Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 17

La primavera terrestre procedeva piano verso il prossimo punto di scambio della propria staffetta eterna, dove avrebbe ceduto il testimone all’estate, scaldandosi un poco di più ogni giorno, ma non avrebbe mai neppure sfiorato la velocità a cui il cervello di Davide Kori si scaldava, di riunione in riunione. Se era partito incerto, dubbioso, sospettoso e anche un poco sarcastico, davanti al gruppo di inutili nullafacenti che, a prima vista, componevano la cellula degli Isolazionisti, ormai era stato catturato dal campo gravitazionale del movimento e precipitava allegramente verso la superficie, infiammato dall’attrito al passaggio attraverso l’atmosfera insalubre delle varie cantine.

No, non dal campo gravitazionale del movimento. Da quello di Zeke Boodie, il capo. Un campo fatto di parole, promesse, suggestioni, visioni; un campo che lo aveva avvolto, invischiato, catturato e infine inglobato. Il sogno suscitato da Zeke, adesso, lo sognava anche Davide, se davvero lo si poteva definire un sogno. Forse uno di quelli da cui ti svegli urlando, sussurrava una parte della sua mente, ma era la parte di minoranza, poco più di una scoria, e ben presto la sua voce svanì, persa nel clamore degli altri pensieri.

Gli Isolazionisti erano il suo mondo. Gli Isolazionisti erano un mondo in cui lui contava qualcosa, in cui lui possedeva un peso specifico superiore, rispetto agli altri, e questo lo rendeva migliore del mondo fuori dalle riunioni, il cosiddetto mondo reale. Un peso incomparabilmente superiore, perché possedeva la fiducia del capo, di Zeke. Perché Zeke si fidava di lui, era chiaro.

Non gli aveva forse confidato, una sera di qualche tempo prima, il progetto che aveva per la Terra? Il modo in cui loro avrebbero agito, per realizzarlo? Non gli aveva confidato che il gruppo era importante, sì, e tutti avrebbero preso parte all’operazione, ma molti avrebbero solo agito, mentre pochi, una minoranza ristretta e selezionata, avrebbero pianificato, avrebbero pensato, e lui, Davide, sarebbe stato tra i pochi selezionati?

Sì, glielo aveva detto. Zeke si fidava di lui e lui non lo avrebbe deluso. E poi, guardandosi attorno, aveva dovuto riconoscere che, in fondo, dopotutto, i membri di quella cellula degli Isolazionisti non erano poi così terribili, come gli erano sembrati durante la prima riunione. Non tutti, almeno. Alcuni si potevano salvare, erano personaggi interessanti e probabilmente sarebbero anche potuti andare d’accordo, diventare amici. Forse. Facendo qualche tentativo.

Amir Cavalli era una scelta ovvia. Erano già amici, da anni, ed era stato proprio lui a portarlo negli Isolazionisti. Forse la sola cosa intelligente che avesse fatto nella propria vita, secondo il modesto parere di Davide: non una bella cosa da pensare, riguardo a un tuo amico, ma fin troppo realistica, almeno a suo parere. Il tempo speso nel gruppo, poi, pareva avergli fatto bene, da un certo punto di vista, perché adesso il modo di pensare e parlare di Amir era migliorato, era diventato più serio, più maturo. Il rendimento a scuola era affondato più in fretta di un macigno nell’oceano, ma quello era un altro paio di maniche e Davide non era certo la persona giusta per commentare, visto che pure lui stava affondando di pari passo. Ma la scuola era solo una perdita di tempo.

Oltre ad Amir, però, tra gli altri membri più giovani c’erano personaggi che poteva valere la pena di conoscere meglio. Amani Casal, ad esempio. Lei era una ragazza decisamente interessante, a parere di Davide, e sotto vari punti di vista. Più vecchia di lui, d’accordo, probabilmente sulla ventina, ma non era certo un problema, se non per il fatto che lei lo trattava un poco da bambino, da fratello minore. Ci sarebbe stato tutto il tempo per dimostrarle che sbagliava, perché in fondo era stato lui a guadagnarsi la fiducia di Zeke, non loro, e questo lo rendeva più maturo, giusto? Più affidabile, per lo meno.

«E di tuo fratello che vive con gli Altri, allora? Che mi dici, eh?» gli aveva chiesto Amani, quando lui aveva attaccato discorso per la prima volta, attendendo l’inizio di una riunione. Lo aveva chiesto con un tono un po’ troppo provocatorio, per i suoi gusti, ma a diciassette anni Davide era pronto a chiudere un occhio o tre, davanti a una bella ragazza. E Amani, con capelli lunghi, lisci e neri, pelle scura ma non troppo, occhi altrettanto neri e varie altre dotazioni, che sfortunatamente i suoi abiti attuali non evidenziavano (ma aspettiamo l’estate, aveva pensato), si qualificava decisamente come una bella ragazza, almeno per lui.

«Mio fratello è mio fratello,» lo aveva liquidato Davide. «Un povero fesso, che se n’è andato per studiare la letteratura, figurati un po’. Non sa neanche lui in cosa si è infilato. Lo dice anche Zeke,» aveva aggiunto, giocandosi una briscola parecchio pesante. Giocandola con buoni risultati, peraltro, a giudicare dall’espressione della ragazza.

«Ma potrebbe essere pericoloso per noi. Potrebbe fare la spia per gli Altri.»

«Non sa niente di me e di noi. Da quando è partito, l’anno scorso, non si è più fatto sentire, neanche quando nostra madre è finita all’ospedale. Ci ha abbandonati qui sulla Terra, per fare la bella vita tra gli Altri,» aveva concluso Davide, sapendo di essere un poco ingiusto con Matteo, ma non troppo. E poi lo faceva per cause di forza maggiore, al momento. Matteo avrebbe capito.

«E tu ci tieni tanto a un fratello del genere?» aveva chiesto Amani, schifata. «È soltanto uno schiavo degli Altri, ormai. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello!»

«È pur sempre mio fratello. E comunque Zeke conosce tutto e non ha niente in contrario.» Giusto per affondare un altro colpo e vedere che effetto avrebbe fatto. Amani era sembrata confusa, il che si poteva considerare un ottimo risultato. Aveva anche visto una piccola punta di ammirazione, nei suoi occhi, oppure era stata solo una poco pia illusione?

Non lo aveva scoperto, non in quella occasione, perché proprio allora Masser e Zeke erano entrati e la cantina era sprofondata nel più rispettoso dei silenzi. Amani non aveva più affrontato l’argomento “fratello”, almeno non con lui, ma in seguito avevano parlato in più occasioni, in modo abbastanza amichevole, e ogni tanto si veniva anche a sedere vicino a lui e Amir, nelle riunioni. Tutto sommato, lo si poteva anche considerare un risultato positivo, per il momento, in attesa di ulteriori sviluppi.

E poi c’era Philippe Zarakis, che doveva essere sui venticinque anni almeno, o forse un poco più vicino ai trenta. Vecchio, agli occhi di Davide, ma esperto e saggio agli occhi di Amir, che presto si era affezionato a lui e lo trattava un poco come un fratello maggiore. No, si era corretto Davide, non come un fratello maggiore, perché Amir non insultava e non disprezzava Philippe, né lo chiamava “Monco”, come faceva invece col proprio fratello reale. Lo trattava come avrebbe trattato un ideale fratello maggiore, ecco.

A Davide dava un leggero fastidio, condito con una spruzzata di gelosia, ma non tanto quanto si sarebbe aspettato. In fondo, quel Philippe era soltanto uno dei manovali nel gruppo, una delle tante e anonime pedine sacrificabili: non aveva la fiducia di Zeke, lui, non come Davide. Zeke Boodie si poteva confidare con Davide, si confidava con Davide, gli esponeva i propri progetti e ascoltava le sue osservazioni. Niente di tutto questo sarebbe mai potuto accadere con uno come Philippe, che a malapena sapeva da che parte fosse girato. No, Philippe non era alla sua altezza, ma poteva essere utile per una chiacchierata ogni tanto.

Quanto agli altri... Beh, poteva esserci qualcosa di buono in chiunque, se si sapeva scavare a fondo, ma in certi casi si sarebbe dovuto scavare troppo a fondo e alla fine il tunnel sarebbe collassato su se stesso, molto prima di aver raggiunto l’ipotetico buono. Utili come pedine, appunto, nel grande schema che Zeke gli aveva illustrato così bene, ma inutili come pensatori.

Che cosa sarebbe successo, ad esempio, se qualcuno avesse permesso a uno come il vecchio Otto di progettare qualcosa? Il vecchio Otto, coi suoi rari denti marci, la sua perenne puzza di vino e i suoi vestiti che avevano visto secoli migliori, nonché più puliti? Davide non lo voleva immaginare. Uno che delirava su misteriose spie degli Altri, che gli avrebbero rovinato la vita e che continuavano a sorvegliarlo dalla tazza del gabinetto, strisciando di notte nei cunicoli di ceramica (chissà poi perché proprio di ceramica, Davide non aveva mai osato chiederlo)... soltanto un pazzo furioso gli avrebbe assegnato un qualsiasi ruolo di responsabilità. E gli altri non erano molto meglio di lui.

Ma Zeke gli aveva spiegato che era necessario reclutare ogni persona, perché ogni persona poteva e doveva essere di aiuto. La lotta doveva unire la Terra, unirla contro gli amici degli Altri, quelli che volevano annientare la civiltà terrestre e assimilarla a quella degli Altri: nessun terrestre era troppo miserabile o troppo incapace, per poter dare un contributo anche minimo alla lotta. Quindi, il loro gruppo avrebbe accettato chiunque fosse pronto a lottare per il bene superiore: il compito del capo sarebbe stato poi trovare il modo migliore, più efficiente per utilizzare il materiale a disposizione.

Davide rifletteva su quelle parole anche la sera di metà maggio, quando Philippe aveva chiesto a lui e Amir di fermarsi alla fine della riunione, per discutere di qualcosa. Anche Amani si era aggregata, il che non dispiaceva certo a Davide, anche se lo aveva indotto a guardare con un certo sospetto a Philippe, che aveva capelli lunghi fino alle spalle, una leggera barba, lineamenti regolari e si vestiva in modo troppo elegante per una riunione in cantina, almeno a suo parere. Non prometteva bene ed era meglio controllarlo da vicino.

Quella sera, Zeke aveva preso la parola, verso la fine della riunione, per annunciare che il momento di agire si stava avvicinando e prima dell’estate avrebbe indicato a ognuno di loro alcune azioni da compiere, in preparazione del grande evento. Davide non ne era stato sorpreso, perché sapeva già di cosa si trattasse, ma c’era stata una notevole animazione tra gli altri e Philippe, seduto vicino a lui e ad Amir, lo aveva fissato a lungo, in silenzio. Era probabile che adesso gli volesse parlare di questo, il che non era del tutto sbagliato. Non era neanche del tutto giusto, come avrebbe scoperto poi.

Camminarono per un poco, tutti e quattro, fino a fermarsi in un vicino parco, o quantomeno in una zona con alberi e panchine, più un certo assortimento di rifiuti e materia organica di scarto, il che lo poteva qualificare come parco, agli occhi di una persona non troppo schizzinosa. Parlottarono del più e del meno, lungo la strada, senza impegnarsi in alcuna discussione approfondita, ma sfiorando solo i più classici argomenti per passare il tempo. Discussioni approfondite e serie avrebbero atteso fino alla sosta, quando a dare il via fu proprio Philippe, girandosi verso Davide.

«Tu sai qualcosa di ciò che si sta preparando, vero? Ho visto che tu e Zeke parlate spesso, da soli, e so anche che vi accompagna spesso a casa, tu e Amir. Qualcosa te lo avrà detto, giusto?»

«Niente di particolare, davvero,» rispose Davide, con uno sguardo rapido e storto ad Amir. E chissà da chi lo aveva sentito, il buon Philippe, eh? «Chiacchieriamo un po’, sì, ma non verrà certo a dire a me i suoi progetti, no?»

«Sì, sì, in viaggio chiacchieriamo un po’ della riunione, sì, ma poi basta,» confermò Amir, annuendo con la grazia di una marionetta. «Magari ci dicesse di più! Ma non siamo mica Masser, noi.»

«Masser ne sa di più?» chiese Philippe, fissando Davide.

«Beh, Masser è il suo vice, no? È chiaro che ne sa di più!» rispose Amir, tutto convinto.

Philippe continuava a fissare Davide, che taceva. Era fastidioso il modo in cui lo fissava, quel tizio, ed era ancora più fastidioso ciò che si poteva leggere sotto lo sguardo. Masser è il vice?, dicevano quagli occhi. Masser non ha abbastanza cervello, per fare il vice, e noi sappiamo bene come stanno le cose, eh? Zeke non lascerebbe mai decidere qualcosa a uno come lui. Fastidioso, già, e ancora di più perché lui era d’accordo con quanto suggeriva lo sguardo di Philippe. Masser era ottimo per fare scena e tenere in riga il gruppo, ma decidere? Comandare? No, non era un lavoro per lui.

«Sì, Masser,» disse infine Philippe. «Ma secondo voi, cosa ci chiederà di fare? Quale pensate che sia il suo programma. Il programma di Zeke, intendo,» specificò, con quella che per un attimo parve una strizzata d’occhio, rivolta a Davide.

«Attaccare qualcosa, di sicuro! Dobbiamo fargli sentire chi siamo,» rispose Amir, sempre entusiasta e sempre stupido, in un modo quasi commovente.

«No, probabilmente prima ci chiederà altre azioni di disturbo, per l’estate,» disse Amani. «Secondo me è ancora troppo presto per azioni decise. Prima ci chiederà di rovinare qualche altro incontro, o di sorvegliare qualche zona, cercare informazioni, cose così. Cose che serviranno per preparare una azione più grossa, in futuro.»

«Sì, possibile,» intervenne Davide, continuando a controllare Philippe. «Come ha detto Zeke più di una volta, la mostra deve essere una guerriglia continua, almeno nella prima fase, per raccogliere sia le forze, sia l’appoggio della popolazione. Giusto?»

«Giusto, giusto,» disse Philippe, annuendo. «Quello che mi domando io, però, è: possiamo davvero parlare di guerriglia, se tutto ciò che facciamo è disturbare qualche incontro informativo? Non dico che sia inutile, sia chiaro, ma... basterà? Otterremo davvero l’appoggio della popolazione, in questo modo? Ci prenderanno davvero sul serio, perché andiamo a fare le pernacchie alle conferenze e agli incontri organizzati dall’Ufficio?»

«Ma è solo l’inizio, no? Cioè, prima facciamo queste cose qui, ma poi, pian piano, passiamo a cose più serie, no? È così che convinciamo la gente.»

Quasi si fossero messi d’accordo, tutti e tre si girarono verso Amir, sospirando leggermente. Bravo ragazzo, il loro amico, ma non proprio una cima. «Penso che il progetto di Zeke sia un poco più complicato di questo,» disse Amani, misurando le parole. «In linea di massima è così, ok, ma credo che lui abbia in mente qualcosa di più dettagliato e specifico.»

«Beh, sì, ma lui è il capo.»

E a questo nessuno di loro poteva obiettare. «Altre operazioni di disturbo, dunque? Per me va bene, ma devo ammettere che speravo qualcosa di più. Sono già diversi mesi che ci stiamo lavorando e si dovrebbe cominciare a puntare più in alto. Almeno secondo me, chiaro,» disse Philippe, scrollando le spalle. «Solo un mio parere, niente di che.»

«Sono certo che il momento di puntare più in alto arriverà a breve,» disse Davide. «Prima dobbiamo preparare il terreno, così poi i nostri semi attecchiranno. E poi bisognerà anche coordinarsi con tutte le altre cellule, no? Se agiamo tutti assieme, il risultato sarà sicuramente migliore.»

«Tutte le altre cellule? Ogni tanto anche Masser ne parla, ma non ho idea di quante siano o di cosa facciano. Non se ne sente parlare molto, ai notiziari,» disse Philippe, arricciando il naso.

«Qualcosa faranno di sicuro! Non posso credere che se ne stiano in silenzio ad aspettare!» Amani cominciava a scaldarsi, almeno in faccia. «Noi ne abbiamo già fatte, di azioni, da quando il gruppo si è formato. Vuoi che siamo solo noi a muoverci?»

«Davvero? Prima che io arrivassi, suppongo,» disse Davide. Avevano davvero fatto qualcosa? Lui lo scopriva adesso, per la prima volta, e la cosa non gli piaceva. Non gli piaceva per niente. Perché non gliene aveva parlato nessuno? Eppure lui aveva la fiducia di Zeke!

«Qualcosa sì,» rispose Philippe, «ma niente di grosso. Piccoli disturbi, appunto, in occasione delle manifestazioni ufficiali da queste parti. Pernacchie alle conferenze, come dicevo. Per questo a me sembra che sarebbe anche ora di alzare un poco il tiro e puntare a qualcosa che si faccia sentire di più. Qualcosa che si veda davvero, insomma.»

«Ci vuole tempo, per prepararsi,» osservò Amani. «E poi lo vedi anche tu come è messo il nostro gruppo. C’è gente a cui devi spiegare come allacciarsi le scarpe un giorno sì e uno no, perché se lo dimenticano subito o non ci arrivano proprio. Ci vuole pazienza.»

«Gente come il vecchio Otto, eh?» Philippe sorrise. «Mi chiedo davvero perché ce lo teniamo. Fa più danni che altro, quel tizio. E non è una gran pubblicità, per un movimento. Venite, anche i pazzi e gli alcolizzati ci seguono! Non funziona, capisci.»

«Otto è con noi, perché crede nella causa,» rispose Davide, citando le parole di Zeke molto prima che il cervello si potesse intromettere e tappargli la bocca. «Abbiamo bisogno di tutti quelli che sono pronti a lottare per il nostro obiettivo e che credono nella nostra causa, capaci o incapaci che siano: è compito del capo utilizzare al meglio tutto il materiale di cui dispone.»

Philippe applaudì lentamente. «Complimenti per l’oratoria! Citazione da Zeke, per caso? Suonano come parole sue, se devo dirti la verità.»

«Mi pare che abbia detto qualcosa del genere, una volta,» rispose Davide, a disagio. Avrebbe fatto meglio a tacere, ma la bocca aveva agito di impulso, prima che il cervello potesse dare l’ok. «Sono parole vere, dopotutto. Chiunque può essere utile, se crede davvero in quello che fa.»

«E Otto ci crede davvero?»

Domanda difficile, a cui Davide non sapeva rispondere. Per sua fortuna, non dovette farlo, perché la risposta venne da Amani. «Otto non è un mostro di intelligenza, ma ha esperienza e conosce molto bene la zona. Se gli dai qualcosa da fare, qualcosa che non sia troppo difficile, lo riesce a fare e non discute. Non è molto, ok, ma anche poco è sempre più di zero.»

«Otto era bravo, da giovane. Me l’ha detto lui,» osservò Amir. «È il lavoro che lo ha fatto diventare così, e poi ci sono gli Altri, che lo spiano. Non è una vita facile.»

«Già, le spie che strisciano nei cunicoli di ceramica, di notte, per osservarlo,» ghignò Philippe. «A volte mi chiedo come abbia fatto a scoprirle, se strisciano tutto il tempo là sotto. Striscerà anche lui in quei cunicoli di ceramica, per cercare le spie? O gli hanno lasciato un biglietto?»

«Non dovresti ridere di lui. È una brava persona, dopotutto, e poi ha avuto una vita dura.»

Davide fu sorpreso dell’intervento di Amir. Chissà come ma difendeva tanto quel vecchio pazzoide? Forse un qualche istinto, che lo portava a tifare per gli ultimi e sostenerli quando poteva. In fondo, lui stesso era abbastanza vicino all’ultima posizione, assieme ad altri membri della sua famiglia.

«Ok, diciamo pure che anche lui ricopre un ruolo chiave, nel disegno di Zeke. Ma la mia domanda è: qual è il disegno di Zeke? Qualcuno di voi ne sa qualcosa? Amani, Davide...»

«Zeke è solo il capo della nostra cellula. Tutte le cellule sono unite, comunicano, e dovrà esserci qualcuno che le coordina, da qualche parte. Dovresti andarlo a chiedere a lui, mica a noi,» disse Davide. «Penso che il disegno finale sia il suo, non quello di Zeke. Lui si occupa solo di noi, no? Solo di una cellula tra tante.»

«Se non lo sai tu, che sei quello con cui parla di più, qui in mezzo...»

«Parla anche con me,» disse Amir, quando Davide si preparava già a rispondere a Philippe, e forse a rispondere in toni non proprio affettuosi. «Torniamo spesso indietro assieme, dalle riunioni, almeno per un pezzo, ma non è che ci spiega questa roba. È più... sì, insomma, si parla di cosa fare. Del gruppo. Così, in generale.»

«Già. Del gruppo, in generale. Non so nulla di come siano organizzati gli Isolazionisti o di come le varie cellule comunichino tra loro. Non so neanche quante siano le varie cellule, dove siano,» disse Davide alzando le spalle. Avrebbe dovuto ringraziare Amir, più tardi, anche se forse sarebbe stato meglio evitare: era probabile che, poi, gli sarebbe toccato spiegargli per cosa lo stesse ringraziando, il che sarebbe stato alquanto complicato.

«E allora, cosa concludiamo da questo?» chiese Amani, saltando con lo sguardo dall’uno all’altro. «A me sembra che dovremo aspettare che Zeke si decida a dirci cosa fare. Prima dell’estate, no? E adesso è metà maggio. Gli resta ancora un mese o poco più, per dircelo.»

«Forse dovremmo anche fargli presenti i nostri dubbi,» disse Philippe. «O almeno la nostra volontà di accelerare un poco il lavoro. A me sembra che stiamo andando un poco a rilento.»

«A me sembra che vada bene così,» rispose Davide.

«Beh, farlo presente alla prossima riunione non ci costa nulla. Al limite, Zeke ci spiegherà perché si stia facendo così. Sempre meglio che non sapere nulla, no?» Amani sorrise, forse per allentare tutta la tensione, che si poteva sentire nell’aria.

Philippe alzò le spalle. «Ma sì, chiediamo pure. Male non farà. A me interessa solo poter agire e non sentirmi un perditempo. La Terra così come è adesso non mi va e vorrei cambiarla, in meglio. Se lo posso fare con Zeke e tutti voi, tanto di guadagnato, ma voglio sapere come e quando.»

E lo verrà a dire proprio a uno come te, pensò Davide. «Chiediamo pure,» rispose a voce alta. «Per me non c’è problema. Io mi fido di lui, ma se voi preferite qualche parola in più...»

«Anch’io mi fido, per questo ne voglio parlare. Mettere tutto in chiaro ci farà sentire meglio, no? Un pensiero in meno.» Philippe allargò le braccia, sorridendo. Amici come prima, no? Vedete, sono con voi, sono uno di voi. A Davide non piaceva, ma ebbe almeno la razionalità di riconoscere che il suo scarso amore per Philippe poteva avere ragioni personali e soggettive, anziché essere un segno di sfiducia oggettiva (ammesso che esistesse una sfiducia oggettiva). In altri termini, gli stava sulle scatole, a pelle. Ma gli stava anche su altre cose, meno eleganti da dire.

Parlarono ancora un poco, con meno tensione e più sorrisi, alcuni forzati e altri meno, poi la breve riunione post-riunione finì e si separarono, ognuno per la propria strada. Davide camminò con Amir, in silenzio, e lo salutò davanti al portone: c’erano meno di trecento metri tra le loro abitazioni, la sera era matura, ormai quasi notte, e la zona era silenziosa, vuota. Sarebbe stato lievemente meglio se qualche vicino li avesse visti, così da rafforzare la giustificazione ufficiale che utilizzava con la madre, ossia di passare alcune sere a studiare con Amir, ma andava bene lo stesso. Non faceva più molte domande, la mamma, e in altri tempi Davide lo avrebbe considerato un brutto segno. Adesso, però, aveva altro per la testa.

In casa, Larisa Elfridi, già signora Cori, poi signora Kori, infine madre di due figli, con un marito scappato chissà dove, sedeva davanti allo schermo, irrorata di luci multicolori e suoni di ogni tipo. Lei, però, era silenziosa e girò a malapena la testa, per seguire l’ingresso del figlio. «Ero a studiare con Amir,» le disse lui, meccanicamente. Larisa annuì e tornò allo schermo, con un mugugno.

Stava bene? Probabilmente sì, perché non si lamentava, anche se il non lamentarsi poteva anche essere visto come un cattivo segno, con lei. Lamentarsi e brontolare era il suo stato naturale: non lo era il silenzio, soprattutto se protratto, soprattutto con un figlio minore che era così spesso fuori la sera. Brontolava molto di più, quando c’era ancora Matteo. Era molto più rigida e severa, quando c’era ancora Matteo. Ma adesso Matteo era nello spazio e la mamma era molle, sul divano, e taceva.

«Hai preso le medicine?» chiese Davide, più per abitudine che per reale convinzione o volontà di sapere. C’era troppo silenzio e lo doveva riempire, tutto qui.

«Ma sì che le ho prese!» rispose lei in malo modo. «Guarda che sono tua madre, io! Non trattarmi come una minorata! Non ho mica bisogno di un bambino che mi controlla!»

Ecco, questa era già più vicina alla Larisa che conosceva lui e che chiamava “mamma”, o in altri modi analoghi, fin da quando aveva imparato a parlare, in un’epoca che non ricordava più, se mai aveva davvero saputo l’età in cui aveva cominciato a parlare. Alzando le spalle, Davide si infilò in camera, dove in teoria avrebbe dovuto studiare davvero, ma in pratica non ne aveva voglia. Ascoltò un poco di musica, per passare il tempo, poi spense il cervello e si preparò al sonno.

Forse aveva visto che la mamma sembrava più grigia del solito, ma non lo aveva notato. O forse non lo aveva neppure visto, troppo perso dietro ad altri pensieri. Dietro a Philippe, ad esempio. Non gli piaceva, quel tipo, e non gli piacevano tutte le domande che aveva fatto quella sera. Che fosse una spia? Un infiltrato, per raccogliere informazioni su di loro, sabotare il gruppo, distruggere tutti i loro progetti? Possibile. Non se ne sarebbe sorpreso. Poi le mareggiate del sonno lo strapparono alle spiagge della paranoia, abbandonandolo al largo dell’incoscienza.

Alla riunione successiva, Philippe Zarakis pose la domanda. O quantomeno pose una domanda, su cui aveva discusso con gli altri. Perché ci muoviamo così lentamente? Perché ci vuole tanto tempo, prima di agire? Cosa stiamo aspettando? Il che in effetti era più di una domanda, ma in fondo girava sempre attorno allo stesso punto, formulato solo in modo diverso, di volta in volta.

Tutti trattennero il fiato, o almeno le proprie aspettative, in attesa della risposta di Zeke. Ma il capo, Zeke Boodie, quello che ne sapeva davvero, lo fece attendere a lungo, scansionando lentamente i volti e la stanza con lo sguardo, quasi pigro, quasi assonnato, quasi a leggere qualcosa su facce che, al momento, parlavano solo di tensione e curiosità, almeno consapevolmente. Cosa altro vi potesse leggere il capo, però, era tutto da scoprire.

«Siamo un gruppo grande e articolato,» disse infine, continuando a saltellare con gli occhi dall’uno all’altro dei presenti. «Un gruppo formato da tante cellule, ognuna delle quali dotata di una parziale e limitata indipendenza nei movimenti. Un gruppo che è radicato in più zone del mondo, distanti tra loro, e che deve mantenere in contatto le sue componenti in modo segreto, evitando intercettazioni. Le complicazioni sono molte, come potete immaginare.» Il pubblico annuiva serio.

«Su piccola scala,» continuò Zeke, «ogni cellula possiede libertà di azione e può agire nel modo che ritiene più opportuno, per il grande fine che ci siamo posti. Azioni di disturbo, ad esempio, oppure di sabotaggio, ma sempre su piccola scala, locale, limitata. Anche il risultato che si può ottenere da queste azioni è, inevitabilmente, piccolo, locale e limitato. Un risultato superiore a zero, sia chiaro, ma pur sempre piccolo. Non certo sufficiente a cambiare la realtà. Per cambiarla, abbiamo bisogno di azioni su larga scala, azioni grandi, azioni impossibili da mistificare e insabbiare.» Il pubblico si mostrava d’accordo, annuendo convinto. Davide sorrideva, Amir fissava a bocca aperta, impegnato forse a digerire ogni parola, per metabolizzarla e farla propria, o anche solo per capirla.

«Per azioni su grande scala, tuttavia, una sola cellula non basta. Dobbiamo unirci alle altre cellule, coordinare le nostre attività, concertare i modi e i tempi. Dobbiamo raccogliere tutte le nostre parti e mutarle in un corpo solo, una mente sola, che deve essere forgiata dalla volontà di ogni componente e dalla forza di ognuno. Un lavoro grande e difficile, soprattutto se deve essere svolto in segreto, in silenzio. Non possiamo farci scoprire prima del tempo, o tutto quanto andrà in frantumi.» Altre teste che rimbalzavano su e giù, annuendo con la frenesia di marionette, manovrate da un marionettista sotto amfetamine.

«E dunque ci vuole tempo e pazienza, per preparare la grande azione, come sapete anche voi. Ed è questo che stiamo facendo, adesso: prepariamo la grande azione. Come vi ho anticipato durante la riunione precedente, prima dell’estate a ognuno di voi sarà assegnato un compito, che servirà in preparazione alla grande azione. Lo stesso avverrà in tutte le altre cellule, disseminate nelle varie zone del mondo, e tutti questi compiti ci permetteranno di riunirci, di aggregare le cellule e farne un grande, forte organismo. Un organismo che colpirà il nostro avversario, aprendo la strada a quel cambiamento, che stiamo tutti attendendo e che tutti vogliamo provocare.»

«Quindi l’attesa serve a trovare un accordo coi vari gruppi, preparare le azioni e selezionare tempi e modi per eseguirle, giusto?» chiese Philippe, osando interrompere l’omelia del capo.

Zeke lo guardò serio, poi sorrise e annuì. «Sì, puoi interpretarla in questo modo. La segretezza è fondamentale e la cautela ne è la compagna inseparabile. Per poterci coordinare, per poter discutere con persone che si trovano in altre parti del mondo, senza essere intercettati, ci vuole tempo, nonché pazienza. È un lavoro lungo, lento, ma dai risultati sicuri. Accelerando le cose, attireremmo su di noi l’attenzione del governo, e farlo adesso sarebbe prematuro. Il governo sarà avvisato, certo, e ci sentirà, ma a farsi sentire sarà la nostra grande azione, il progetto a cui tutti lavoriamo. Per adesso tessiamo in silenzio, e aspettiamo. Quando sarà tempo di agire, lo capirete.»

Non ci furono altre domande. La riunione proseguì nel suo solito modo, ossia con un coacervo di frasi, discorsi e interventi sconclusionati, in cui tutti si parlavano addosso e nessuno si ascoltava, a parte forse Zeke, e Masser. Zeke parlava poco, e ascoltava molto. Masser parlava, di tanto in tanto, ma aveva anche orecchie grandi, da riempire con le parole altrui. Di certo sorvegliavano, di certo filtravano, di certo interpretavano. O così scelse di pensarla Davide. Tutto procedeva bene, verso il loro grande obiettivo. Non aveva dubbi che lo avrebbero centrato. Era impossibile fallire, con un capo come Zeke. Era il migliore, senza dubbio.

«Soddisfatto, adesso?» chiese a Philippe, mentre abbandonavano la cantina. «Hai avuto la risposta che desideravi? Oppure hai altre domande, eh?»

«No, sono soddisfatto,» rispose Philippe. «Come ho già detto, non sono un guastafeste, ma volevo sapere il perché di queste lunghe attese, senza agire. A quanto pare, stavolta tutti i frammenti degli Isolazionisti dovranno agire assieme, il che richiede ovviamente parecchio lavoro. È ovvio che noi dovremo attendere ed è ovvio che ci vorrà molto tempo. Sono soddisfatto, sì. L’azione che stiamo preparando è su larga scala e servirà a qualcosa. A me va benissimo. E a te va bene?»

«Certo che mi va bene! Non volevo neppure fare domande, io. Mi fido di Zeke.»

«Dicevo, ti va bene un’azione su così larga scala? Non è che avrai qualche attacco di paura alla fine, ragazzo? Se è qualcosa di tanto grande, non possiamo permetterci di fallire, lo sai.»

Davide lo avrebbe strangolato volentieri anche soltanto per il “ragazzo”, ma l’allusione a un suo possibile attacco di panico era persino peggiore. Forse il caso, forse un brandello di maturità, forse la presenza di Amir e Amani come spettatori, o forse qualche altro motivo, lo indusse a trattenere la prima reazione, che sarebbe stata mollare un pugno in faccia a quel tizio, e a ripiegare sulla seconda reazione, la più adulta, la più matura, la mano “da ragazzo”. Le parole.

«No, non credo proprio che io avrò attacchi di panico,» gli disse. «E lei non si farà venire un attacco di domandite, per caso, signore? Quello sì che potrebbe danneggiarci, lo sai.»

Fu Amani a disinnescare la situazione. «Aspettiamo almeno che ci siano assegnati i compiti, prima di cominciare a discutere su quello che potremo o non potremo fare. È da un pezzo che il nostro gruppo è assieme e sono sicura che andrà tutto bene, vedrete. Abbiamo Zeke che ci guida, no?»

Quello sembrò calmarli, almeno per il momento. Come ulteriore precauzione, si separarono subito dopo, prima che qualche nuovo argomento potesse spuntare, e nelle riunioni successive si tennero a una certa distanza, evitando soprattutto raduni e dialoghi alla fine di ogni incontro. Giusto per stare sul sicuro, in un momento così delicato.

Quando finalmente furono assegnati i compiti da svolgere, in preparazione al grande evento futuro, il clima nel gruppo migliorò, sia tra i pochi attorno a Davide, sia tra i relativamente tanti riuniti nella cantina. Entusiasmo, sì, perché adesso c’era qualcosa di concreto, un obiettivo, un punto verso cui camminare, anzi correre, anzi volare. Potevano cominciare a entrare in azione, ognuno svolgendo la propria piccola parte, ognuno preparando il grande effetto finale. Da spettatori, sarebbero diventati attori, e con un posto in prima fila. Non semplici comparse, ma protagonisti. O così volevano tutti sognare, al momento.

Rientrando, quella sera, Davide non fu sorpreso di trovare la madre seduta davanti allo schermo, come sempre, ma fu sorpreso di vederla così mogia. Spenta, quasi. «Tutto bene?» le chiese. «Sono tornato,» specificò, nel caso non se ne fosse accorta. Improbabile, col rumore che aveva fatto.

«Sì, va bene,» rispose lei. «Non sono mica sorda, ti sento.»

Il che sembrava una sua risposta, almeno in superficie, ma pure quella era mogia, spenta. Non sarà in giornata, pensò, ritirandosi nella propria stanza. Avrebbe rimpianto quel disinteresse, poi, ma c’è sempre qualcosa da rimpiangere, poi: il poi è fatto proprio per questo. Al momento, nella sua testa c’era spazio solo per il progetto, il piano, quel futuro luminoso che Zeke, e gli Isolazionisti dietro di lui, avevano promesso. Un futuro che era diventato così vicino, adesso che gli incarichi preliminari erano stati assegnati e la prima parte del progetto poteva cominciare. La prima parte della grande azione, che avrebbe cambiato la Terra, in meglio.

Così Davide non si accorse di un altro grande cambiamento, ben più vicino a lui, che si preparava. La vita, così come l’aveva conosciuta in circa diciassette anni, si sarebbe capovolta, lasciandolo a boccheggiare su una secca, pesce sorpreso dalla marea. Il suo ruolo nel gruppo sarebbe cambiato, la sua stessa percezione del gruppo, e di Zeke, il capo, quello che ne sapeva davvero. Ma dopo.

Adesso, Davide attendeva tranquillo il momento di agire, ignorando ciò che avveniva attorno a lui. Avrebbe smesso di ignorarlo dopo, certo, ma dopo non contava più.