Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 16

Autunno a Varshi: una stagione placida, tranquilla, abbastanza piovosa. Una stagione colorata, nei parchi della città, dove le foglie cambiavano e la vegetazione si trasformava. Non quanto Matteo si sarebbe aspettato, in base alla propria esperienza di autunni terrestri, ma un cambiamento c’era, nei profumi più ancora che nelle tinte. E se l’estate sembrava aver portato in città tutti gli animali e gli insetti che si potessero trovare nei paraggi, l’autunno doveva averli rispediti al mittente e agli spazi vuoti e aperti delle campagne attorno: unici rumori, adesso, erano umani, o artificiali. Una stagione pacata, senza le classiche nebbie, ma ventosa, a tratti sonnolenta. Una stagione che Matteo non poté godersi quanto avrebbe voluto, perché fu proprio allora che qualcosa cambiò.

Fu quando notò per la prima volta l’uomo coi baffi, l’otto di Autunno.

Matteo Kori non si era mai considerato una persona paranoica. Non aveva mai avuto la sensazione che qualcuno lo osservasse o lo seguisse, oppure che la gente parlasse di lui e dietro di lui, quando passava per strada, o ancora che gli nascondessero deliberatamente cose, informazioni o altro. Mai, per quel che poteva ricordare. Considerata la sua miserabile autostima, semmai, tendeva a succedere il contrario: si sentiva più spesso uno spettro, ignorato da tutti, piuttosto che un sorvegliato speciale, guardato da tutti. Eppure successe, quell’otto di Autunno. Qualcuno lo osservava.

Era in biblioteca a studiare, o almeno a svolgere un’attività che poteva passare per studio, se ci si trovava a una certa distanza: abbandonava il cervello a un flusso di informazioni sulle tendenze più recenti nella critica letteraria, mentre aspettava l’inizio della prossima lezione con l’entusiasmo di un asparago. Era solo, su un piano strettamente esistenziale e psicologico: la biblioteca era piena, ma accanto a lui non c’erano persone di sua conoscenza, il che lo rendeva solo, oppure solitario, se si preferiva. Indira era andata da qualche parte con la sua collega Mei qualcosa (un giorno ne avrebbe ricordato il cognome, forse, ma quel giorno era ancora lontano) e Sharma era chissà dove, a svolgere le proprie attività da filosofo. E lui... si sentiva osservato.

Il che non sarebbe stato strano, da un certo punto di vista. Il suo colorito generale lo rendeva molto riconoscibile, diverso com’era dalla media lakshmita, e di tanto in tanto capitava che qualcuno lo guardasse un po’ di più. Niente di particolare, per carità: giusto una occhiata più lunga, magari un sopracciglio alzato, ma nessun commento, nessuna azione, niente altro. A parte Kemala, d’accordo, ma lei stava espressamente cercando un terrestre ed era un caso più unico che raro, per fortuna. La sensazione di essere osservato era un’altra cosa, che aveva trovato spesso nei libri, ma mai nella sua vita reale. La sensazione che qualcuno stesse scavando due buchi nella sua schiena, con gli occhi. Succedeva davvero, dunque?

Quando si voltò, con una certa cautela, vide che il misterioso osservatore era un uomo di mezza età, che sfoggiava un paio di baffi voluminosi e imperiali. Era la sola persona che avesse distolto in fretta lo sguardo, quando lui si era girato, e Matteo lo avrebbe descritto come di etnia indiana, sulla Terra; su Lakshmi, invece, non esisteva un termine equivalente, come lui aveva scoperto a proprie spese, con una figuraccia colossale. Qualunque fosse l’origine, indiana, cinese o altro, su Lakshmi erano tutti lakshmiti: puntare il dito sulle differenze pseudoetniche era considerato offensivo.

In quel momento, però, età, colore e lineamenti erano dettagli che sfuggivano alla mente di Matteo, davanti ai baffi dell’uomo. Non poteva notare altro. Erano un buco nero, che attirava i suoi occhi e impediva loro di fuggire altrove. Erano orribilmente affascinanti, ecco. Non aveva mai immaginato che una persona potesse deliberatamente tagliarli e pettinarli in quel modo, eppure quell’uomo lo aveva fatto. Sembrava un tricheco, oppure uno smilodonte. Cucciolo, in entrambi i casi, perché le zanne di pelo erano corte, e il colore nero le faceva sembrare affette da gravi problemi di carie, ma quella era la sagoma suggerita: così voluminosi sul labbro, i baffi si allungavano in due punte ai lati della bocca, fino a poco sotto il mento. Il resto della faccia era solo sfondo.

Ma non gli danno fastidio? Se li sistema ogni mattina? Col gel? Il cervello di Matteo continuava a inviargli domande simili, mentre gli occhi non sapevano abbandonare quella misteriosa figura, o più precisamente i mustacchi ponderosi. Soltanto dopo quasi due minuti a fissarlo lo sfiorò il pensiero che, se davvero quella persona aveva osservato lui, adesso i ruoli si erano invertiti ed era lui, lui Matteo, a osservare quella persona. A fissarlo, per essere più precisi. E con la bocca aperta, che non migliorava le cose. Un atteggiamento molto maleducato.

Chiudendo finalmente la bocca, e sentendo il rossore che partiva dal collo e si allargava prima sulle guance e poi sul resto della faccia, Matteo si girò, tornando a non concentrarsi sullo studio. Che tipo bizzarro, il Baffo! Ma in fondo non c’erano leggi che vietassero acconciature facciali di quel genere, per cui era una persona bizzarra, ok, ma non anormale. E se all’inizio aveva creduto che il Baffo lo stesse fissando... beh, doveva ammettere di aver ricambiato il favore, da un certo punto di vista. Il che si compensava, giusto?

Poco convinto, ma non trovando argomenti migliori, Matteo si immerse di nuovo (o finse di) nel magico mondo incantato della critica letteraria coloniale. E dopo una manciata di secondi, riecco gli occhi, che gli perforavano la schiena. Il Baffo? Probabile. Se si fosse girato, era quasi sicuro che lo avrebbe visto distogliere lo sguardo, ma era sicuramente sicuro che lui, Matteo, si sarebbe lasciato di nuovo ipnotizzare dai mustacchi. Quindi non si girò, scegliendo di ignorare, per quanto possibile, la sensazione fastidiosa. In fondo, mancava poco alla lezione e poi, una volta uscito di lì, quel Baffo non lo avrebbe mai più rivisto. Giusto?

Sbagliato. Lo rivide due giorni dopo, all’uscita dalle lezioni, seduto su una panchina nei pressi della sede universitaria. I loro occhi si incrociarono per un attimo, prima che quelli di Matteo scendessero a fermarsi sui baffi, imponenti proprio come li ricordava. Inconfondibili, anche. Se la faccia poteva essere dimenticata con facilità, soprattutto perché Matteo non l’aveva studiata con molta attenzione e comunque la sua memoria visiva era quella che era, i baffi non potevano essere dimenticati, forse neppure con una lobotomia. Quei baffi che lo facevano sembrare un tricheco, o uno smilodonte, o un qualunque altro animale dotato di zanne grosse e sproporzionate.

«Ti si è spento il cervello?»

La voce di Indira lo riportò alla realtà, strappandolo al paradiso dei baffi. Era poco più avanti di lui, ormai in fondo ai gradini dell’ingresso (o uscita, dato che stavano uscendo), e lo fissava con un mezzo sorriso e una buona dose di perplessità, stessa espressione che poteva vedere sulla faccia di Mei qualcosa, che frequentava come loro quella lezione e che, come loro e con loro, scendeva la breve scalinata di ingresso (o uscita) della sede.

«No, è che mi sono distratto un attimo,» le rispose, non riuscendo a trovare qualcosa di migliore da dire. Pensieri rapidi e battute non erano il suo forte, purtroppo, e nessun tipo di allenamento pareva funzionare, per migliorare quelle caratteristiche.

«Incantato, direi. Sei stato colto da improvvisa illuminazione, alla vista del mondo esterno? Non ero a conoscenza di questi possibili effetti collaterali, in caso di esposizione prolungata ai nostri critici letterari.»

Indira ghignava, Mei sorrideva, Matteo arrossiva. «Non metterti a parlare come Sharma, per carità,» le disse, cercando di cambiare argomento. «Non gli assomigli molto.»

«Lo voglio ben sperare! Allora, vieni o stai? Potrà anche piacere a te, ma io non ho voglia di passare il resto del pomeriggio davanti all’università.»

«Arrivo, arrivo.» E riprese a muoversi, scendendo i pochi gradini che mancavano. Non era neppure accorto di essersi fermato, alla vista del Baffo. Doveva essersi davvero spento il cervello, come gli aveva fatto notare Indira, con la sua solita eleganza e l’ancora più solita gentilezza. «È che mi ero un attimo distratto, guardando quella persona.»

«Quale persona?»

«Quell’uomo sulla panchina, coi...»

Ma la panchina adesso era ovviamente vuota e del Baffo non c’era traccia, in mezzo alla calca di studenti, che defluivano dalla sede alle loro spalle. Poteva essere finito ovunque. Poteva anche non esserci mai stato, almeno in teoria, ed essere soltanto un frutto della sua immaginazione, ma Matteo era moderatamente sicuro di averlo visto. Se ne sarà andato, pensò. Forse aspettava qualcuno.

Sì, era una spiegazione plausibile. Lo aveva visto per la prima volta in una biblioteca, frequentata da studenti universitari, e lo aveva rivisto oggi davanti a una sede universitaria. Poteva essere amico o parente di un qualche studente, o professore. E sul perché avesse fissato proprio lui... beh, era un terrestre dopotutto, e il suo colorito spiccava tra i lakshmiti. Niente di anomalo, dunque.

«Ti si è rispento il cervello, vero?»

Matteo alzò lo sguardo verso Indira e si accorse di essersi fermato di nuovo. Cosa aveva, oggi? Non riusciva neppure a pensare e camminare nello stesso momento? La sua testa era così sfasata? Aveva anche lasciato una frase a metà, adesso che ci badava, il che era anche peggio. Ma il suo brillante ingegno non aveva problemi a sfornare una spiegazione.

«Non so, oggi devo essere un poco stanco,» rispose, rifugiandosi nella più vecchia e banale delle scuse, almeno fra quelle che riuscisse a ricordare, al momento.

«Traumatizzato dalla critica letteraria, capisco. Ti prescriverò una robusta dose di Sharma, per farti riprendere.»

«Potrebbe essere il cambio di stagione,» intervenne a sorpresa Mei qualcosa. «A volte dà problemi, specie per chi non ci è abituato. Debolezza, ma anche un poco di febbre.»

«Si ammala coi primi freddi, dici? Anche se c’è ancora così caldo da girare in maglietta? È proprio debole, il nostro terrestre.»

«Beh, ma proprio perché è terrestre potrebbe non esserci abituato. Il cambio di stagione potrebbe aver indebolito le sue difese immunitarie, che saranno già provate dal trovarsi su un pianeta nuovo.»

«Un mollaccione, insomma.»

Matteo sentiva di dover dire qualcosa in propria difesa, prima che quelle due donne distruggessero anche il poco di dignità che gli rimaneva. Sulla Terra si era sempre vantato di non ammalarsi mai, a ragione, e adesso quelle due stavano discutendo su quanto fosse debole il suo sistema immunitario e il suo fisico. No, doveva intervenire, finché poteva e prima che gli prescrivessero brodini di pollo e mele cotte.

«No, beh, io sto benissimo, davvero. È solo che avevo altre cose per la testa e credevo di aver visto qualcosa, qui davanti all’uscita, ma invece devo essermi sbagliato.»

«Suona molto patetica come scusa, lo sai?» disse Indira, squadrandolo come una madre alle prese con le solite storielle del figlio.

«Se il tuo fisico ha problemi ad adattarsi al cambio di stagione, ci sono ottimi ricostituenti naturali che ti possono aiutare. Può succedere di non rispondere molto bene a un nuovo pianeta. Mi ricordo che anche le nostre bevande non ti avevano fatto un buon effetto.»

Indira esplose in una risata, alle parole di Mei, mentre Matteo assunse una intensa colorazione da pomodoro maturo, al ricordo della nottata immemorabile (perché non ne conservava memoria), alla fine della festa al centro culturale, in primavera.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Mei.

«Dipende dai punti di vista,» bofonchiò Indira, tra una risata e l’altra. «Ma forse è meglio se non gli parli della sua nottata selvaggia: non l’ha ancora digerita, direi.»

La discussione continuò ancora per un poco, concludendosi con la separazione, ognuno diretto al proprio alloggio. Si sarebbero rivisti in mensa, più tardi, ma il pomeriggio era ancora lungo e molte erano le cose da fare, per loro. Matteo, ad esempio, aveva il centro culturale terrestre, a reclamare i suoi servigi, e la mostra del Maestro Shimon Uris (come lo chiamava Maelle Prsic) a cui pensare. Non la cosa più divertente del mondo, senza dubbio, ma neppure la peggiore. Sentirsi ricordare la volta in cui si era ubriacato, ad esempio, era decisamente peggio, e quello gli era appena successo, grazie tante cara Mei, potevi continuare a tacere, come tuo solito.

E al centro culturale, ecco di nuovo il Baffo.

Camminava adagio tra i presunti capolavori del Maestro Uris (Maestro con la emme maiuscola, alla maniera di Maelle), contemplando i ghirigori biancastri, in simil-marmo, che dovevano costituire altrettanti capolavori della corrente escapistico-prassitelica, qualunque cosa significasse. Di tanto in tanto, si soffermava davanti a uno di essi, studiandolo con attenzione e accarezzandosi piano i baffi, quel monumento che decisamente non era escapistico-prassitelico, ma di certo catturava lo sguardo meglio di qualsiasi altro particolare dell’uomo.

Perché furono quelli a essere riconosciuti da Matteo. Non la faccia, non i vestiti, non il portamento, ma i baffi, la folta criniera che aveva appiccicata sopra al labbro superiore. Era la stessa persona che aveva già visto in biblioteca, la stessa che aveva visto all’uscita dell’università. O almeno, i baffi erano gli stessi: che ciò valesse anche per l’intera persona, al momento, era soltanto una ipotesi, ma a Matteo pareva plausibile. Dopotutto, i baffi dovevano pur appartenere a qualcuno, no? E quanti si potevano trovare, in giro, con baffi del genere? Nessuno, almeno in base alle sue osservazioni.

No, uno sì. La persona che, negli ultimi, giorni, continuava a incrociare. Di conseguenza, doveva essere sempre lo stesso. Un baffo, una persona; una persona, un baffo. QED.

A un qualche livello, Matteo era consapevole che quel suo presunto sfoggio di logica deduttiva non avrebbe retto neppure la più blanda delle analisi, tra quelle che Sharma poteva mettere in pieni nei tre minuti successivi al proprio risveglio, ma per adesso gli bastava. Era la stessa persone. E lo era, perché così voleva credere. Non era pronto ad accettare l’ipotesi che più persone potessero avere baffi del genere. Andava contro tutte le sue convinzioni più profonde sulla natura umana.

Il Baffo intanto proseguiva il percorso tra i monumenti e Matteo non poté non notare che seguiva proprio l’itinerario tracciato, con pazienza e monomaniacalità, da Maelle Prsic, per godersi al grado massimo le creazioni del Maestro Uris. Ammesso che una persona normale potesse godersi quegli obbrobri. E ammesso che una persona con quei baffi potesse essere normale. C’erano un po’ troppe ammissioni, per i suoi gusti, e Matteo ritenne più saggio rifugiarsi nel bar del centro, dove era quasi sicuro di poter trovare qualche compagno di sventura. Così fu.

Roger Snyder sedeva a un tavolino da solo, coi suoi capelli lucidi più lucidi del solito. Non la più gradevole delle compagnie, soprattutto se il lucore dei capelli non era dovuto a qualche sostanza artificiale, applicata da Roger stesso, ma a secrezioni naturali dei bulbi piliferi, come lui sospettava, ma era pur sempre meglio che tornare nella sala delle mostre e rivedere quel Baffo. Così si sedette accanto al collega terrestre, studente di fisica, e chiacchierò del più e del meno, per riempire il tempo e non dover ascoltare i propri pensieri, che stavano assumendo tonalità troppo paranoiche per i suoi gusti.

Dopo quella giornata, qualcosa pareva essere cambiato in lui, perché adesso non camminava più per strada, distratto e in parte perso nel proprio mondo, ma studiava con attenzione i passanti, che lo ricambiavano allontanandosi un poco da lui e allungando il passo. Cercava il Baffo e lo trovò più di una volta. Lo trovò più volte di quante fosse disposto ad accettarne, per la propria sicurezza e per il benessere mentale che ne derivava. O che non ne derivava. Pareva che, dovunque andasse, quel baffo fosse sempre nei paraggi, o quasi sempre, o almeno così spesso da non fare molta differenza.

Perché mi segue? Poteva anche non seguirlo, in effetti, potevano essere semplici coincidenze, o si poteva anche pensare che, in realtà, quel Baffo fosse sempre stato nei paraggi, perché abitava nella zona o perché frequentavano gli stessi luoghi, e lui, lui Matteo, non vi aveva mai badato. Possibile. Plausibile. Razionale. Eppure non lo convinceva. Mi sta seguendo. Qualunque strada scegliesse, i suoi pensieri finivano sempre lì. Il Baffo lo stava seguendo.

«Secondo me si tratta solo di un eccesso di sensibilità, da parte tua,» rispose Sharma, quando gli parlò del Baffo, spiegandogli cosa sospettasse e chiedendogli un parere. Era sera, avevano finito di studiare per quella giornata, e Sharma era appena uscito dalla doccia, con una salvietta ancora in mano, da sistemare. Ci aveva giocherellato distratto, ascoltando la storia di Matteo.

«Sensibilità da parte mia? Non credo proprio! Lo vedo dappertutto. Mica me lo sto sognando.»

Sharma alzò una mano. «Non metto in dubbio che tu lo veda realmente, per carità. Ciò che voglio dire è che, forse, è davvero un semplice passante, che se ne va per i fatti propri e, per caso, spesso si trova a percorrere la tua stessa strada.»

«Per caso, eh? E sempre sulla stessa strada?»

«I tuoi percorsi abituali non sono certo insoliti, anzi: per quanto ho visto, tendi sempre a scegliere le vie più trafficate, quando ti sposti a piedi. Sono sicuro che, se tu cominciassi a prestare attenzione a tutte le facce che incroci, scopriresti ben presto che questo uomo coi baffi non è il solo ad apparire più volte in più giorni diversi. Al contrario, penso proprio che la maggior parte dei passati abituali ricada in questa categoria.»

«Cioè dici che incontro sempre le stesse persone?»

«Non proprio sempre le stesse, ma suppongo che una buona parte di loro utilizzino le stesse strade più volte, quasi tutti i giorni. L’uomo è un animale molto abitudinario e non è anomalo che scelga sempre gli stessi percorsi, se ne ha la possibilità. Questo uomo coi baffi, a quanto mi dici tu, ha un aspetto molto peculiare, per cui ha attirato la tua attenzione e adesso lo noti ovunque. Altri, dotati di aspetto meno peculiare, ti incrociano probabilmente con la stessa frequenza, ma tu non li hai ancora notati, perché il loro aspetto è, appunto, meno peculiare.»

«Quindi dici che non è niente e non mi devo preoccupare.»

«Finché lo incontri in luoghi pubblici e strade di grande traffico, non vedo proprio cosa ci sia da preoccuparsi. Se tu continuassi a incontrarlo, pur scegliendo deliberatamente percorsi più anomali e inconsueti, allora i tuoi sospetti avrebbero un qualche fondamento più solido. O almeno, questo è il mio parere,» concluse Sharma, alzando le spalle.

«Ma tu non lo hai mai visto da queste parti?»

«Non ricordo di avervi mai prestato particolare attenzione. Di solito non mi guardo attorno, mentre cammino. Se vuoi, però, proverò a farlo e poi ti riferirò di eventuali risultati.»

Il che non era molto, ma probabilmente era il massimo che avrebbe potuto ottenere dall’amico. Non sembrava che la sua storia avesse fatto poi molta impressione su Sharma. Anzi, non sembrava che l’amico gli avesse creduto, o almeno che avesse preso sul serio la sua idea di essere seguito da quel Baffo misterioso. Non poteva dargli torto, oggettivamente: a parti inverse, probabilmente neppure lui avrebbe preso quella storia sul serio, in assenza di prove. Perché suonava strana, anzi stramba. È davvero paranoia?, si chiese Matteo.

Una cosa che non raccontò a Sharma, una cosa che non avrebbe raccontato a Sharma, era la storia di Kemala e della sua assurda idea di infiltrarsi su Madre, spacciandosi per terrestre. Col suo aiuto. Fin dall’inizio aveva deciso di non tirare in mezzo anche il proprio compagno di stanza ed era più che mai determinato a mantenere quella posizione, fino alla fine: lui aveva accettato di aiutarla e solo lui sarebbe finito nei casini, eventualmente. D’accordo, Sharma era la sua balia e, forse, aveva un qualche tipo di responsabilità nei suoi confronti, magari anche legale, ma questo non era un buon motivo per fargli rischiare qualcosa. Se dovevano esserci conseguenze, le avrebbe pagate soltanto lui. Era così che funzionava il principio di responsabilità, giusto?

Matteo non ne era del tutto sicuro, perché non aveva mai capito molto bene le spiegazioni, a volte non del tutto identiche, che aveva ricevuto da Sharma stesso e da Chakra, ma la sintesi, così come la aveva presentata quest’ultimo, era “fai quel che vuoi, poi cazzi tuoi”. Ok, Matteo non stava facendo proprio ciò che voleva, perché altrimenti non si sarebbe mai impelagato in quella stupida idea di Kemala, ma lo stava facendo perché era troppo debole per tirarsi indietro, il che, da un certo punto di vista, poteva valere come silenzio-assenso. Non un “lo accetti, perché lo vuoi”, ma un “lo accetti, perché non lo rifiuti”. Circa. Più o meno.

Era sicuro di essersi perso in una qualche fase del ragionamento, perché non tutti i passaggi gli tornavano, ma il punto era un altro. Stava facendo una stupidata, qualunque fosse la ragione, e non voleva che anche i suoi amici ci finissero dentro. Non avrebbe voluto finirci dentro neppure lui, ma ormai c’era e avrebbe almeno cercato di tener fuori gli altri. A Sharma non avrebbe parlato, dunque.

E il Baffo continuava ad apparire, nelle strade che lui era solito frequentare, così come nei luoghi che era solito frequentare. Stava diventando una presenza fissa, non gradevole, ripetitiva. Quando si girava, non sempre ma spesso trovava il Baffo, che distoglieva in fretta lo sguardo, e così Matteo si scopriva a essere fissato da quelle due zanne di pelo, nero, che gli pendevano ai lati della bocca. Un tricheco, sì, o uno smilodonte, ma fatto di baffi. Inquietante. Ancora più inquietante perché, poco dopo essere stato visto, il Baffo svaniva nella folla, mischiandosi agli altri passanti, e Matteo non lo riusciva più a individuare.

Perché c’era sempre folla, attorno a loro. Poteva essere un edificio pubblico affollato, oppure una strada affollata, una piazza affollata, un parco affollato, o qualunque altro luogo a cui potesse essere abbinato l’aggettivo “affollato”. Mai da solo. Sì, la mostra del Maestro Uris non era esattamente un posto affollato, anzi, ma quella era stata l’eccezione, forse, o forse era stato l’inizio del pedinamento e doveva ancora prendere le misure a Matteo. Perché sì, sembrava proprio quello: un pedinamento. Un pedinamento compiuto da un mezzo incapace, ok, ma pur sempre un pedinamento.

Matteo poteva pensare a una sola ragione, per cui qualcuno avrebbe mai dovuto avvertire il bisogno di pedinare una persona inutile e ininfluente come lui: il progetto di Kemala. Avevano scoperto che lei voleva falsificare la propria identità, per infiltrarsi in un pianeta che era sotto il diretto controllo di una potenza alleata. Più o meno alleata, se non altro. E questo violava di sicuro diverse leggi, sia locali sia interplanetarie. Quindi, volevano impedirlo.

Ma quello era il punto di non ritorno, come Matteo sapeva bene. Quando cominci a fantasticare su terze persone plurali, che agiscono e complottano, non rimane più nulla che possa frenare la deriva paranoica, niente a cui aggrapparsi, per non essere risucchiato dall’oceano della insanità più pura. E lui non si sentiva ancora pronto a osare tanto, no grazie. Molto meglio abbandonare in fretta quei pensieri e accontentarsi della spiegazione proposta da Sharma, che era normale, logica, accettabile. Coincidenza. Solo un altro dei mille passanti, che percorrevano la sua stessa strada.

Peccato che Matteo non riuscisse ad accettarla. Così, quando l’autunno era ormai bene avanzato e gli alberi che dovevano perdere le foglie avevano cominciato a perdere le foglie, Bogdan ebbe un momento per incontrarlo e Matteo raccontò anche a lui la storia del Baffo pedinatore, dopo aver ascoltato le novità sulla tesi di specializzazione dell’amico e i suoi preparativi per il ritorno a casa, che sarebbe avvenuto a fine inverno, dopo la discussione della tesi e tutte le altre formalità.

«Un misterioso uomo mustacchiuto che ti pedina,» disse Bogdan, annuendo con cautela. «E lo vedi più o meno da ogni parte.»

«Sì, ma, come ti ho già detto, non sono baffi normali. Li ha pettinati in modo da assomigliare a un tricheco, hai presente? Con due zanne ai lati della bocca.»

«Sì, ok, capisco,» rispose Bogdan lentamente, giocherellando col bicchiere che aveva di fronte, «ma non credo che il taglio dei suoi baffi abbia qualcosa a che fare col resto. Sarà soltanto una moda, o un vezzo personale. Si vedono cose più strambe, sulla Terra.»

«Sulla Terra, ma qui? Hai visto molta gente con acconciature strane, qui su Lakshmi?»

«Non ho certo girato tutto il pianeta, anzi, ma qui a Varshi no, va bene. Non sembra che i baffi siano molto di moda, in questo periodo e in questa città. Le barbe, invece, sì. Di barbe ne vedi ovunque e non tutti si accontentano del taglio da filosofo, come il tuo amico. Quelle possono diventare molto strane, te lo assicuro.»

Era vero, Matteo doveva ammetterlo. Nel tempo trascorso lì, a Varshi, aveva visto parecchie barbe e alcune erano decisamente strane, tendenti allo strambo. Tra gli artisti, soprattutto, o tra chi amava ritenersi o farsi ritenere artista. Anche soltanto lì attorno, nel locale in cui sedevano, poteva vedere almeno un esempio di taglio strampalato, con un tizio non molto più vecchio di lui, che sfoggiava una bizzarra barba incerata, di stile mesopotamico.

«Sì, ok, ma i baffi no,» disse, cercando di far valere il proprio punto.

«I baffi no, d’accordo. A quanto pare, tu ne hai trovato uno. Bravo! E dunque?»

E dunque? Ottima domanda. Non era di barbe e baffi che voleva parlare, e allora perché aveva preso quella strada? Meglio raddrizzare la rotta, prima di finire contro qualche scoglio. «Era solo per dire che è una persona che dà nell’occhio. Magari l’hai vista anche tu, non so.»

«Non ricordo di averla mai vista, mi spiace. A ogni modo, qual è il problema?»

«Che mi segue! È dall’inizio dell’autunno, ormai.»

«Ti segue, oppure frequenta i tuoi stessi luoghi, come suggerisce Sharma. Ma ipotizziamo che ti stia davvero seguendo, come sostieni tu,» continuò Bogdan, con tono calmo. «Quale motivo avrebbe per seguirti? È un tuo misterioso spasimante? Un feticista dei terrestri? Oppure tu hai combinato qualcosa, per cui pensi che valga la pena di pedinarti?»

Ed ecco la domanda, che avrebbe voluto evitare, ma che sapeva di non poter evitare. Non gli poteva rispondere, non in modo preciso, non in modo dettagliato. Poteva tuttavia svicolare, tenersi sul vago e sperare in bene. Così fece. «Ma no, niente di che, niente di grave, credo. È solo che...»

«Solo che?»

«Beh, ecco, magari alcune mie azioni recenti... alcune mie scelte recenti potrebbero non essere state condivise da tutti, oppure interpretate male e...»

«E?»

«Ecco, non vorrei che qualcuno si fosse allertato per nulla, insomma. Sai com’è.»

Bogdan sospirò. «Non sono del tutto sicuro di sapere come sia, non sapendo appunto cosa sia. Hai una qualche intenzione di essere più preciso, oppure dobbiamo rimanere sul vago? Te lo chiedo solo a puro titolo informativo, giusto per sapere, così mi tolgo subito il pensiero. Sai com’è,» aggiunse, con un sorriso che conteneva più di una punta di derisione, ma mascherata con cura.

«Non credo di poter scendere nei dettagli, ecco.»

«Vuoi che parliamo allora di qualcosa che è capitato a un tuo amico, allora?»

Matteo chiuse gli occhi e si strofinò con lentezza le palpebre. «Questo no, ti prego, risparmiami una umiliazione. Non è niente che sia successo a un mio amico, ma non posso scendere nei dettagli, non qui. Ecco.»

«C’è di mezzo una ragazza, giusto?»

«...non posso scendere nei dettagli.»

«Una bella ragazza, giusto?» proseguì Bogdan, adesso sorridendo apertamente. La discussione stava diventando parecchio interessante, incluse le espressioni sulla faccia di Matteo. Era come leggere un libro spalancato, di quelli con tanti disegni colorati e poche parole, molto grosse.

«Potremmo tornare all’argomento principale, grazie?»

Bogdan ebbe pietà di lui. «Torniamo pure, come vuoi. Il problema è che io non so proprio quale sia l’argomento principale, data la scarsità di informazioni che mi hai fornito.»

«Il Baffo, ok?»

«Ok.»

«Che tu sappia, quei baffi possono essere il segno di qualcosa? Una specie di distintivo, magari.»

«Non ho mai sentito nulla del genere e, francamente, lo trovo piuttosto assurdo. Chi mai userebbe i baffi come distintivo? Ti immagini forse un corpo militare composto da mustacchiuti energumeni? O, peggio ancora, una polizia segreta, la cui insegna è qualcosa che portano proprio in faccia, per di più che dà parecchio nell’occhio? Proprio una segretezza encomiabile, niente da dire...»

Vero. Messa così, la sua idea era estremamente stupida. O almeno, suonava estremamente stupida, il che era più che sufficiente ad affondarla. «Beh, non pensavo proprio a un corpo segreto...» E a cosa pensava, allora? In effetti, non lo sapeva più neppure lui.

«Voglio ben sperare. Sarebbe una idea più che stupida, almeno dal mio punto di vista. Sulla Terra, i corpi segreti sono, appunto, segreti, e non cercano di farsi notare. È vero, non posso escludere che qui su Lakshmi funzioni in modo diverso, ma lo trovo francamente difficile da credere.»

«Sì, ok, ma il punto è che questo Baffo continua a seguirmi, dall’inizio dell’autunno. Cosa ci posso fare? Hai qualche suggerimento da darmi?»

Bogdan sospirò. «Puoi cominciare davvero con quello che ti ha suggerito Sharma. Cambia itinerari, scegli strade insolite, meno frequentate, cambia anche i tuoi orari, magari i giorni, e stai a vedere il risultato. Se non lo vedrai più, allora era solo una coincidenza e non stava seguendo te; se lo vedrai ancora, allora ti sta proprio seguendo, o almeno è molto probabile che sia così.»

«Ok, e poi? Se mi segue davvero?»

«Parlane col tuo compagno di crimini. O con la tua compagna di crimini. Potrebbe saperne qualcosa in più, soprattutto se è lakshmita. Ah, a proposito: non è che stiamo parlando di Chakra, vero? Non ti sei messo in società con lui, per combinare qualcosa di strano?»

«No, perché? Cosa ha fatto?»

«Che io sappia, niente, ma è qualcuno di cui non mi fiderei troppo. È intelligente, ma sopratutto è sveglio, e non pensa nello stesso modo degli altri lakshmiti. Non sarei certo sorpreso, se ti avesse convinto a fare qualcosa di strano. A combinare qualcosa di strano, meglio. Di strano o di stupido, a seconda dei punti di vista.»

«No, no, non è lui, davvero!»

«Ottimo! E così abbiamo appurato che qualcuno c’è. Adesso resta solo da scoprirne l’identità.»

Matteo si morse le labbra. Fregato come un bambino! Sapeva che Bogdan era più intelligente di lui, nonché più esperto in quasi ogni campo, ma non era leale utilizzare certe tecniche, soprattutto se tu avevi già la certezza che il tuo interlocutore, per di più tuo amico, ci sarebbe caduto. Sì, ci dovrebbe essere una legge, in proposito.

«E va bene, proverò a sentire anche il suo parere...» si arrese. «Grazie comunque del consulto e dei suggerimenti. Niente grazie, invece, per la trappola.»

Bogdan sorrise. Chiacchierarono ancora un poco, di argomenti più leggeri e del viaggio di ritorno sulla Terra, per Bogdan sempre più vicino, proprio come lo era la sua laurea specialistica. Il lavoro all’Ufficio per la Colonizzazione era stato confermato, attendevano soltanto il suo ritorno, e la vita gli sorrideva, grossomodo. Almeno per un dato valore di sorriso. Matteo lo invidiò parecchio, come già lo aveva invidiato sulla nave, durante il viaggio verso Lakshmi. Poi, quando fuori era buio e il tempo del ritorno era giunto, salutò e uscì dal locale, sentendosi un poco più leggero.

Bogdan lo seguì con lo sguardo, mentre infilava la porta, poi si sistemò un poco più comodo sulla sedia e vuoto il bicchiere. Chissà in che guaio si era andato a infilare, Matteo? Difficile dirlo, ma era quasi sicuro che ci fosse di mezzo una donna, in un qualche modo. Era proprio il tipo che si lasciava incastrare così, da bravo pesciolone. Ma aveva anche una testa parecchio dura, più di quanto lui si aspettasse, e non gli aveva voluto dire altro.

Affari suoi, in fin dei conti. Gli sarebbe dispiaciuto, se si fosse messo in guai seri, ma quel pianeta aveva una percezione della realtà molto netta, una filosofia scolpita nel granito: ognuno era libero di danneggiarsi come preferiva, era anzi invitato a farlo. Ecco il cappio, infilaci pure la testa come e quando ti viene voglia: lo stringeremo noi. Intromettersi? Impedirlo? Sarebbe stato parecchio vicino all’illegalità, per quanto si potesse parlare di illegalità, su Lakshmi. Bogdan non era ancora certo dei confini della legge, lì, o della sua esistenza.

«Filosofia stupida,» brontolò a bassa voce, ma non sarebbe rimasta la sua ancora a lungo. La tesi era finalmente conclusa, nonostante il relatore, e rimaneva soltanto la discussione. E poi, si torna a casa. A casa, sulla Terra, con un lavoro sicuro, stabile, e niente di cui preoccuparsi. Forse non il lavoro più divertente che si potesse immaginare, sedere tutto il giorno davanti a schermi e file di dati, ma il lavoro che voleva lui. Inoltre, gli avrebbe offerto più occasioni per viaggiare e visitare altri mondi.

Non Lakshmi, se possibile. Un bel mondo, per carità, con gente fantastica, niente da dire. Ma non era il suo mondo. Non era un mondo fatto per lui. La vita del pesce rosso, a nuotare nella boccia di vetro, non era una vita da Bogdan. E la vita all’Ufficio, come sarebbe stata? Migliore o peggiore?

Non lo sapeva, non nei dettagli, ma di certo sarebbe stata diversa e quello, al momento, gli bastava. Una vita senza qualcuno che ti guardasse sempre da sopra le spalle, per controllare che tutte le tue azioni fossero in linea, precise, ordinate, responsabili. Probabilmente era normale, per chi era nato e cresciuto lì, per chi non aveva mai conosciuto altre vite, ma per lui era stato un incubo, adesso lo poteva anche ammettere. In qualunque guaio si fosse messo Matteo, a breve avrebbe scoperto che il pianeta possedeva anche facce diverse. Non lo invidiava, per niente.

Alla fine si alzò anche lui e uscì, diretto al proprio alloggio. Il clima di Lakshmi era fantastico, se non altro, anche se lo stesso non si poteva dire del sistema politico ed etico. Anche lì, anche in pieno autunno, potevi girare di senza senza bisogno di giacche pesanti. Se fosse stato più fresco in estate, sarebbe stato molto meglio, ma anche così non si poteva lamentare troppo: non aveva mai usato la parola “freddo”, nei suoi anni di permanenza sul pianeta. C’era vento, sì, parecchio vento, ma era un vento tiepidi, oppure fresco, quando si avvicinava l’inverno, ma sempre gradevole, se non era abbinato alla pioggia.

Sì, Lakshmi poteva essere un buon posto per una vacanza. Breve, magari, e girando il più possibile, senza fermarsi a lungo in nessun posto. Per viverci? No, non lui.

Con queste e altre riflessioni pigre, sul tempo e la politica locale, Bogdan Stratos svanì nella notte, camminando verso il suo ultimo inverno lakshmita. Pensava al futuro, quel futuro dietro l’angolo, e a ciò che l’Ufficio gli avrebbe riservato. La sua vita sarebbe solo migliorata, da allora in poi. O così credeva, in quella notte di autunno, su Lakshmi.