.»

Matteo annuiva in silenzio, perché era quello che Steve chiaramente si aspettava da lui. E in fondo cos’altro avrebbe dovuto fare? Non sapeva nulla di quella storia, di come funzionasse la ricerca sul pianeta, di chi fossero le persone che Steve continuava a nominare. Meglio sorridere e annuire, così la storia sarebbe finita prima. Non che gli fregasse molto di bruchi luminosi o quello che erano.

Il locale attorno a loro rimaneva tranquillo. Alcuni tavolini si erano liberati, altri erano stati occupati e la vita scorreva come sempre, chi entra e chi esce, nonché chi resta fermo. In gran parte uomini e quasi tutti con la faccia di chi vorrebbe essere altrove, perché nessun altrove potrà essere più noioso del posto in cui si trova adesso. Probabilmente doveva esserci anche un qualche locale analogo, ma frequentato per lo più da donne, ma Matteo era sicuro che in quel locale, ovunque fosse, dovevano avere appeso una foto di Steve con la scritta “Noi dobbiamo aspettare fuori”. Sospirò. Oh beh, non era stata proprio una serata indimenticabile in senso positivo, ma non era stata neppure così orrenda come si era aspettato lui. E no, neanche peggio, anche se poteva diventarlo se fossero continuate le lamentele su fogne e bruchi fosforescenti. Tempo di chiudere, dunque: tanti saluti ma niente baci, ognuno per la propria strada e poi, una volta rientrato all’alloggio...

«Di’, ma alla fine come mai sei venuto qui anche tu? Non mi sembra che ci sia molto di interessante per te. Non come sugli altri pianeti che hai visitato, almeno. Di letteratura non ne abbiamo di sicuro, se è quella che stai cercando. Non c’è proprio niente di bello da raccontare, qui...»

La domanda improvvisa di Steve lo colse figurativamente a pantaloni abbassati in mezzo a un prato. Si era inventato una qualche spiegazione? Aveva pensato a una scusa? La mente di Matteo era tanto vuota quanto il suo conto in banca, soprattutto perché non possedeva alcun conto in banca. Così, col presentimento che era quasi certezza di stare facendo qualcosa di stupido, tanto per cambiare, disse la verità. O una versione simile a sufficienza da poterne fare le veci.

«Tuo fratello su Madre, eh? Ed è sparito.» Steve scuoteva la testa, peggiorando nei ristretti limiti del possibile la sua pettinatura già oscena. «Come è piccola la galassia! Ma ci avevi già detto qualcosa quando eravamo ancora a Varshi, no? Che tuo fratello era interessato al Teatro e tu cercavi notizie su come funzionasse, per fargli un piacere. O qualcosa del genere, credo. Quindi alla fine è partito davvero. Ma pensa.» E giù di nuovo a scuotere la testa.

Aveva detto qualcosa del genere? A Matteo sembrava di ricordare, ma erano passati più di due anni, forse anche quasi tre, e con tutto quello che era successo in mezzo... Ma notizie sul Teatro le aveva cercate, per conto di quella pazza di Kemala, e magari le aveva giustificate davvero inventandosi palle del genere. Non che fosse rilevante. «Sì, è venuto davvero, ma poi pare che si sia perso in una escursione con un collega, sai, o così ha detto l’ambasciata terrestre,» spiegò. «Non mi aspetto certo di combinare qualcosa io, ma sai com’è, è mio fratello, qualcosa dovevo fare, no? Non potevo stare a girarmi i pollici su Lakshmi. Volevo almeno dare una occhiata al posto, chiedere in giro, così.»

«Perché? Se si fosse perso mio fratello, io sarei rimasto su Lakshmi a girarmi i pollici. Affari suoi.»

Matteo boccheggiò un paio di volte, in cerca di una risposta. «Beh, è pur sempre mio fratello,» disse alla fine. «E poi comunque i miei amici su Lakshmi erano curiosi di dare una occhiata al pianeta, sì, e così abbiamo fatto due cose in un colpo solo, no?» aggiunse, mentendo senza scrupoli.

«Oh beh, contenti voi... Non che ci sia molto da vedere qui. Quel che non è nascosto è noioso e quel che non è noioso è nascosto. Non so neanche perché volevano costruire un museo, visto che tanto i militari non lasciano esporre niente. Affari loro. Di’, piuttosto, le tue due amiche...»

Con quelle ultime parole morì ogni possibile rilevanza pubblica della loro discussione. Continuò per qualche tempo ancora, con Matteo che cercava di suggerire che forse, ormai, sarebbe stato tempo di salutarsi e proseguire ognuno per la propria strada, e Steve che non raccoglieva il suggerimento, per reale incomunicabilità o perché gli tornava comodo non raccoglierlo. Alla fine Matteo si arrese e si alzò, inventando la scusa che il mattino seguente si sarebbero dovuti alzare presto per cause non ben precisate e insomma era un peccato, davvero, ma non poteva farci niente. Libertà!

Uscì dal locale da solo. Il cielo sopra di lui era nero, quel nero stinto da città che ricorda un vestito dimenticato per giorni e giorni ad asciugare e seccare sotto un sole estivo e in mezzo alla polvere di strade bianche. Scialbo e schifoso, insomma. C’era umidità nell’aria, una cosa rara da quelle parti, e un leggero vento che odorava un poco di muschio. E di muffa, anche, ma era più gradevole pensare al muschio e ignorarne gli aspetti negativi. Notte triste, un poco malinconica, soprattutto per chi era appena uscito da un incontro con Steve Dingledine, divertente come una carie.

Ancora più malinconico era pensare all’immediato futuro. Il nulla era la marmellata insapore di cui i giorni a venire gli apparivano spalmati. Nulla, nulla e ancora attesa, fino a che non fosse accaduto qualcosa, tipo il rientro degli ex colleghi di Davide. Nel mezzo avrebbe vissuto favolosi giorni per le vie di Oklahoma City a sopportare ironie e sarcasmi di Indira, silenzi infiniti di Mei, espressioni bovine del sempre tranquillo, sempre comprensivo Sharma, il tutto su un pianeta infestato da soldati e puzzolente di cantina. Poteva sentirsi l’erba crescergli addosso.

Che cosa aveva ricavato dalla serata con Steve? Nulla, a parte un cane che lo aveva seguito per un poco, annusandogli le caviglie e cercando di morderlo se allungava la mano per accarezzarlo. Storie di grandi tunnel sotterranei riciclati come fogne, dove vivono bruchi luminosi, e lavoratori aggrediti dai suddetti bruchi. Storie di militari ovunque, sempre pronti a romperti palle e ricerche. Storie non raccontate ma implicite di come Steve fosse un paria tra i colleghi, pecora nera del gruppo, ultima ruota del carro, la metafora che preferite. Oh, giusto, giusto, c’era anche la massima del professor Thoreau, che Steve aveva citato un paio di volte e che sembrava più minima che massima, ma ci si doveva pure sapere accontentare. Com’è che diceva, poi? Qualcosa sul fatto che bisognasse sempre ascoltare e investigare i racconti dei coloni, per strani che fossero, perché potevano nascondere una qualche verità. O giù di lì: Matteo ne era rimasto tanto impresso che l’aveva già dimenticata. Bah!

Serata inutile. A voler essere misericordiosi, qualcosa di buono lo aveva fatto, tenendo compagnia per un poco a un conoscente che sembrava soffrire di solitudine cronica. Una forma di volontariato, da assistente sociale o quello che è. A voler essere realistici e concreti, invece, aveva sprecato una manciata di ore della propria vita che non avrebbe riavuto mai più. Il crimine più grave, secondo alcuni, ma anche un crimine di cui Matteo si era già macchiato così tante volte nel corso della vita che una volta in più non avrebbero fatto alcuna differenza.

Si concesse una breve sosta davanti al portone dell’edificio, nel silenzio della notte cittadina, sotto una sventagliata di stelle a lui ignote, ma che probabilmente erano in gran parte le stesse già vista su altri pianeti ma distribuite in modo diverso, perché diverso era il punto della galassia in cui Madre si trovava. Poteva anche esserci qualcosa di romantico e poetico, se non fosse stato per l’onnipresente puzza di cantina della città. Che cosa avrebbe fatto nei prossimi giorni? Che cosa avrebbe fatto della sua vita in generale? Non lo sapeva. Non riusciva a immaginare un futuro.

Sospirò. Ma era giovane, aveva molte strade davanti, molte possibilità, tutto il tempo che voleva, e non c’era poi davvero tutto questa fretta di decidere. Qualcosa dentro di lui gli diceva che, se avesse continuato a pensarla così, il tempo sarebbe finito e per lui ci sarebbe stato solo il vuoto definitivo di una esistenza sprecata guardando altrove, mentre la vita gli scorreva attorno, ma era un pensiero che Matteo si impegnò a fondo per soffocare nella culla, con un bel cuscino premuto sulla faccia. Il tempo c’era. C’era sempre tempo. E prima o poi avrebbe deciso. Sì. Certo. Ovvio. Salì.

All’ingresso nell’alloggio, Indira lo accolse col suo miglior sorriso di derisione, quasi a provare che no, non c’era sempre tempo e non avrebbe deciso mai, non lui, non uno come lui. Per quelli come lui c’era solo il nulla eterno. O forse si stava immaginando tutto, ma a Matteo piacque interpretarlo così, in quel preciso momento. «Divertito molto col tuo amico?» chiese l’amica.

«Tantissimo, guarda.» Ma poi spuntò anche Sharma e così Matteo dovette raccontare tutto o quasi. Il giudizio fu unanime: serata sprecata. «Almeno hai fatto qualcosa di buono, tenendo compagnia a una persona che soffre chiaramente di solitudine,» commentò Sharma, dimostrando di saper leggere le parti peggiori della sua mente, o almeno le parti che il diretto interessato riteneva peggiori.

«La prossima volta puoi tenergli compagnia tu, se ti importa tanto il suo benessere,» disse Matteo.

Ma la prossima volta non sembrava dover arrivare, almeno a breve. Seguirono giorni vuoti, di nulla, in cui girarono per la città in cerca di qualcosa che valesse la pena di guardare e che non fosse stato occultato dai militari, se le parole (paranoie?) di Steve erano vere e i soldati interpretavano il babau cattivo che ti ruba tutti i giocattoli più belli. Non che i babau rubassero davvero i giocattoli, almeno per quanto Matteo potesse ricordare sui mostri immaginari dell’infanzia, ma siccome non gli veniva in mente una immagine migliore, si accontentò di quella. In fondo era destinata a rimanere sepolta nella sua testa e non l’avrebbe certo mostrata ad altri, per cui non c’erano problemi.

Si interessarono senza reale interesse ad alcuni possibili lavoretti, nel caso sempre più probabile in cui si sarebbero dovuti fermare a lungo su Madre. Nessuno sembrava desiderarlo davvero e nessuno ne parlava, ma il parere generale era che la loro permanenza sul pianeta sarebbe durata molto più di quanto avessero previsto, nonché molto più di quanto alcuni avrebbero desiderato. Tipo Indira, che pareva avere preso l’inevitabile arretratezza della colonia come una offesa personale e non perdeva alcuna occasione per sottolineare quante cose mancassero lì. Quando l’occasione non si presentava da sola, provvedeva lei stessa a costruirsene una, in un qualche modo.

«Davvero, io ve lo avevo pure detto che non eravate obbligati a seguirmi, anzi: potevo fare tutto da solo e me la sarei anche passata meglio,» commentò Matteo, una sera in cui lo zanzario continuo di Indira gli aveva urtato oltremisura i nervi, per non menzionare altre parti anatomiche sottoposte a un simile maltrattamento metaforico. «E poi lo sapevi già che sarebbe stata così. Perché ti lamenti ora? Non era meglio evitare fin dall’inizio?»

«Avrei evitato molto volentieri, ma da solo tu non te la saresti cavata meglio: non te la saresti cavata proprio. Lo abbiamo già visto su Lakshmi cosa combini, quando nessuno ti sorveglia. Figurati su un pianeta che ha appena cominciato la fase di colonizzazione e su cui un membro della tua famiglia si è già riuscito a perdere per conto suo. No, tu sei un fesso da portare in giro al guinzaglio, lo sai.»

Matteo avrebbe potuto replicare, ma lo aveva fatto già altre volte ed era servito a qualcosa? No e lo stato di cose non sembrava poter migliorare a breve. Quindi rinunciò. Si arrese. E spense almeno in parte le orecchie, così da non dover sentire troppe lamentele. Aggiunse solo una ultima cosa. «È per la storia della responsabilità lakshmita, vero? Sempre quella palla.»

Indira scrollò le spalle. «Più o meno. Abbiamo una certa quantità di responsabilità nei tuoi confronti e dobbiamo tenerti sotto controllo anche quando non lo vorremmo. E sì, come ti ha già spiegato e ti può spiegare di nuovo Sharma, se proprio lo desideri, è una questione di dovere, per noi: il principio di responsabilità ci è stato inculcato dalla nascita e ormai è diventato una specie di seconda natura in ogni buon cittadino lakshmita. In casi come questo, ti assicuro che ne farei volentieri a meno.»

«Strano che Chakra non ne sia stato colpito così tanto,» disse Matteo.

«È per questo che ho specificato buon cittadino lakshmita.»

La discussione si trascinò ancora per qualche paragrafo, poi morì come tutte le discussioni, prima o poi, specie quando nessuno ha davvero voglia di discutere. Ebbe un ultimo colpo di coda e sembrò a un tratto poter rinascere, quando Sharma suggerì un paio di possibili posti da visitare, dove magari sarebbero riusciti a trovare un lavoro decente, almeno alcuni di loro, ma l’ora si faceva tarda e non era proprio un argomento per la buonanotte. Ne avrebbero parlato domattina, ok? Tanto c’era ancora tempo, non era così urgente, e poi davvero, adesso proprio non me la sento.

La mattina seguente gli altri ne avrebbero forse discusso, ma Matteo no. Era il giorno in cui Davide sarebbe stato dichiarato ufficialmente disperso e, pur non avendo capito bene come funzionasse, che cosa sarebbe cambiato di preciso e tanto altro, lui voleva essere presente di persona. Chissà, magari c’era un qualche tipo di cerimonia formale per quelle occasioni, oppure gli avrebbero rilasciato una specie di attestato, o una personalità locale avrebbe tenuto un discorso. Niente di tutto questo, quasi di sicuro, ma sentiva che era comunque meglio esserci e vedere, anche solo per ricordare la propria esistenza al mondo. Così Matteo uscì di buon’ora, non col suo vestito migliore (non ne aveva), ma vestito in modo passabilmente dignitoso, aprì il portone su una giornata nuvolosa ma non troppo, si riempì i polmoni di aria aromatizzata alla muffa, uscì, vide il cane, vide cosa restava del cane, vide cosa aveva calpestato del cane e si fermò.

Forse non era lo stesso bastardino che lo aveva pedinato quando era andato all’incontro con Steve. Difficile dirlo. I pezzi potevano anche esserci tutti, ma erano distribuiti sulla strada con uno stile da puzzle per bambini, grossomodo dai cinque agli otto anni. Uno era distribuito sotto la sua scarpa, al momento, dettaglio che non si intonava con la colazione. Non si intonava per niente. Matteo sentì il vomito bussare alle porte della gola e trattenerlo era una fatica. Ci riuscì, per un poco, poi si dovette affrettare verso un angolo nascosto del vicolo per concedersi un bel giro di giostra gastrica.

Quando si fu ripreso e pulito la bocca, tornò a guardare la bella sorpresa che si era trovato davanti al portone quella mattina. A guardarla di sfuggita, perché era una scena che faceva male agli occhi, ma soprattutto all’apparato digerente. Chi era stato? O cosa era stato, in effetti. Non sembrava il lavoro di una persona. Forse. Se eri ottimista e credevi nella bontà fondamentale degli umani. Matteo non lo era e non lo credeva, ma trovava ugualmente difficile pensare che qualcuno avesse avuto voglia e tempo di passare almeno una mezz’ora a smembrare un cane randagio in mezzo a una città.

Il che suggeriva pensieri ancora più sgradevoli. Esistevano animali predatori su Madre? Non che lui lo sapesse. Non esistevano molti animali in generale, stando a quanto aveva sentito lui. La maggior parte li avevano dovuti importare dalla Terra, dopo averli modificati il necessario per adattarli a un pianeta diverso. Nessuno sarebbe mai stato così stupido da importare animali predatori pericolosi, è vero? Matteo rigirò un poco la domanda nella propria mente prima di riconoscere che sì, esistevano persone così stupide da farlo. Ne esistevano parecchie. Ma non erano tra quelli che controllavano gli accessi al pianeta, giusto? Poteva sperare di no.

E dunque? E dunque Matteo non aveva risposte, ma soltanto un cane randagio smembrato davanti al portone, una scarpa sporca, uno stomaco che ancora galleggiava incerto e inaffidabile, una mattina e magari una giornata intera rovinata da un pessimo inizio. Fantastico. Magari c’era qualcosa che lui avrebbe dovuto fare, in casi simili, ma lui non sapeva cosa, per cui non fece nulla. Rientrò giusto il tempo per cambiarsi le scarpe, masticando imprecazioni assortite al pensiero di dover pulire il paio che aveva indossato, poi uscì di nuovo, ma con molta cautela. Riuscì ad aggirare senza altri danni il macello, che era un macello quasi alla lettera, non solo in senso figurato, e si lasciò alle spalle cane, strada sporca, sorprese mattutine e tutto il resto. Era il giorno in cui Davide sarebbe stato dichiarato disperso. Non era cominciato nel migliore dei modi.

Non sarebbe finito nel migliore dei modi, anche se di drammi ulteriori non ce ne furono. C’era solo un fratello che non aveva visto da oltre tre anni e che ormai sentiva non avrebbe rivisto mai più, che era disperso (ufficialmente) su un pianeta in gran parte ignoto e disabitato, che si era portato con sé tutte le ragioni che lo avevano spinto a sparire, ammesso e non concesso che le ragioni ci fossero. E basta. A breve i suoi ex colleghi sarebbero tornati in città, Matteo li avrebbe incontrati, e poi? E poi non lo sapeva, non lo riusciva a immaginare. Poi si sarebbe dovuto inventare qualcosa.

Cosa? Forse era tempo di pensarci seriamente.