Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 12

Fu una serata strana, quella della riunione. Strana per molti aspetti, sia per la gente incontrata sia per i contenuti delle discussioni, ma soprattutto strana per ciò che lasciò a Davide, alla fine. Gli lasciò riferimenti, comprensione, un nuovo modo di guardare alla realtà. Veri o meno che fossero, lasciò a Davide nuovi occhi, per osservare un vecchio mondo. Il suo mondo. Molto più di quanto si sarebbe mai potuto lecitamente aspettare, da qualcosa scovato da Amir.

Gennaio aveva superato la sua metà e stava ormai volgendo verso la fine. Per strada c’era freddo, se ti avventuravi in superficie, ma quasi nessuno lo faceva; le gallerie erano molto più pratiche, potevi arrivare quasi dappertutto senza bagnarti, tremare o sudare, a seconda della stagione. Davide e Amir le percorsero fino alla nona fermata della metropolitana, poi dovettero salire all’aperto.

«Non c’è una strada diretta, qui sotto,» gli spiegò Amir, torcendo il naso. «È una roba di sicurezza, sai come funziona.»

Davide annuì, affondando la faccia nella sciarpa. Anche coi vestiti termici, l’inverno rimaneva un brutto canchero, dal suo punto di vista. Non nevicava, ma il vento era più che sufficiente, a rendere quel tragitto tanto piacevole, quanto il sedersi sopra una ortica, senza pantaloni. Pensò a sua madre, in casa, e la invidiò. Non che ci fosse molto da invidiarle, in realtà, ma almeno lei era al caldo e non doveva seguire uno stupido a una stupida riunione di stupidi. Sospirò. Cosa gli toccava fare, per un amico...

Sua madre si stava riprendendo abbastanza bene, almeno, e fra tre giorni sarebbe tornata a lavorare: non ne era proprio felice, ma grugniva e brontolava di meno, adesso che la pausa stava finendo. Continuava a prendere con regolarità le pillole e questo aveva sorpreso Davide. Non se lo aspettava, non da quella testona di sua madre, ma forse il merito andava tutto all’ospedale, oltre che all’attacco cardiaco: le avevano messo addosso paura a sufficienza da convincerla a rigare dritto, almeno per un poco. Non sarebbe durato molto, conoscendola, ma qualcosa era pur sempre meglio di niente. Era anche più di quanto Davide si potesse aspettare, in effetti, e non se ne lamentò: un buona notizia andava accolta così com’era, magari ringraziando. Ne riceveva così poche, ormai...

«Manca ancora molto?» chiese ad Amir, che faceva strada.

«No, non molto. Mi pare sia giù di là,» e indicò un punto verso la fine della via, sulla destra, dove le luci erano più fioche. Un punto indicato a caso, avrebbe detto Davide, ma sperava di no. Qualunque cosa sia, che almeno sia breve: questo si augurava, camminando. Se poi fosse stato passabilmente serio, o almeno non una truffa smaccata, tanto meglio, ma ci credeva poco.

Breve non fu. Il luogo della riunione era una specie di scantinato, sotto a un condominio dall’aria deserta, o forse soltanto molto squallida. Una cantina molto più larga di quanto si sarebbe aspettato Davide, mentre scendevano le scale, e forse era un magazzino interrato, piuttosto che una cantina, ma cambiava poco. Era un posto con una ventina di sedie sparse, un tavolo che aveva visto secoli migliori, cinque o sei cartine appese alle pareti e abbastanza gente da riempire tutti i posti.

Beh, gente, pensò Davide, diciamo piuttosto roba di accatto. Ominidi dimenticati dalla evoluzione.

«Vieni, vieni!» ripeteva Amir, tirandolo per un braccio verso due sedie d’angolo. Tirandolo come lo aveva tirato Matteo sulla stazione orbitale, quando si era fermato a guardare lo spettacolo del Teatro di Oklahoma, e il ricordo non migliorò l’umore di Davide, già piuttosto basso dopo aver visto con chi avrebbe diviso la cantina. Una vera arlecchinata di esemplari cittadini, per lo più giovani o giovanili, arricchiti da un gruppo di cinque mummie, che sedevano e brontolavano assieme. Il resto era ciò che può rimanere attaccato al colino, dopo che lo hai passato sulla superficie del brodo.

Riconobbe di vista un altro studente della loro scuola, un pluriripetente che doveva avere ventidue o ventitré anni e ancora non era riuscito a farsi buttare fuori. Accanto a lui, due tizi che sembravano giovani operai, poi una donna di mezza età vestita da contadina alla moda, un altro che somigliava al ragazzo della cassa, nel negozio vicino a casa sua (e forse lo era), tre scarti di una banda, ancora avvolti dai loro giubbotti ufficiali, un muratore coi capelli in via di estinzione e altra roba, che in un primo momento non seppe riconoscere e che, in un secondo momento, non gli interessava più. La tipica fauna che segue quelle scemenze, agli occhi di Davide.

«Il capo non c’è ancora,» disse Amir, a disagio.

«Il capo?»

«Sì, il capo. Lui è un grande, ti piacerà di sicuro. Mica come questa gente qui» e indicò con la mano la folla che si stava raccogliendo nella cantina. «Lui sì che ne sa.»

Davide annuì. Poteva immaginare che tipo fosse, ma in parte era curioso di vederlo. Sarà di quelli che ci credono davvero, oppure di quelli che accendono il fuoco e mescolano il calderone, per poi godersi lo spettacolo? Dalla faccia di Amir, avrebbe detto che fosse del primo tipo, ma non poteva escludere che fosse il classico marionettista, che fa casino e poi scappa, lasciando gli altri fessi nella merda. Meglio aspettare.

Alle ore ventuno precise, da una porta sul fondo della cantina (che Davide non aveva notato) due persone entrarono, per sistemarsi dietro al tavolo. Uno dei due era alto, robusto ma non grasso, sulla trentina e abbastanza piacevole di aspetto, con la tipica barba incolta da vero duro e capelli tagliati quasi a zero, che a Davide ricordarono Matteo. Sarà il capo, pensò, quello che ne sa. Ma sbagliava, perché Amir lo prese di nuovo per il braccio e gli indicò l’altra persona, con un tono da esagitato o da strafatto. «È lui, è lui!» gridò sottovoce.

Davide lo guardò, lo guardò molto attentamente, e non seppe cosa pensare. Era un uomo di mezza età, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, con una folta chioma grigiastra e lucida, come se non se la lavasse da qualche stagione. Il volto era perfettamente inespressivo, i lineamenti bombati e non del tutto definiti, come se lo avessero picchiato ripetutamente con un oggetto molto duro e pesante, senza preoccuparsi poi di riaggiustagli le ossa; uniamo al tutto due occhi da cernia, morta di stenti, e una discreta pancia, che sporge sulla cintura dei pantaloni, ed ecco il nostro capo, l’uomo che ne sa, l’uomo che è un grande. Davide non sapeva se ridere o piangere. In cosa si era cacciato Amir?

«È lui?» chiese all’amico.

«Sì, sì, sì!» continuò a ripetergli, in quella simulazione rauca e afona di un urlo. Sembrava che fosse sotto l’effetto di sostanze molto allucinogene, oppure che si fosse bevuto il cervello e basta. Ma ciò che davvero spaventò Davide non fu il suo compagno, ma il resto della gente: dal primo all’ultimo, erano stati colpiti dalla stessa malattia che, in apparenza, aveva devastato la mente di Amir Cavalli. Per la prima volta, si chiese se fosse stata davvero una saggia idea, quella di farsi trascinare lì sotto; si chiese anche se ne sarebbe uscito sano e intero.

Il presunto capo si sedette di fianco al tavolo, lasciando al suo collega il ruolo centrale, davanti alla platea, come un professore dietro alla cattedra. Vorrà fare l’umile, si disse Davide. Manda avanti il suo tirapiedi a scaldare l’ambiente e poi lo sostituisce, quando l’acqua comincia a bollire. Ma non fu così che andò, non proprio.

L’uomo alto, seduto dietro il tavolo, tolse una fascetta dalla tasca e se la infilò al braccio destro. Su di essa si vedeva lo stesso simbolo, che Amir aveva scarabocchiato su di un foglio: un cerchio blu, tagliato in diagonale da una linea rossa, che scendeva da sinistra verso destra. Il brusio del pubblico accompagnò il gesto, uno scambio rapido di commenti e forse osservazioni. Difficile da capire, per l’orecchio di Davide, non allenato alle congiure e alle riunioni segrete. Poi, fu il pollaio.

L’uomo alto cominciò un discorso generico, e alquanto noioso, sulla situazione della regione e sulle prospettive per il futuro in campo energetico, ma non lo concluse, non arrivò neppure a una qualche spiegazione, al problema che forse voleva dimostrare, perché un altro uomo, dal pubblico, gli saltò sulla voce e si lanciò in un discorso su ciò che aveva visto durante l’ultimo mese, in città e fuori. Di lì a poco, la donna vestita da contadina alla moda protestò contro gli aumenti delle tariffe di luce e acqua, mentre il gruppo di vecchi borbottava a un volume sempre più alto. Ben presto, la cantina si trasformò in una piazza del mercato, in cui ognuno diceva la sua, a volte cercando di portare avanti un discorso completo, a volte solo sbraitando frasi sconnesse e insensate. Dietro il tavolo, l’uomo alto continuava a parlare, come se niente fosse accaduto.

Davide scuoteva lentamente la testa. Che roba era, quella riunione? Dove l’aveva portato Amir? In un covo di evasi dal manicomio criminale? Si girò verso l’amico, per chiedere qualcosa, e fu allora che notò il presunto capo, l’ometto insignificante che, secondo Amir, ne sa ed è un grande. Lo notò per il silenzio e la calma, placida e quasi drogata, con cui osservava la scena, come se non lui vi appartenesse, come se fosse lo spettatore di un film. Sedeva sereno accanto al tavolo, con le mani giunte in grembo e un tenue sorriso sulle labbra, mentre davanti e accanto a lui le voci e le parole si calpestavano l’un l’altra, si rincorrevano e si aggredivano, come una folla disperata. Mentre Davide lo guardava, anche l’ometto si girò verso di lui, a ricambiare lo sguardo.

Lo conosceva? A guardarlo negli occhi, in quell’uomo c’era qualcosa di familiare, ma Davide non sapeva cosa, di preciso. Forse lo aveva incrociato per strada, forse assomigliava a qualcun altro che conosceva davvero, forse era soltanto l’assurdità di quella riunione a fargli apparire come familiare l’unico punto, nella cantina, che non sembrasse sfiorato dalla pazzia. O, forse, che era stato colpito da una pazzia diversa, una pazzia ancora più grave, se davvero era lui a comandare tutto.

L’uomo si alzò e gli fece un piccolo cenno con la mano. Vieni, sembrava dire. Davide non si mosse. Seguire un uomo di mezza età, alquanto sospetto, in una stanzetta isolata, non era un esperimento a cui fosse disposto a sottoporsi, neppure per fare contento un amico: c’erano limiti anche allo spirito di avventura, per non parlare dell’incoscienza.

Il gesto si ripeté, una leggera flessione delle dita, corte e grassocce: vieni. Davide continuò a non muoversi. La cantina poteva anche essere diventata un mortorio, per quanto ne sapeva lui: la gente e le grida non esistevano più, erano frammenti che fluttuavano fuori dalla sua coscienza, al di là dei confini della mente. Dentro, in una bolla di silenzio, c’era spazio solo per l’uomo grasso, il capo, che accennava verso di lui e lo chiamava a sé. Qualunque motivo avesse per farlo.

Cosa vuole da me?, pensò Davide. Vuole conoscermi, perché sono nuovo? E in che modo vorrebbe conoscermi? O forse vuole farmi qualcosa, per farmi diventare come loro? Gli occhi dell’uomo gli bruciavano addosso, calmi e indifferenti com’erano; voleva riderne, ridere di quell’omuncolo grasso e insignificante, della gabbia di matti che aveva creato, di tutto, ma non vi riusciva, non ora. Anzi, si sentiva gelare, come se fosse ancora fuori, in strada, nel freddo di fine gennaio. Chi era quell’uomo? Cosa voleva? Perché ce l’aveva con lui?

«Oi, il capo ti sta chiamando!» gli disse Amir, in un orecchio. «Non ci vai?»

«Ma cosa vuole da me?»

«Non lo so, ma quando ti chiama devi andare! Sei matto?»

Davide sospirò. Sì, era stata davvero una pessima idea quella di uscire e accompagnare il suo amico alla riunione. Una idea di merda, di prima qualità. Perché non se n’era rimasto in casa, a controllare che sua madre seguisse la terapia del medico? Quella sì che era una cosa importante, non ascoltare le farneticazioni di una banda di pazzi furiosi! E invece era lì e adesso gli toccava giocare con le loro regole, se voleva che il gioco finisse bene. E Amir lo aveva appena chiamato matto. Proprio lui! Si alzò, incamminandosi lungo la parete, verso quel fantasmagorico capo che lo aspettava.

Il capo lo guardò, poi si mosse verso il fondo della cantina, dove c’era una seconda porta, accanto a quella da cui era entrato assieme al suo tirapiedi. Davide non aveva notato neppure quella: proprio un ottimo segugio, davvero sveglio! Continuò a seguirlo, a testa bassa. Ebbe il tempo di notare che nessuno li aveva guardati, nessuno sembrava essere interessato a loro due, nessuno si curava di cosa facesse il capo, che è un grande: forse sapevano già di cosa si trattasse, o forse erano troppo pazzi dei propri discorsi per badare al resto del mondo. O forse... chissenefrega di cosa capita a un altro.

Il capo lo guidò oltre la porta, in una stanza ben illuminata, con un tavolo e due sedie attorno, ai lati opposti. Un tavolo vuoto, decorato solo da un vaso di fiori secchi e un candelabro, un vero e proprio oggetto da museo, che non sembrava essere usato molto spesso. C’era pure polvere, sui suoi bracci. Si sedette a un posto e invitò Davide a occupare l’altro. Davide obbedì.

Con la porta chiusa, non si sentiva neppure un sussurro dalla cantina rumorosa. Doveva essere una stanza insonorizzata e la cosa non piacque molto a Davide: era fin troppo facile pensare a torture, o abusi, o qualsiasi altra cosa si potesse fare in un gruppo di pazzi, ai danni di un nuovo arrivato. Uno strano rito di iniziazione, magari? Davide sedeva, ma non si rilassò. Tenne invece le gambe cariche, pronte a scattare al minimo cenno.

«Benvenuto,» disse il capo, sorridendo. «Immagino che tu sia l’amico di Amir Cavalli, giusto? Mi ha parlato molto di te ed ero curioso di incontrarti. Sono contento che ti abbia accompagnato e sono contento che tu lo abbia seguito.»

Aveva una voce strana, una voce molto più giovane del suo aspetto, ma soprattutto parlava con un accento nordamericano, una cadenza che, in altre circostanze, Davide trovava buffa, quasi ridicola, ma non quella sera, non in quella stanzetta, non mentre era da solo, assieme a quell’uomo. Lì, la cantilena del capo era solo fastidiosa, affettata. Disturbante.

«Sono un amico e compagno di scuola di Amir, sì» rispose Davide, senza rilassare un muscolo. «Mi ha invitato lui a venire qui, stasera.» E avrei fatto meglio a restarmene a casa, non aggiunse.

«Sì, sì, capisco. Ti chiami Davide Kori, giusto?»

«Davide Kori, sì. Con la kappa.»

«Naturalmente, con la kappa. Un piccolo vezzo di tuo padre, che ha voluto cambiare il cognome per renderlo più... alla moda, giusto?»

«Giusto. Alla moda.» Gli aveva raccontato anche quello, Amir? Ma bravo! E cos’altro era andato a raccontare al suo capo, quella vecchia comare pettegola di un Amir? Aveva creduto di potersi fidare almeno in parte di lui, ed ecco il risultato. Adesso, il presunto santone di un gruppo di squilibrati sapeva già vita, morte e miracoli di lui. E magari aveva anche già preparato un bel dossier sul suo conto, corredato di indirizzo, dettagli sulla madre, particolari con cui ricattarlo e quant’altro una mente affetta da leggera paranoia potesse immaginare. Ottimo giudizio, il suo!

«Nel caso non te lo abbia già detto lui, io invece mi chiamo Zeke Boodie. Piacere di conoscerti,» aggiunse, senza tendere la mano o fare altri gesti di amicizia. Davide non ne fu sorpreso. Amir era un chiacchierone con gli altri, a quanto pareva, ma con lui se ne stava più zitto di un tonno: non lo avrebbe mai seguito, se avesse saputo in anticipo che il suo “capo” utilizzava un nome così ridicolo e falso, come lo era Zeke Boodie. Figuriamoci se esiste davvero un nome così, pensò. Sarebbe stato più che sufficiente per condannare i genitori ai lavori forzati, per gravi abusi su minori.

«E hai anche un fratello che si chiama Matteo e sta studiando su un pianeta degli Altri, giusto? Mi pare che il luogo sia Lakshmi, o qualcosa del genere. Non ricordo cosa stia studiando, ma ciò non ha importanza, al momento. L’importante è dove si trova, non cosa fa.»

«Anche questo glielo avrà detto Amir, credo.»

Il fantomatico Zeke sorrise. «Me lo ha detto lui, certo, e vedo che la cosa non ti fa piacere. Ti prego di non arrabbiarti col tuo amico, perché non è il caso. È venuto a parlarmi a fin di bene, per te, dopo la nostra ultima riunione. Era preoccupato per te e per tuo fratello, vedi.»

«Per me e per mio fratello?» chiese Davide. La piega che stava prendendo quella discussione gli piaceva sempre meno, se mai gli era piaciuta. Cosa c’entrava Matteo, adesso?

«Per te e per tuo fratello, esatto. O, se vogliamo essere più precisi, preoccupato per quello che forse stanno facendo a tuo fratello, adesso.»

Davide compresse le labbra e strinse le mani a pugno, sotto la tavola. «Che cosa significa questo? È su Lakshmi a studiare e non credo gli stiano facendo qualcosa, a parte insegnargli quella roba che gli piace tanto. Perché dovrebbe essere preoccupato?»

«Proprio per il motivo che hai appena esposto tu. Per ciò che gli stanno insegnando su quel pianeta e per ciò che tuo fratello potrebbe diventare, tra non molto. Qualcosa di poco piacevole, credimi.»

Oh, su questo ti posso credere, pensò Davide. Non si è neanche fatto sentire quando nostra madre era in ospedale... «E cosa gli starebbero insegnando, dunque?» chiese.

Zeke sorrise di nuovo. «Non mi credi, giusto? Non mi prendi sul serio, ma posso capire. Vedrai che tra poco cambierai idea. Lascia che ti spieghi come funziona questa storia dei terrestri, che vanno a studiare sui pianeti degli Altri. È importante, te lo assicuro, e ti aiuterà a capire meglio quello che stiamo cercando di fare noi.»

Gli Altri, già. Qualcuno chiamava così gli abitanti delle colonie, per distinguerli dai terrestri veri, ossia quelli rimasti sulla Terra. O così gli aveva spiegato Matteo, una volta. Termine dispregiativo, vagamente razzista (ma non troppo vagamente), per sottolineare che quella gente era diversa da noi, era lontana, era altra. Non ci si poteva fidare, degli Altri. Davide quasi sorrise, a sentir pronunciare quella parola con tono tanto convinto. Pazzo, senza dubbio. Da non prendere sul serio. Tuttavia...

«Ascoltiamo, dunque...» disse stancamente.

«Bene. Come sai, questa mania di mandare alcuni di noi a studiare assieme agli Altri è cominciata coi Trattati, circa cinquant’anni fa. Quando abbiamo fatto la pace con gli Altri e abbiamo accettato di leccare i loro piedi in cambio dell’elemosina, insomma. Capisci? Bene, uno dei punti dei Trattati parlava proprio dello scambio di conoscenze: noi insegniamo a loro e loro insegnano a noi. Fin qui niente di male, anzi, era ciò che tutti volevano, qui sulla Terra, perché gli Altri erano più avanti di noi in quasi tutte le scienze e avevamo solo da guadagnare. Noi avremmo insegnato quelle due o tre cose in cui eravamo specialisti, come la robotica e la programmazione delle AI, e in cambio loro ci avrebbero insegnato cose come il volo interstellare, la planetologia, nuove tecniche mediche e un sacco di altra roba. Tutto chiaro, fin qui?»

Davide annuì. Tutto chiaro, certo, come no. Storia vecchia, che aveva sentito mille volte e in mille varianti diverse, a seconda del punto di vista del narratore. Storia noiosa, peraltro.

«Bene, perché c’era il trucco. Certo, loro hanno accolto i nostri studenti, li hanno fatti entrare nelle loro università, insegnando tutto ciò che volevano sapere. Hanno messo le mani su tutta la prima generazione di scienziati terrestri, capisci? Quella che è uscita dal Sistema Solare ed è arrivata su un altro pianeta, che adesso chiamano Madre. La nostra prima colonia, già. Hanno messo le mani sulla prima generazione di terrestri e l’hanno plasmata a modo loro. Perché è questo che fanno, capisci? Con la promessa di nuove conoscenze, hanno attirato le nostre menti migliori sui loro pianeti e li hanno riempiti di stronzate, gli hanno fatto il lavaggio del cervello, insegnando che la nostra cultura era sbagliata e la loro era giusta. La loro era vincente. Capisci cosa significa?»

Davide capiva. Quando sei a Roma, fai come i romani, così si diceva una volta, no? E i terrestri, sui pianeti degli Altri, imparavano a comportarsi come gli Altri. Per osmosi, perché assorbivano la loro cultura, la respiravano nell’aria, la bevevano nell’acqua, la mangiavano nei cibi. Quando tornavano sulla Terra, la portavano con sé, come una eredità. O come una malattia, come sembrava pensarla quello Zeke. Ok, fin qui lo poteva seguire, senza compromettersi troppo. Annuì.

«E il risultato qual è? Che adesso l’Ufficio per la Colonizzazione è pieno di amici degli Altri, pieno di terrestri contaminati, che non pensano più come terrestri, ma come gli Altri. Progettano la loro colonizzazione della galassia, ma la progettano alla maniera degli Altri. Ed è qui l’errore, vedi? Ci vogliono assimilare, vogliono cancellare la nostra identità, distruggere anche lo spirito della Terra, come già l’hanno distrutta con le bombe, prima di andarsene. Non due civiltà, che competono per la galassia, ma una civiltà sola: la loro. Capisci? Guarda cosa stiamo facendo su Madre, adesso! C’è un mondo da costruire, un nuovo mondo, e noi lo costruiamo come Loro ci hanno insegnato a fare, con le tecniche e le strategie che hanno usato Loro per i Loro mondi. Alla fine, Madre non sarà più una nostra colonia: Madre diventerà il loro undicesimo mondo. Vedrai.»

Davide osservava quell’uomo dagli occhi di pesce. Osservava quella faccia contorta, rigonfia, come se le ossa sotto la pelle fossero state distrutte e rimescolate. Osservava i suoi capelli grigi e lucidi, il modo in cui si raggrumavano a ciocche sul suo cranio. E per quanto vedesse solo un uomo ridicolo, un pazzo, una cosa deforme, non riusciva a ridere di lui, non riusciva a staccarsi da lui, alzarsi dalla sedia, uscire dalla stanza e mandarlo all’inferno, lui e tutti i suoi deliri da psicopatico, tutte quelle assurde paranoie che gli stava rifilando, una dopo l’altra.

Non ci riusciva, perché erano plausibili. Contagiose, forse. Pericolose, di sicuro.

«E mio fratello?» chiese.

Zeke sospirò. «Tuo fratello è solo una pedina, che si è gettata nel fuoco senza sapere che bruciasse. È là che studia e sono sicuro che pensa ancora di poter tornare, un giorno, ma non tornerà. Perché lo stanno cambiando. I suoi nuovi amici, i suoi compagni di studio, il mondo stesso in cui è finito: lo stanno cambiando, lo smontano e lo rimontano come vogliono loro. E lo assimileranno, vedrai. Non è qualcosa che mi sono inventato, ma è provato dalle statistiche. Puoi vederle tu stesso, se vuoi. Su cento studenti che partono, soltanto la metà torna indietro, dopo la laurea. Alcuni si fermano perché vogliono specializzarsi, altri perché stanno meglio su quel pianeta, altri ancora perché hanno deciso di mettere su famiglia. Pensa un po’: una famiglia con gli Altri! Di quelli che tornano, altri venti poi ripartiranno dalla Terra, perché non si trovano più bene qui tra noi e vogliono lavorare su un mondo degli Altri. Restano trenta, trenta su cento, e la maggior parte di quei trenta finisce nell’Ufficio per la Colonizzazione, oppure in organizzazioni che dipendono dall’Ufficio. Finiscono nel covo degli amici degli Altri, insomma. Capisci?»

Capiva. «Alcuni, però, restano fuori...»

«Alcuni, certo. Di solito, quelli che studiano materie inutili, o quelli che sono riusciti a resistere alla infezione degli Altri. Sono le persone che si sistemano di nuovo sulla Terra, con un lavoro normale e una vita normale, ma anche loro sono cambiate. Poco o tanto, sono cambiate e non guardano più la Terra con gli occhi di prima. Sono contaminate anche loro. Portatori sani, forse, ma contaminati.»

Davide restò in silenzio. Non aveva niente da rispondere.

«Non so a quale categoria apparterrà tuo fratello,» continuò Zeke, «ma so che è in pericolo, proprio come siamo tutti in pericolo. No, lui un poco di più, perché il pericolo se l’è andato a cercare. Ma il punto non è questo, vedi? Tuo fratello è solo una vittima del sistema ed è il sistema il punto, questo sistema che cerca di assimilarci agli Altri, di distruggere i terrestri come terrestri. Ed è questo che noi Isolazionisti vogliamo fermare. Non so cosa ti abbiano detto su di noi e non so cosa ti diranno in futuro, ma noi non siamo nemici del progresso, nemici della colonizzazione, nemici del futuro. No! Noi siamo nemici di chi vuole cancellare la nostra civiltà. Noi vogliamo la colonizzazione, ma la vogliamo alla maniera dei terrestri, non alla maniera degli Altri. Vogliamo che siano due le civiltà, la Terra e gli Altri, e ognuna possa vivere ed espandersi a modo proprio. E se poi un giorno si scontreranno, così sia: allora decideremo chi sarà la migliore e chi avrà il diritto di assorbire l’altra. Ma non così, non con la contaminazione strisciante che vogliono Loro. Accetteremo che la nostra civiltà sia vinta in guerra, ma non da una malattia che l’avvelena a poco a poco. Capisci?»

Davide capiva, capiva e condivideva. Per quanto sorpreso e incredulo, scoprì di condividere. Non era un pensiero pazzo, come poteva sembrare a prima vista. Aveva una sua logica, aveva fascino.

«E se poi non ci sarà nessuna guerra, tanto meglio,» continuò Zeke. «Non amiamo combattere e non ci interessa combattere. Vogliamo solo una cosa: liberarci da quei vampiri. Noi siamo noi e Loro sono Loro, questo è il punto. Vivano pure come vogliono, la galassia è grande a sufficienza per tutti, ma dobbiamo liberarci dalle loro catene, dobbiamo spezzarle e diventare padroni del nostro destino. E il nostro destino è alle porte, capisci? È già nelle nostre mani, ma Loro ce lo vogliono rubare, per assimilarlo come vogliono assimilare noi. Vogliono prendersi Madre, l’avamposto del nostro futuro, il nostro primo passo nello spazio. Capisci?»

«Capisco, sì, ma...»

«E sai perché Madre è davvero così importante, eh? Non solo perché è il nostro primo passo, no. È perché c’è altro, molto altro su Madre. Qualcosa che noi abbiamo trovato, ma che Loro vogliono.»

«E cosa...»

«Lo scoprirai. E parleremo. Ho grandi progetti per te.»

Zeke Boodie disse altre cose, ma le altre cose non importavano. Davide aveva sentito abbastanza, per prendere la sua decisione, e la sua decisione la prese prima ancora di essersi alzato dalla sedia e di aver stretto la mano al capo. Era una decisione a cui non avrebbe mai pensato, solo mezz’ora prima, una decisione che non avrebbe mai neppure considerato, se era per questo. Non prima. Ma adesso... Sì, per una volta Amir aveva visto giusto, anche se forse non aveva capito ogni cosa. Ma a questo avrebbe pensato lui, Davide. Si sentiva la testa in fiamme.

Dopo la discussione con Zeke Boodie, o dopo il suo lungo sermone, persino la scena grottesca del pollaio nello scantinato, dove voci parlavano su voci e idee confuse si confondevano tra loro, era ormai dimenticata. E questo, forse, fu il più grande miracolo del capo, che ne sapeva davvero. La più stupida delle scene stupide aveva lasciato spazio alla più rapida delle conversioni.

Quando fu tornato a casa, poco prima di mezzanotte, Davide disegnò il simbolo del cerchio e della linea su una maglietta bianca, proprio all’altezza del cuore. Il simbolo degli Isolazionisti. Il suo simbolo, adesso.

Seduto alla scrivania, con lo schermo davanti, il Direttore George Gemelos si passò una mano sul viso e sospirò. Aveva seguito il piano del dottor Leonardi, lo stava mettendo in pratica, eppure c’era qualcosa che non funzionava. Qualcosa di imprevisto, diciamolo pure, o almeno qualcosa che il dottore stesso non aveva immaginato, forse perché Leonardi stesso non aveva mai osato, oppure non aveva mai dovuto, abbassarsi fino a quelle profondità, nel mare magnum della pura scemenza umana. Come glielo poteva spiegare, adesso?

«Oh beh, tanto la colpa sarà mia,» disse alla stanza vuota. «I suoi piani non sono mai sbagliati: sono sempre gli altri che sbagliano ad applicarli. Come se non lo sapessi già.»

Lo sapeva già, e lo sapeva molto bene. Da quando Leonardi lo aveva sistemato come Direttore del suo Ufficio per la Colonizzazione, era successo almeno una volta all’anno che qualcosa non andasse come previsto. Più che normale, quando c’erano così tante cose da controllare e da coordinare, ma il dottore no, lui non guardava mai a questi aspetti. Per lui esistevano solo gli ordini bene eseguiti e gli ordini male eseguiti. Gli ordini sbagliati erano l’Inesistente, il Nulla Assoluto, apofansi estrema, ciò di cui mai e poi mai si può parlare, perché parlarne è già cadere in contraddizione. Insomma, erano un concetto che la mente di Leonardi non era progettata per afferrare. Se qualcosa andava male, era colpa di Gemelos e della sua incompetenza.

E le cose stavano andando davvero male, adesso? Non proprio, non esattamente. Il Direttore George Gemelos si era attenuto con scrupolo compulsivo agli ordini ricevuti, aveva aggirato il Ministro dell’Interno (un verme di terra, che non sa neanche da che parte è girato, secondo il parere sempre sobrio e illuminante di Leonardi) e si era rivolto direttamente al Ministro della Difesa, per ottenere i reparti di spionaggio, che servivano a controllare gli Isolazionisti. Andrea Hass glieli aveva concessi senza una parola, dopo aver letto il nome del dottor Vito Leonardi, e Gemelos li aveva distribuiti seguendo la mappa prestabilita da Leonardi in persona. Le informazioni stavano arrivando.

Tutto a posto, tutto perfetto, tutto da copione. E dunque? Dove era il problema? Perché il problema c’era, e bello grosso. Inaspettato, soprattutto, perché si trovava dove Gemelos, e forse persino lo stesso Leonardi, non si era aspettato di trovarlo.

Perché il problema era proprio nelle informazioni.

Inutili, dalla prima all’ultima. Insensate. Inutilizzabili. Da ciò che avevano raccolto gli informatori, questi cosiddetti Isolazionisti erano soltanto miseri gruppetti di rifiuti umani, che di tanto in tanto si radunavano negli scantinati di qualche palazzotto smarrito, nelle città in cui i gruppetti risiedevano. In quelle fantasmagoriche riunioni, in apparenza, i rifiuti umani passavano due o tre ore a parlare e sparlare di aria fritta. Come vecchie comari al mercato, o come i nonni nei bar sport del passato. Lamenti sul governo, sulle tasse, sui treni, sul tempo, sui prezzi dei farmaci, su qualsiasi cosa fosse inutile. Aveva fatto lavorare i migliori specialisti di spionaggio della Terra, per raccogliere le stesse chiacchiere che lui avrebbe potuto raccogliere in una mattina, alla fermata della metropolitana, con un registratore da quattro soldi.

Gemelos spinse indietro la sedia e si alzò. Eppure doveva esserci qualcosa. L’incidente alla scuola era reale, per quanto irrisorio, e reali erano anche altre azioni di sabotaggio, compiute qui e là nella regione Mediterranea e nella regione Nordamericana. Niente di serio, per carità, semmai scherzi da bambini, da adolescenti con poco cervello e troppo tempo libero; eppure c’erano, eppure portavano tutti la stessa firma, quel cerchio tagliato da una diagonale, che era il simbolo degli Isolazionisti fino a più di trent’anni prima. Il simbolo che usavano prima di essere annientati, insomma. Quando quel nome aveva rappresentato una minaccia seria.

Buffoni? Mitomani? Ragazzate? O qualche Isolazionista era sopravvissuto davvero e adesso si stava riorganizzando, nascosto dietro una maschera da pagliaccio? Difficile dirlo. Anche le persone che avevano sorvegliato fino ad allora, ottantanove in tutto tra il Mediterraneo e il Nordamerica, erano individui qualsiasi, con lavori qualsiasi, che trascorrevano giornate qualsiasi dedicandosi ad attività insignificanti. Se davvero era tutto pianificato, doveva esserci dietro un vero genio.

E intanto, su Madre era arrivato l’ultimo carico di coloni. Il Governatore Rossi gli aveva mandato il messaggio proprio un paio di ore prima, attraverso il canale riservato: tutti ottimi elementi, in forma, che avrebbero dato un valido contributo al progetto. Il Direttore Gemelos aveva ringraziato, prima di girare il messaggio a Leonardi. Non sapeva di preciso quale fosse il progetto, a parte il più ovvio di terraformare Madre e renderla abitabile per il maggior numero possibile di terrestri, ma sapeva che erano affari non di sua competenza, come aveva tenuto a sottolineare il dottore.

Il Governatore Maureen Rossi, così come il Ministro Andrea Hass, erano considerati da tutti amici personali di Leonardi, o almeno suoi contatti personali, o nel peggiore dei casi come suoi stretti e fidati collaboratori (Gemelos non credeva che, nella galassia, esistesse davvero qualcosa come un “amico” di Leonardi), che con lui avevano partecipato alla seconda missione su Madre, quella decisiva: qualunque cosa ci fosse tra di loro, Gemelos non l’avrebbe mai potuta capire. Né lo desiderava. Era quasi sicuro che gli avrebbe causato più guai di quanto la sua immaginazione fosse capace di concepirne.

«Meno ne sai e meglio stai,» così diceva sempre sua madre. Una buona filosofia di vita, quando hai un ruolo come quello di Direttore dell’Ufficio per la Colonizzazione, un ruolo che è solo apparenza e niente sostanza. Una saggia filosofia di vita. Mentre gli altri trafficano, tu sorridi e annuisci. C’è un problema? Lascia che ci pensino loro. Tu non fare domande, non curiosare, continua a sorridere e annuire. Alla fine, tutto si risolverà.

Peccato che non potesse farlo, quella volta.

Poteva ignorare qualsiasi cosa stesse accadendo su Madre, questo sì. Era lontana trent’anni luce e non ci sarebbe mai andato, neanche in catene. Era il parco giochi preferito di Leonardi e Leonardi non amava che altri mettessero il naso tra i suoi giocattoli. Ma George Gemelos non poteva fare lo stesso anche con gli Isolazionisti. Per quanto lo desiderasse, non poteva. Sospirò di nuovo, davanti alla finestra, con l’oceano in primo piano e i quartieri urbani ai lati.

Sulla sinistra, la città si svolgeva in file ordinate di palazzi, più o meno alti. Un tempo erano stati disordinati, un tempo spuntavano qui e là, come erbacce. Poi, quasi quarant’anni prima (così tanti? Ebbene sì, così tanti: forse trentasei o trentasette, ma non uno di meno), era arrivata la stagione delle grandi riforme urbanistiche e quasi tutte le città avevano cambiato faccia. Erano diventate razionali, ordinate, precise, proprio come le città delle colonie. O come si diceva fossero le città dei coloni. I coloni, oppure gli Altri, come li chiamava la propaganda degli Isolazionisti. Era stato uno dei tanti effetti collaterali dei Trattati: i terrestri avevano visto gli altri pianeti e avevano cercato di imitarli anche in casa propria, una volta tornati. Con poco successo, secondo George, ma almeno le città funzionavano meglio.

E là, persino là, in mezzo alle case, c’è un gruppetto di Isolazionisti, che si riunisce tre volte al mese proprio sotto il nostro naso. Gemelos l’avrebbe potuto far arrestare facilmente, ma Leonardi non lo voleva. Non lo voleva, perché prenderne dieci o venti non sarebbe servito, non senza aver strappato le radici del loro gruppo, ma presto non lo avrebbe voluto anche per un altro motivo, non appena gli fossero arrivati i documenti di Gemelos. Arrestare quegli Isolazionisti sarebbe stato come arrestare i vecchietti che si lamentano del governo, nel mercato di quartiere, accusandoli di terrorismo.

Un atto demenziale, insomma.

Eppure, una organizzazione doveva esserci. Si comportavano in un modo fin troppo preciso, troppo preordinato per essere casuale. Mantenevano apposta un profilo basso, li confondevano con parole e parole al vento, e intanto da qualche parte i capi veri si preparavano, si organizzavano e, se loro non avessero fatto nulla per fermarli, li avrebbero colpiti. George non aveva motivo di crederlo, era una follia da paranoici, eppure la follia del dottor Leonardi l’aveva almeno in parte contaminato. Ne era stato così convinto, quell’uomo, quando gli aveva assegnato l’incarico...

E così la merda era finita sempre addosso al solito, vecchio Gemelos. Doveva setacciare il mondo con un esercito di servizi segreti, spioni militari che pedinavano pensionati, registravano discussioni di casalinghe e identificavano giovani sbandati. Ma ancora nessun pesce grosso. Il Direttore George sorrise suo malgrado. C’era qualcosa di eminentemente ridicolo in tutto ciò, qualcosa che soltanto il dottor Leonardi avrebbe potuto provocare: l’Ufficio per la Colonizzazione si occupava di inseguire l’ombra di oppositori interni, invece di pensare alle colonie. Ma già, dopotutto il primo bersaglio degli Isolazionisti era sempre stato l’Ufficio, simbolo dell’alleanza tra la Terra e i coloni, i loro tanto odiati Altri, e aveva senso che fossero proprio loro a occuparsene. Più o meno. A grandi linee.

O almeno, era meglio convincersi che avesse senso. Per la propria salute mentale, per il bene della poltrona su cui sedeva e su cui non aveva potere.

Il sole si avviava verso il tramonto, nel cielo sopra la città, e le ombre si allungavano. Quella sera, ci sarebbe stato un altro incontro degli Isolazionisti, così gli avevano comunicato i servizi segreti. Un incontro inutile, come tutti i precedenti e come chissà quanti dei successivi. Eppure, in mezzo agli strati di inutilità, qualcosa doveva pur esserci. Qualcosa. Doveva solo continuare, e aspettare che il qualcosa venisse a galla. Sperando che non accadesse troppo tardi.

Sperando che non fosse già troppo tardi. Anche solo per non perdere la faccia davanti al mondo, per essersi accanito contro cittadini idioti, incapaci di intendere e di volere. Con un sospiro, George Gemelos si sistemò meglio sulla poltrona e tornò ad aspettare.