Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 11

L’estate su Lakshmi era una stagione viva. Molto viva. Pure troppo, per i gusti di Matteo Kori. Viva in tutti i sensi, ma soprattutto in sensi che, all’interno di una città, lui non avrebbe mai immaginato di dover prendere in considerazione. Ma era su un altro pianeta, già: dettaglio che, ogni tanto, finiva per dimenticare. Era su un altro pianeta e l’estate era una stagione viva, lì.

Di giorno, fruscii e canti di ogni tipo si levavano da alberi, prati, tetti e ogni altro punto della città e delle campagne. Erano i suoni della vita che viveva, i suoni di insetti, animali e uccelli, impegnati a muoversi e a inseguirsi l’un l’altro, come lasciavano immaginare i versi sincopati e frenetici, che di tanto in tanto si sentivano tra l’erba, tra i rami, ma anche in vicoli deserti di Varshi. Un improvviso, breve battere di ali, zampe che grattavano il suolo, squittii o grida stridule: questo il concerto che accompagnava le giornate di ogni lakshmita, da quando il caldo moderato della primavera aveva ceduto il posto al caldo decisamente non moderato dell’estate.

La città intorno a Matteo era diventata un unico campo di battaglia, dove scontri si accendevano sui tetti, fuori dalla loro vista, e piccole sagome confuse sfrecciavano di colpo da un lato all’altro della strada, a volte a una decina di passi da lui, bloccandolo per la sorpresa. Sembrava che, assieme al caldo, fosse arrivata la pazzia o una fame totale, incontrollabile, per cui tutto doveva mangiare tutto, o almeno provarci, dovunque, in ogni momento.

«Ti ci abituerai» gli aveva detto Sharma. «È sempre così, nella prima metà dell’estate, poi il ritmo si calma e torna tutto normale. O quasi. Vedrai e sentirai comunque molta più vita naturale, rispetto al resto dell’anno.»

«Ma... anche in città? Non dovrebbero stare nei campi?» Matteo non aveva mai assistito a scene simili, sulla Terra, o almeno non dove viveva lui; qualche cane che inseguiva un gatto, certo, o un gatto che faceva la posta a topi e piccioni, ma non quella guerriglia urbana, interminabile tra ogni forma di vita. Nella sua mente, gli animali si tenevano lontani dai luoghi affollati dall’uomo.

«In campagna è peggio, dicono. Ma la città ha avuto molto successo, non so perché. Può darsi che i palazzi e le strade formino un’area tanto valida quanto gli alberi e i cespugli, per la caccia, o forse si divertono a dare spettacolo e sentirsi guardati. Non lo posso escludere, in effetti: gli animali sono piuttosto insoliti, sul pianeta, e per la maggior parte delle specie non abbiamo ancora un quadro completo dei loro schemi comportamentali. Ammesso che ne esista uno. Gli exologi si muovono ancora in un campo pieno di punti interrogativi, per quanto ne so io.»

Matteo aveva sospirato e alzato le spalle, archiviando quell’assurdità come uno dei tanti fatti strani del pianeta su cui era finito. I versi che sentiva, però, continuavano a dargli i brividi, soprattutto la specie di gorgoglio che risuonava per alcuni secondi durante la notte: era semplicemente disgustoso, aveva un che di maniacale, come la risata di uno psicopatico. Indira gli aveva spiegato che il verso lo faceva un insetto, quando catturava qualche piccolo animale.

«Un insetto che cattura animali,» aveva commentato Matteo, con voce piatta. Anche quella idea non apparteneva allo schema che regolava i rapporti di forza tra gli esseri viventi, almeno nella sua testa. «Intendi animali con pelo, coda, artigli, più o meno mammiferi...»

«Tieniti stretto il “più o meno”, perché si sono sviluppati in modo piuttosto diverso, rispetto agli animali terrestri. A ogni modo sì, quelli. Perché?»

«Un insetto che cattura animali

Indira sospirò. «È un insetto piuttosto grosso e gli animali sono molto piccoli, come gli esemplari più piccoli dei roditori o degli uccelli, per usare termini a cui sei abituato. Un insetto innocuo per l’uomo,» si era affrettata ad aggiungere, notando l’espressione dell’amico. «Noi siamo decisamente troppo grossi, per lui.»

Matteo si era augurato di non doverlo mai vedere di persona, innocuo o meno che fosse. Sapeva degli insetti di Svarga, la più antica delle colonie, ed era contento di averli a qualche anno luce di distanza. Per lui, gli insetti non dovevano essere intelligenti, ma solo affari con molte zampe, o con le ali, che ti ronzano attorno e si uccidono con una ciabatta. Che lì su Lakshmi ci fossero insetti capaci di catturare e divorare mammiferi, o quantomeno animali simili, era una pessima notizia.

Sempre in tema di insetti, però, i pishacha erano la parte più molesta dell’estate, pur non rientrando tra le cose più pericolose, e alla fine anche Matteo era stato costretto a cedere a Sharma e ricoprirsi con quel repellente che, a suo parere, era altrettanto efficace nel tenere a distanza gli uomini che gli insetti. Così, la sera del sesto giorno di Estate, Matteo era arrivato dagli altri in giardino, avvolto in una nube al profumo di vino rancido.

Sharma aveva alzato la testa, annusando l’aria. «Sento l’odore del terrestre» aveva detto a Indira. «Si sta avvicinando, là. Forse lo ha attirato il cibo: presto, nascondilo!» Indira aveva riso, Matteo li aveva mandati entrambi a quel paese e si era seduto assieme a loro al tavolino. Avevano studiato in un sottofondo di ronzii, con ombre di ogni tipo che volavano attorno a loro, ma nessun morso, né il tipico marchio a due punti che lasciavano quelle libellule-zanzare. Marchio da vampiri, pensava.

Gli insetti erano fastidiosi, certo, ma non erano ancora il peggio. Il peggio era il caldo, l’aria verde e soffocante della notte, che sembrava avvolgerti la gola e ricoprirla di muschio. Per quella non c’era un repellente, nessuna protezione funzionava, mentre eri all’aperto. In casa sì, in casa si stava bene, ma camminare all’esterno era una prova di coraggio, lasciata a chi era più in forma o più pazzo, di giorno. Di notte, quando soffiava una leggera brezza dalle campagne attorno, riempiendo l’aria di odori ignoti (per Matteo), potevi anche sopravvivere, in giardino, ma solo nei primi venti giorni: dal venti al sessanta, invece, dicevano che il caldo fosse una massa solida a ogni orario, tanto di giorno quanto di notte.

Lo chiamavano “il Muro”, quel periodo, in cui il caldo raggiungeva i massimi livelli ed era davvero qualcosa di solido, una muraglia che ti bloccava e, a volte, ti schiacciava. Periodo in cui era meglio, molto meglio affidarsi alla tecnologia e restarsene all’interno degli edifici, perché la vivibilità del pianeta era decisamente ai suoi minimi. Per motivi che Matteo non avrebbe saputo indicare, non fu sorpreso quando scoprì che proprio quel periodo, il famigerato Muro, era stato scelto per gli esami di fine corso, così come la parte più rigida dell’inverno era riservata all’altra sessione di esami.

Ne aveva tre da preparare, per quella sessione, o almeno tre da tentare: i due corsi che aveva seguito assieme a Indira, cioè Storia della Letteratura Lakshmita e Filogia Lakshmita, più un terzo corso di Storia della Critica Letteraria, un mattone abnorme che, finora, gli era servito soltanto a superare i problemi di insonnia e ad accentuare quelli di torpore post-prandiale. Gli aveva anche permesso di scoprire, sempre senza sorpresa, che la critica letteraria non conosceva confini di mondi o culture: era sempre uguale, in qualunque tempo e luogo. E spaventosamente noiosa. O almeno, questi erano i suoi gusti e le sue impressioni.

Dubitava di farcela, col terzo esame, ma gli altri due erano piuttosto piacevoli da preparare. Non per merito della materia, se non altro, ma per merito della compagnia, dato che spesso li poteva studiare assieme a Indira, in una saletta a pianoterra dell’alloggio studentesco. Studiare assieme a una bella ragazza era sempre una esperienza piacevole, dal suo punto di vista, e probabilmente avrebbe potuto trovare piacevole anche il calcolo differenziale, in quelle circostanze. Probabilmente.

Spesso con loro c’era anche Sharma, in un angolo a borbottare qualche capitolo dei propri esami, ma non sempre: in certi casi, diceva di preferire la quiete della stanza. Matteo non insisteva mai per trattenerlo, così come non insisteva per trattenere o invitare altri studenti della loro residenza, con cui magari divideva corsi ed esami da preparare. A volte però capitava. Per somma fortuna, però, Chakra si faceva vedere di rado, in quel periodo, forse impegnato anche lui con lo studio, o forse in tutt’altre faccende affaccendato: Matteo non se ne lamentava.

Non che avesse qualcosa di preciso contro Chakra, sia chiaro. Era una brava persona, per certi versi, e non poteva negare che le conversazioni con lui, oltre ad arricchire il vocabolario di termini che è meglio non usare in buona società, gli avevano mostrato scorci di Lakshmi che, ne era sicuro, non si sarebbero mai fatti vedere con Sharma. Il problema principale di Chakra era... Chakra stesso. Il suo carattere, così diverso da quello di Matteo, la sua capacità di riempire ogni spazio attorno a sé, come il più tremendo dei peti, la sua abitudine di spingerti nella merda e poi spiegarti perché tu ci fossi finito (spiegazione che, per qualche motivo, non includeva mai il “perché ti ci ho spinto io”). In breve, una persona che poteva anche essere interessante avere attorno, forse persino istruttivo, ma solo se assunto a piccole dosi.

Il primo giorno del Muro, così, era nella saletta assieme a Sharma e Indira, impegnato a ripassare per gli esami imminenti. Sharma sedeva a occhi chiusi, una bibita ghiacciata accanto, mentre con un orecchio ascoltava la voce costante e artificiale, che gli ripeteva il capitolo odierno, nella sua posa da studio più abituale. Lì vicino, Matteo si stava facendo spiegare da Indira l’utilizzo della forma passiva nel lakshmita classico, argomento che trovava interessante come un asciugamano. Stava per chiederle la traduzione di un’altra frase che proprio non aveva capito, una iscrizione corsiva lasciata da uno dei primi coloni, quando Indira alzò le mani e si arrese.

«Basta, ti prego!» esclamò. «Non ne posso più di ‘sta roba!»

Sharma aprì gli occhi e si girò verso di loro. «Non è niente» gli spiegò Matteo, prima di rivolgersi a Indira. «Cambiamo argomento, se vuoi. Non è che sia molto interessante la filologia, dopotutto, ma è che non ci capisco proprio niente...»

«Lo vedo. Qualcuno ti aveva anche suggerito di mettere il corso al secondo anno, ma tu...»

«Ma è che ormai...»

«Ormai e orsempre,» sospirò. «Facciamo almeno qualche minuto di pausa, ok, che non ne posso più di sentire la stessa roba, ancora e ancora e ancora! Sei snervante...»

«Hai ragione, scusa.» Matteo teneva gli occhi fissi al tavolo, per non dover incrociare i suoi. Sì, lei si era offerta di aiutarlo, con filologia, ma forse lui stava esagerando un poco. Si sentiva come... come un pishacha, ecco. Il che era pur sempre meglio di quei cosi che mangiano gli animali, almeno dal suo punto di vista. Ma non molto.

«Digli del dopo-esami, già che ci sei» intervenne Sharma. «Magari gli interessa, così per un poco non penserete alla filologia. Può rivelarsi nociva per la salute umana, se assunta in grandi dosi.»

«Pensavo che l’avessi già fatto tu» gli rispose Indira.

«Non ti avrei mai privata di questo onore.» Sharma le sorrise, poi si girò di nuovo verso la finestra e chiuse gli occhi, ascoltando la lezione. «E poi me ne ero dimenticato» aggiunse.

«Il solito filosofo inutile...»

Matteo guardò prima l’uno e poi l’altra. «Di cosa state parlando?» chiese. «Qualcosa che riguarda anche me? Perché, nel caso, vorrei saperlo anch’io, se non vi è di troppo disturbo.»

Indira sospirò. «Ma sì, ti riguarda, se ne hai voglia... Dopo gli esami, pensavamo di andare con gli altri a Bishapur, per farci una vacanza. Dopo il Muro, ovvio, perché durante il Muro non si campa. Se sei libero col tuo lavoro, puoi unirti anche tu. No, beh,» si corresse, con un gesto della mano, «se ne hai voglia, più che altro, perché libero sarai libero di sicuro. A fine estate è pausa per tutti.»

«Beh, sì... subito dopo il Muro, no? Il centro è chiuso, per cui sì, sono libero in quel periodo, però non so cosa sia Bishapur. Un posto, suppongo, ma...»

Indira si passò una mano sulla fronte. «Già, mi dimentico sempre che non sai un tubo. Bishapur è la città sulla costa che c’è qui vicino. Non molto vicino, in effetti, almeno in termini di distanza, ma ci si arriva in un paio d’ore di viaggio. È dove vanno quasi tutti, in estate. Ne avevo anche già parlato, mi pare.»

Nei torbidi liquami della propria memoria, Matteo ripescò quel nome. Sì, lo aveva già sentito, in effetti. Era quasi convinto che fosse collegato a Bogdan, ma questo sarebbe stato pretendere troppo da lui: ricordare dettagli così precisi? Vana speranza.

«Aveva a che fare con Bogdan?» chiese.

«Uhm... sì, è vero, era uscito nel discorso quando ce lo avevi presentato. Ricordi, adesso?»

«Grossomodo. Un posto per le vacanze al mare, insomma.»

«Sì, esatto, un posto qui sul golfo. Pensavamo di andarci per qualche giorno, dopo gli esami e prima dei corsi autunnali. È un modo per staccare la spina e pensare ad altro, no? E per ricaricarsi in vista delle nuove lezioni.»

«Beh, è interessante, sì...»

«Vieni anche tu, non vogliamo lasciarti qui da solo, nella grande città. Chissà cosa combineresti...» disse Sharma, senza aprire gli occhi. «E poi, come dici tu, io sono la tua balia, no? Mostrarti il mare del pianeta e farti conoscere i suoi abitanti rientra nei miei doveri estivi. Non sei curioso anche tu di vederli? Pare che i turisti li considerino pittoreschi.»

«Abitanti dei vostri mari?»

Indira sospirò. «Sta scherzando, non prenderlo sul serio. Non ci abita nessuno, se non i soliti pesci e affini. Ok, magari non proprio i soliti, per te, perché dubito che saranno come quelli che conosci tu sulla Terra, ma non ti preoccupare, non ti mangeranno certo, finché stai vicino alla riva.»

«Ah. E se non stai vicino alla riva?»

«Mai provato e non ci tengo a scoprirlo. Ma anche sulla Terra non è molto sicuro andarsene da soli in alto mare, giusto?»

Possibile, per quel che ne sapeva lui, ma la cosa non lo rassicurava molto, se davvero voleva essere una rassicurazione e non una nuova presa in giro. Dettagli secondari, in fondo. Non era ai pesci che stava pensando, al momento, e ciò che riempiva i suoi pensieri era molto più incoraggiante. I pesci non occupavano certo il primo posto nelle sue immagini mentali, parlando di mare e spiagge. «Beh, sì, potrei anche venire...» disse. «Sarei curioso di vedere...» senza specificare cosa fosse curioso di vedere, dettaglio che Chakra avrebbe probabilmente fatto notare, mettendolo in imbarazzo.

«Aggiudicato, allora! Anche il terrestre si unisce alla banda. Peccato che l’altro non possa, ma uno è sempre meglio di nessuno, no?» concluse Indira.

Ah, quindi io sono la seconda scelta. Ottimo, pensò Matteo. Considerando il numero di terrestri noti a Indira, l’altro non poteva essere che Bogdan. Aveva dunque provato a invitarlo, ma Bogdan non aveva accettato, per una qualunque ragione. Comprensibile, dopotutto, con la laurea specialistica in inverno e tutti i preparativi da fare. Comprensibile, ma meno simpatico, che fosse stato invitato per primo, ma Matteo non si faceva molte illusioni su chi fosse più attraente, tra lui e Bogdan, nonché su chi rappresentasse la compagnia migliore. Scosse la testa, virtualmente, di fronte alle ingiustizie del mondo.

«Tornerò alla filologia, che è meglio,» disse poi, chinando di nuovo il capo sugli studi.

«Ti arrangi da solo o ti serve ancora la bambinaia?» gli chiese Indira.

«Mi arrangio da solo, ormai credo di aver capito.» Il che non era vero, ma pazienza. In un qualche modo, si sarebbe arrangiato da solo. Come era abituato a fare sulla Terra, del resto. Arrangiarsi da solo. Cercando di non rimuginare troppo sui propri sentimenti offesi. In fondo, qualche giorno in spiaggia avrebbe senza dubbio presentato prospettive interessanti e meritevoli di essere considerate. Anche in solitario, successivamente.

Qualche giorno dopo, alla vigilia del suo primo esame (Storia della Letteratura), Matteo contattò di nuovo Bogdan. Era da un po’ che non si sentivano, sia perché erano impegnati entrambi, sia perché forse avevano altro per la testa, come spesso succede: uno alle prese con la prima sessione di esami della propria carriera, l’altro che preparava invece la conclusione della propria vita universitaria... impegni, appunto. Poco tempo libero. Tutto qui.

Anche adesso, Matteo non lo stava certo chiamando per saperne di più sull’invito al mare e sul suo conseguente rifiuto. Erano affari di Bogdan, non ci avrebbe mai messo il naso. Avrà avuto buoni, anzi ottimi motivi per rifiutare, proprio come Indira aveva avuto buoni motivi per chiamare lui per primo e, solo in seconda battuta, anche Matteo. Voleva parlare con l’amico, per saperne di più sugli esami. Un consiglio da chi ci era già passato, la saggezza dei più anziani, quanto avrebbe potuto pesare la sua conoscenza non perfetta della lingua lakshmita, e così via. Esami, appunto. Voleva parlare degli esami. Niente altro. Era logico, del resto.

Proprio per questo, la prima domanda che fece fu sul viaggio al mare, a cui Bogdan aveva deciso di non partecipare.

«Sì, in effetti è un peccato dover rinunciare, ma sarò pieno fino alla fine dell’estate e forse anche un poco più in là. Divertitevi anche per me, già che ci siete: mi raccomando!»

«Ma è la tua ultima estate, qui... sei proprio sicuro?»

«Ultima estate da studente, sì, ma chissà... magari in futuro avrò qualche opportunità di tornarci da turista» rise Bogdan. «A ogni modo, è un peccato, lo so, ma come ho detto non mi posso permettere vacanze, ora come ora. Ho un capitolo della tesi specialistica da rifare, perché alcuni calcoli si sono rivelati un errore della macchina, e non è che mi resti molto tempo. Sarà uno schifo di estate, in altri termini, e il relatore non mi è proprio di aiuto.»

«Ah, mi spiace,» rispose Matteo, moderatamente sincero. «Io invece avrò il primo esame, domani.»

«Pronto?»

«Uhm... spero.»

«Ti stai cagando sotto?»

«Non la metterei proprio in questi termini, ma...»

«Sì, sì, capisco. Guarda, ero praticamente certo che gli sarei svenuto davanti, al prof» disse Bogdan, ridendo. «Ma non sono svenuto. Lui ha parlato piano, per aiutarmi, perché non ero il suo primo straniero e sapeva come trattarmi, e io ho capito tutto. E ho risposto a tutto. Non è stato il miglior esame della mia carriera, per carità, ma l’ho passato. E lo passerai anche tu.»

Parlarono a lungo, dei più vari argomenti, e Bogdan gli dovette descrivere in dettaglio ogni istante del suo primo esame, anni prima, quando aveva ancora poca esperienza della vita su Lakshmi e tutto gli sembrava strano, incomprensibile. Un po’ come sembrava adesso a Matteo, insomma, che lo tempestava di domande senza pietà né misericordia. Bogdan gli raccontò così che era spaventato, che temeva di non farcela con la lingua, di non riuscire a capire le domande del professore, e così via. Le risposte sì, era abbastanza sicuro di conoscerle, ma la lingua era l’ostacolo vero, la lingua era il suo Himalaya. Ed è anche il mio, pensava Matteo, ascoltando.

L’argomento esami si spense da solo, un poco alla volta. Quando ormai la loro chiacchierata era in via di conclusione, e rimaneva solo da ammetterlo e chiudere tutto, Matteo si ricordo della sua altra chiacchierata estemporanea, nel corso della serata al centro culturale terrestre. La chiacchierata con la presidente Ana Jarkovska, più un monologo che un dialogo vero e proprio, in effetti, ma pur sempre interessante, a modo proprio. Non ne aveva ancora accennato a Bogdan, soprattutto perché la serata si era conclusa, per Matteo, con una sbronza poderosa e pochi ricordi coerenti, dopodiché non ne aveva più avuto l’occasione. Lo fece adesso, per riempire il tempo.

«Sì è vero,» confermò Bogdan. «Con qualche eccezione, naturalmente, ma è così che ci vedono qui, o negli altri Mondi Coloniali. Siamo il passato, i vecchi, ed è quello che si aspettano da noi, come ti ha spiegato la tua capa. La Terra è il posto delle rovine e della storia, per loro, e Madre è stata solo una dimostrazione: pensa un po’, il primo pianeta visitato dai terresti è proprio un pianeta di rovine. Sembra un segno del destino, no?»

«Ma anche tutte le altre colonie sono terrestri,»

«Terrestri inteso come quelli che sono rimasti a vivere sulla Terra, invece di partire per le colonie. È così che si usa il termine, in tutto il resto dello spazio. O almeno in quella minuscola frazione su cui vivono esseri umani.»

«Ok. Già, è vero, i vecchi trovano roba vecchia.» Matteo non aveva mai osservato la cosa da questa prospettiva, ma in effetti aveva un suo senso. Passato chiama passato, simile attira simile. Quando la colonizzazione era partita dal nuovo gruppo di paesi emergenti, che aveva cercato di imporsi a guida della Terra al posto del vecchio blocco occidentale, ciò che avevano trovato erano stati solo mondi nuovi, vergini, su cui nessuna civiltà sembrava essersi sviluppata, in passato. Il nuovo aveva trovato il nuovo.

Quando era stata la Terra, invece, al primo colpo le era capitato un pianeta vecchio, con una lunga storia: un pianeta che aveva già prodotto una propria civiltà, tre o più milioni di anni prima, secondo le ultime stime, e adesso dormiva nella pace degli anziani. Il vecchio aveva chiamato il vecchio. Se la osservi così, è una storia davvero buffa. Poteva capire, da un certo punto di vista, perché fossero considerati i nonni, gli antenati, quelli che vivono nel passato.

«A parte Svarga,» aggiunse Bogdan. «Svarga è l’unico che non ci considera vecchi relitti, o il nonno in pensione. Forse perché è stato il primo, forse perché è il più vicino a noi, ma Svarga non ci ha mai sottovalutati. Lì non vogliono sapere come eravamo; lì vogliono sapere come siamo. E anche come potremmo essere, domani. Giusto per sicurezza.»

«Ci sei stato?»

«No, non ancora, ma ho in programma di farci un salto, dopo la laurea. O meglio, credo che sia il professor Vihersalo ad aver voglia di mandarmi là. Vihersalo è il planetologo capo, ricordi? Te ne avevo parlato in viaggio, sulla nave.»

Matteo non ricordava, ma finse di farlo.

«Bene, ok. Sembra che all’Ufficio sia una specie di viaggio di iniziazione, o qualcosa del genere: vai su Svarga e poi sarai uno dei nostri.» Rise. «Non so se fossero seri o se scherzassero, in realtà, ma se mi ci manderanno davvero, poi ti farò sapere. In ogni caso, il punto è questo: là il vostro spettacolo non avrebbe funzionato. Qui sì, è andato bene, perché è quello che volevano vedere.»

Avevano parlato ancora un poco, ma non aveva aggiunto molto, sul tema. La spiegazione alle parole del presidente Jarkovska era tutta lì, in quelle frasi di Bogdan: nonni per tutti, tranne che per Svarga. Si salutarono, alla fine, e Matteo dovette così affrontare la lunga attesa del suo primo esame.

Sarebbe andato bene, era inutile preoccuparsi. Sapeva di essere sempre stato bravo a studiare, era più o meno la sua unica dote, e lo avrebbe dimostrato anche lì, nell’università di un altro pianeta. E la lingua non poteva essere poi un problema così grande. I docenti sapevano che lui era terrestre e di certo gli sarebbero venuti incontro, almeno sul piano della comunicazione. Non lo avrebbero mai stroncato solo per quello. Lo sapeva.

Ma sapere una cosa non gli bastava mai: doveva sperimentarla, prima, doveva passarci attraverso e poi, solo poi, avrebbe accettato quanto già sapeva. Era assurdo, ma era così, e lo sarebbe stato anche quella volta. Bastava farsene una ragione. In fondo, quale era la cosa peggiore che potesse capitare? Rifare l’esame. Niente per cui valesse la pena strapparsi i capelli, insomma.

Sì, si sentiva già più tranquillo, dopo la chiacchierata con Bogdan, che aveva chiamato soltanto per avere notizie sugli esami e non per il suo rifiuto della vacanza al mare, era sempre bene ricordarlo. E adesso, sotto con lo studio. Anzi no, si corresse, niente studio il giorno prima di un esame, o la notte prima di un esame, peggio ancora. Riposo, ci voleva. Riposo, per staccare la mente da tutto: mandare il cervello in ferie, e riposare. E poi, domattina avrebbe sperimentato. E saputo.

Sperimentò e seppe, e ciò che scoprì era ciò che sapeva già. L’esame di Storia della Letteratura, il primo di non ricordava quanti (più di venti e meno di trenta, era l’approssimazione migliore che sapesse fare, al momento), andò bene. Bene? Più che bene, in effetti. Non il voto massimo, come Indira, che aveva sostenuto lo stesso esame ed era entrata per terza, mentre lui era tra gli ultimi, ma un voto di cui poteva andare orgoglioso, soprattutto perché era il primo. Aveva sempre difficoltà, all’inizio, ma poi ingranava. Sarebbe stato così anche stavolta, ne era sicuro. Ne era così sicuro, che non passò il secondo esame.

«Bravo fesso» gli disse Indira, mentre tornavano verso l’alloggio dove vivevano lui e Sharma. «Non dovevi fare meglio di me, stavolta? Oppure ho sentito male io?»

Matteo non rispose, perché si sentiva male lui, e non sul piano uditivo. Filologia Lakshmita, il corso che gli aveva dato problemi sia a seguirlo che a prepararlo, ma soprattutto il corso che gli avevano consigliato di tenere per un anno successivo, perché doveva perfezionare il suo lakshmita moderno, prima di pensare al classico. Era ovvio che sarebbe stato difficile anche l’esame, non ci voleva un genio a capirlo. Era chiaro. Era scontato. Eppure no, l’aveva preso sottogamba, lui, seguendo quella stupida filosofia del “passato il primo, il resto è tutta discesa”. Discesa, certo: peccato che avesse dimenticato il freno e in fondo ci fosse un bel muro. Indira l’aveva passato col voto massimo, di nuovo, e lui ci si era stampato contro, come lo scemo del villaggio.

Arrancarono in silenzio dal risciò all’edificio, nel caldo ripugnante del Muro. Sharma li attendeva all’ingresso, il sopracciglio alzato e lo sguardo interrogativo. Non ebbe bisogno di chiedere: le facce dei due amici parlavano più di ogni discorso. «Tutto come previsto» diceva quella di Indira, «segato come un abete» diceva quella di Matteo. Sharma sospirò, prendendo una bibita per ciascuno.

«Beviamoci sopra,» disse. «E che domani mi vada bene.»

Gli andò bene. Anche Sharma apparteneva alla razza dei rulli compressori scolastici, quelli che non si fermano finché non hanno travolto ogni resistenza della materia di studio. Razza a cui credeva di far parte pure Matteo, invece era finito fuori strada alla prima curva. Avrebbe recuperato in inverno, quattro esami invece di tre. Niente di cui essere contento, ma almeno poteva rimediare. Rimpianse un poco i ritmi delle superiori terrestri, così blandi e facili, ma poi abbandonò il ricordo.

La Terra era un passato che si annebbiava ogni giorno di più, mentre Lakshmi era il presente, che brillava della luce intensa, e dell’ancora più intensa afa, di una estate brulicante di vita. Persino quel gorgoglio notturno gli stava diventando familiare come l’assiolo, che dall’esterno della sua casa sulla Terra, di tanto in tanto, gli aveva dato il buongiorno. Non avrebbe mai amato il gorgoglio, ma lo avrebbe fatto suo, come uno dei tanti frammenti che costituivano la sua persona, ricordo dopo ricordo, esperienza dopo esperienza. Come le ombre, che ogni tanto gli attraversavano la strada, nelle vie di Varshi, fuggendo o inseguendo.

Affrontò così il terzo esame, quello di Storia della Critica, e con sua grande sorpresa lo superò. Non aveva nessuno accanto, nessuno di cui si fidasse, nessuno che alleggerisse la pressione, con la sua semplice presenza, eppure lo superò. Voto discreto, poco sopra la media, ma non era l’importante. Il fatto veramente importante era di averlo superato ed essere tornato in strada, dopo la sbandata. Quel giorno, per la prima volta dalla primavera, accettò l’invito di Chakra a uscire per festeggiare, in un locale che conosceva lui. Risero, scherzarono e bevvero con moderazione. Matteo sentì quasi di potersi fidare di quel personaggio tanto strano; non lo avrebbe mai immaginato, solo in primavera. O forse era soltanto l’euforia da esami finiti. Sì, probabilmente era quello il motivo.

«Verrai anche tu al mare?» gli chiese.

«A Bishapur, fine sessione? Sì, posso permettermelo,» rispose Chakra. «Gli esami sono passati, la media si è salvata e il mondo mi sorride, quando non cerca di cuocermi vivo su una mattonella. Mi posso anche unire alla vostra compagnia di nullafacenti, per un poco di riposo.»

Matteo rise. Bishapur, già. Gli esami erano finiti anche per lui, Indira li aveva finiti già da sei giorni e domani sarebbe stato il turno di Sharma. Erano pronti, loro. Tutti pronti per Bishapur. Non sapeva bene cosa aspettarsi dal posto, probabilmente niente, ma se non altro avrebbe visto un nuovo lato del pianeta, il che era pur sempre una buona esperienza.

«Ci sei già stato?» chiese a Chakra.

«No, non ancora. Non sono di queste parti, io, e non ho girato molto, al di fuori dell’università. Il mare però mi piace, nel complesso, per cui sarà interessante vedere come sia da queste parti. Niente di diverso rispetto alle mie, direi, ma una vacanza va sempre bene.»

«E ci sono creature molto spiacevoli, in mare?»

«Sì, ma non vicino alla riva.»

Il sorriso di Matteo morì. «Ci sono davvero? Ma io stavo scherzando, perché Indira...»

«Ti ha parlato di qualche mostro marino? Non mi sorprende. Effettivamente, ci sono cose che si potrebbero definire “mostri marini”, almeno dal tuo punto di vista, ma non troppo vicino alla riva.»

«Ah...»

«Il tuo entusiasmo è già morto? Cambi umore in fretta, eh?» Fu Chakra a ridere, stavolta. «Aspetta di vedere, prima di farti problemi. Ti conviene.»

Matteo aspettò, anche se difficilmente si sarebbe levato dalla testa le immagini che la sua fantasia, sempre così attiva in negativo, si stava già affrettando a sistemare. Mancavano cinque giorni alla fine del Muro, otto giorni alla partenza per il mare. E là, una nuova ruota del destino era in attesa di azionarsi. Ammesso che esistesse un destino e ammesso che avesse le ruote.