Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 33

A Scott Staplewood, comandante in capo delle forze armate su Madre, non era mai piaciuto il Governatore Maureen Rossi. Non gli era piaciuta quando l’aveva vista di sfuggita più di venti anni prima, durante la spedizione che lo aveva portato in fondo a un pozzo assieme al Comandante Hass e all’allora Direttore Leonardi (che nella circostanza era una coscienza riprodotta su un supporto esterno, ma aveva conservato tutto il suo carattere non amichevole e non cordiale), e tuttora non gli piaceva, sebbene il suo ruolo attuale lo costringeva a prendere ordini da lei. Anzi, quella era forse un’aggravante, da un certo punto di vista. Il suo superiore effettivo rimaneva Andrea Hass, il Ministro della Difesa terrestre, e a lui spettava l’ultima parola in caso di emergenza, ma in tutte le altre circostanze, che erano la maggior parte, doveva dipendere da lei, il Governatore Rossi.

Il Governatore Maureen Rossi. Ex assistente di Leonardi a vario titolo, oggi con una laurea honoris causa in archeologia. Una che non sapeva neanche da che parte guardare un’arma, neppure se gliela sbattevi sul naso, con forza. Una che aveva la capacità diplomatica di un cetriolo e la visione di una barbabietola. Una che si credeva esperta di tutto, perché nessun vero esperto osava contraddirla, non lì su Madre. Una che. E lui doveva prendere ordini da lei, in tutte le circostanze diverse da un aperto stato di guerra. Per Staplewood era la seconda cosa più spiacevole della galassia, subito dopo essere torturato, scuoiato e bruciato vivo da uno psicopatico.

Il vero problema non era prendere ordini da una donna. Gli era già successo, era normale, non c’era niente di sbagliato. Un superiore è un superiore, qualunque sia il suo sesso. Il problema era prendere ordini da una persona stupida. E il Governatore Rossi, secondo il modesto parere di Staplewood, era un esempio da manuale di persona stupida. Tanto stupida da aver dato il nome al pianeta. Proprio un bel nome, niente da dire. Un nome che poggiava su basi solidissime, altroché. Così solide da esserle valse la sua laurea honoris causa, in una cerimonia in cui nessuno aveva osato guardarla negli occhi.

Così il comandante Staplewood sedeva adesso nell’ufficio del Governatore con una notevole dose di disagio, una buona scorta di fastidio e giusto una spruzzata di noia, mentre Maureen Rossi gli spiegava come intendeva gestire la segnalazione ricevuta dall’Ufficio per la Colonizzazione. Da Leonardi, in altri termini, qualunque fosse il fantoccio che utilizzava al momento. Le sue mani si stringevano e si rilassavano di continuo, usando l’aria come pallina antistress, in uno sforzo utile quanto cercare di svuotare l’oceano con un bicchiere da whisky. Si doveva fare violenza da solo, per impedirsi di balzare in piedi e mandarla a quel paese, rovesciando magari anche la sedia.

«Sì, è un presunto Isolazionista, secondo Leonardi, ma è solo un ragazzino, che non vale niente. Un soldatino lo può tenere d’occhio di tanto in tanto, da lontano, e saremo a posto così. Sarebbe solo uno spreco di risorse fare di più. Non può causare alcun problema, qui da noi.»

Per la quarantunesima volta il comandante Staplewood si chiese come avesse fatto quella tizia a diventare il Governatore della prima nuova colonia terrestre, e per la quarantunesima volta si diede la stessa risposta: facendosi trovare al posto giusto al momento giusto. E Staplewood lo sapeva più che bene. Era successo al termine della seconda missione, ventidue anni prima, e quella Maureen Rossi se n’era uscita con una improbabile traduzione per gli scarabocchi (che forse erano solo graffi lasciati dal tempo) trovati su un blocco delle rovine. L’archeologo capo di quella missione era poi rientrato subito sulla Terra, assieme al Direttore e all’allora Comandante Hass, e Rossi era rimasta sul posto a guardare gli scavi che proseguivano. I primi scavi.

E gli scavi erano importanti, come diceva il Direttore Leonardi. Gli scavi erano fondamentali. Così, il controllo era andato a Maureen Rossi. Perché era l’unica rimasta. Perché era al diretto servizio di Leonardi. Perché aveva tradotto quella iscrizione (o aveva interpretato a modo proprio le crepe sulle pietre). Perché... eccetera, eccetera. Fondamentalmente, perché lo aveva deciso Leonardi. E quella famosa traduzione, che aveva fatto alzare le sopracciglia a più di un archeologo vero, adesso la si poteva leggere sul muro dietro la sua scrivania, a incoronare il Governatore come un’aureola molto alternativa. Se proprio si voleva essere educati.

“Alla madre, su cui tutto posa”, diceva l’iscrizione, o almeno diceva l’interpretazione che Rossi aveva voluto dare a quei segni. Il comandante Staplewood l’aveva già letta fin troppe volte, lì nello studio del Governatore, e mai che gli fosse sembrata qualcosa di diverso da un gomitolo di parole allineate a caso. Tornò a fissarsi su Maureen Rossi, con poca voglia.

«Sarebbe molto semplice infiltrare uno dei miei uomini nel gruppo di coloni a cui appartiene questo Davide Kori,» le disse, cercando di suonare il più razionale possibile. «In questo modo lo potremmo sorvegliare da vicino e saremmo pronti a intervenire subito, in caso di emergenza.»

Il Governatore Rossi sbuffò. «Non c’è bisogno di infiltrati, dai! È solo un ragazzino, lo sai anche tu! Pensi davvero che potrà dare tanti problemi? Non direi proprio. Una blanda sorveglianza da lontano sarà più che sufficiente, per uno come lui. È innocuo.»

«Come quella lakshmita che aveva cercato di farsi passare per colona terrestre? La rimpatrieranno a breve, no? O forse è già partita, Petkovic non mi ha tenuto aggiornato.»

«Partita, partita,» rispose Maureen Rossi, con l’entusiasmo di una scala a pioli. «Il suo ambasciatore se l’è venuta a ritirare, com’è che si chiama? Bah, non importa. E sì, era innocua anche lei, come il ragazzino che abbiamo qui. Una ragazzina viziata, che è scappata di casa e adesso si prenderà una bella sculacciata da mamma e papà.»

«E il blocco tra noi e Lakshmi sarà tolto. O la quarantena, se preferisce il termine ufficiale.»

«E il blocco sarà tolto. Non ce n’è più bisogno, come sai anche tu. Certo,» aggiunse il Governatore Rossi, «Se tutti questi pseudoscienziati se ne stessero a casa propria, invece di venirci a rompere le scatole, per noi sarebbe ancora meglio, ma che vuoi...» Agitò una mano.

Pseudoscienziati!, pensò il comandante Staplewood. Ha parlato la grande archeologa, che non ha mai partecipato a uno scavo in vita sua. Ma non la poteva certo criticare, in fatto di sedentarietà: pure lui si era dovuto adeguare a un lavoro in pantofole, ormai. Non che Staplewood avesse mai combattuto davvero: la sua generazione aveva sparato solo nei poligoni di tiro, ma almeno ai tempi della spedizione c’era stata una certa attività, un senso di pericolo, di rischio.

Sto invecchiando, era l’unica conclusione a cui potesse giungere. «E quindi lasceremo che questo pseudoterrorista sia libero di muoversi sul nostro pianeta, controllandolo solo di tanto in tanto, da lontano, senza impegnarci troppo. Giusto?»

«Giusto!» sorrise il Governatore. «Vedo che hai compreso appieno la mia posizione. E adesso, se non ci sono altre faccende da discutere, direi che possiamo anche chiudere qui l’incontro.»

Non c’era altro da discutere e Staplewood fu più che felice di chiudere lì l’incontro. Non che ci fosse poi molto da discutere, con quella tizia. La sua posizione finale era sempre la stessa, in ogni occasione: “Leonardi mi ha scelta come governatore, quindi faccio quello che voglio io”. Punto. Se la vuoi chiamare discussione, accomodati pure, ma Staplewood non avrebbe mai insudiciato così quella parola. Sarebbe stato come parlare con un muro e definirlo dialogo.

Scott Staplewood la fissò, fissò quella faccia che un tempo Leonardi aveva definito “di luna piena” e che adesso, dopo oltre venti anni, poteva essere al più una luna piena appassita, che ha perso non uno, ma tanti incontri con asteroidi e meteoriti. I capelli erano di un grigio sbiadito e solo le labbra conservavano ancora quella tinta assurda, violacea, che Maureen aveva amato usare da giovane e che continuava a usare anche adesso, quando giovane non era più. Melanzane, pensò Staplewood.

«Allora mi ritiro,» disse, alzandosi. «Dovrò riorganizzare la distribuzione dei miei uomini, sperando che al prossimo invio ci arrivi anche qualche rinforzo, perché al momento siamo decisamente sotto il minimo necessario. Come le avevo fatto presente già in precedenza.»

«Sì, sì, non preoccuparti. Pensa ai pozzi e basta, il resto non conta. E poi non succede mai niente.»

Il comandante Staplewood uscì, prima di strozzarla. Perché il Ministro non è qui?, pensò. Sarebbe stato così facile, per lui! Hass era un militare, ma anche un politico, e sapeva come comportarsi in quelle situazioni. Sapeva anche come convincere certa gente, gente dotata della ragionevolezza di una sedia. Erano anni che Hass gestiva Leonardi, no? E una come il Governatore Rossi, che pure aveva chiaramente studiato alla sua stessa scuola di ottusità, non sarebbe stata un problema per lui. Il comandante Hass se la sarebbe mangiata a colazione.

Lui no. Lui era un militare e basta, non aveva mai voluto fare il politico e non lo voleva neanche adesso. Anzi, avrebbe ceduto più che volentieri anche il ruolo di comandante in capo, che in fondo gli portava più problemi che soddisfazioni. Lasciatemi una squadra, o una compagnia da guidare, e io sarò felice. Un ufficiale, o anche un sottufficiale, con un reparto di uomini da comandare e poco altro di cui preoccuparsi. Ecco il suo ideale. E lo aveva anche raggiunto, ai tempi della spedizione, quando era stato solo il capitano Staplewood. Poi era sceso nel pozzo, assieme agli altri, e tutto era cambiato. Purtroppo. Dover trattare con Labbra di Fegato, poi...

Sì, ci voleva proprio il Comandante Hass, in quel momento. Peccato che il Comandante Hass fosse oggi il Ministro Hass e, come ministro, non potesse andarsene in giro per lo spazio come una volta, quando stavano sulla stessa nave e tutto era tranquillo e semplice. Bei tempi! Ma il Ministro Hass gli aveva detto cosa doveva fare e lui lo avrebbe fatto. Perché era Hass il suo vero superiore, non la donnetta inacidita che governava il pianeta per conto di Leonardi. Hass era sempre stato il suo solo e unico superiore e sempre lo sarebbe rimasto. E all’inferno i governatori!

Quella sera stessa, il comandante Staplewood selezionò uno dei suoi uomini, che si sarebbe unito al gruppo a cui apparteneva quel Davide Kori. Per sorvegliarlo da vicino, e fare rapporto direttamente a lui. Esclusivamente a lui. E che il Governatore Rossi andasse pure a lamentarsi con Leonardi, se non le andava bene. Il tempo avrebbe dato ragione a lui, Staplewood ne era sicuro.

Viaggiarono per quasi un giorno, attraverso la pianura e i campi che si coprivano a poco a poco di erba, o di qualunque altra cosa vi avessero seminato. Davide Kori, noto adesso come Bruno Kitzis, li guardava con distacco e con un profondo senso di noia, seduto tra Olaf Selke, il cui gomito gli stava trapanando le costole, e Tunde Bohr, la cui spalla era posata contro la sua, per un contatto assai più piacevole dell’altro). Fu solo nel tardo pomeriggio che il gruppo raggiunse la sua meta, il luogo a cui erano stati assegnati per il primo periodo. E forse anche per il secondo e il terzo, non lo si poteva escludere: le assegnazioni erano sempre provvisorie, su Madre, ma con una certa tendenza a rimanere provvisorie a tempo indeterminato.

«Non so se vi piacerà,» aveva detto Tomas Sironi, «ma sono affari vostri. So che c’è bisogno di voi ed è questo il punto, per me. È un posto di frontiera, una manciata di moduli prefabbricati e poco altro, ed è per questo che servite voi. La colonia si sta espandendo verso ovest e voi andrete proprio in uno dei centri di espansione. Vi raggiungeranno in molti, vedrete, ma intanto pensate a sistemare quello che serve. Il lavoro non vi mancherà.»

Li avrebbero raggiunti? Probabilmente. Quando scesero dal convoglio, Davide vide che la maggior parte degli edifici era vuota, ma appena costruita, e assomigliavano a merce sugli scaffali di qualche negozio, in attesa di chi la comprerà. Perché questo erano, gli edifici: una promessa di futuro, dono che gli uomini del presente offrivano a quanti sarebbero venuti poi. Il loro compito sarebbe stato di ingrandire il regalo, abbellirlo, migliorarlo, infiocchettarlo, eccetera eccetera.

«Qui ce ne sarà per anni,» disse Sebastian Hahn, guardandosi attorno con le mani sui fianchi. «E non si vede neanche uno straccio di doccia per lavarsi.»

«Perché, a casa tua le docce erano in mezzo alla strada?» gli rispose Tunde. «Intanto pensiamo a sistemarci, che non ne posso più di stare seduta in quell’affare. Sarà anche un posto nuovo e fatto bene, ma le strade fanno proprio schifo.»

«Vero.» aggiunse un altro, un ragazzo che era nel loro gruppo, uno dei tanti. «Ma spero che non toccherà a me lavorarci, adesso. Sarà comoda e tutto, ma quella roba che usano per ricoprirle ha una puzza che non ti immagini neanche. Mi ci hanno fatto lavorare nelle esercitazioni e mi è bastata: se non la rivedo più in questa vita, tanto meglio.»

«Allora ti spediremo direttamente alla prossima,» rise Olaf. Era lui il responsabile scelto, per il loro gruppo, ed era lui a dover mantenere l’ordine. Una scelta parecchio strana, aveva pensato Davide, ma da un certo punto di vista giustificata: era il più grosso ed era uno dei più vecchi. Se magari non era molto bravo a pensare e decidere, almeno i mezzi per farsi ascoltare non gli mancavano.

«Che si fa, allora?» gli chiese. «Subito al lavoro o ci concedi la serata libera, per festeggiare?»

Olaf lo guardò serio, poi sorrise. «No, andate pure a sistemarvi, non c’è fretta. Stasera vado a sentire il capo, qui, e mi faccio dire a cosa ci hanno assegnato. Poi vedrò di distribuire i lavori, ma prima di domattina non cominceremo, state tranquilli. Intanto dormiteci sopra, che vi serve. Le nostre case sono dalla numero ottantasei alla numero novantatré. Gli abbinamenti li abbiamo già fatti.»

Già, e Davide era proprio assieme a Olaf. Dormirò poco stanotte, si disse, mentre raccoglieva i suoi bagagli e si incamminava verso la casa, o il modulo che avrebbe svolto le funzioni di casa. Numero novanta, tondo tondo, così non se lo sarebbe dimenticato. A ovest, sull’orizzonte, il sole scendeva verso un paesaggio che era vuoto, per essere generosi, e miserabile, per essere realisti. Anche tutto il resto del pianeta doveva essere stato così, prima dell’arrivo dei coloni, ma Davide non riusciva a immaginarlo, no, non un pianeta brullo, piatto, marroncino e con poche chiazze verdognole. Era la descrizione di uno stomaco in disordine, più che di un luogo in cui vivere.

Lo dovremo cambiare noi.

Vero, ma cambiare quel mondo non era la sua priorità, al momento. La sua priorità personale erano i pozzi e ai pozzi continuava a pensare, svuotando i bagagli e riempiendo i pochi mobili di cui il suo alloggio disponeva. Peccato solo che non ci fossero pozzi, nei paraggi.

Zeke gli aveva descritto la loro posizione e, per quel che si ricordava, il più vicino doveva essere a circa milletrecento chilometri a nordovest, rispetto a loro. Chilometro più chilometro meno: difficile che le misure fossero precise, con la colonia che si allargava in continuazione. Il pozzo, o meglio il gruppo di nove pozzi, si trovava là, proprio dove era sorta una base militare.

«Non è quello da cui è spuntato l’insetto, ma è sempre un pozzo,» aveva aggiunto Zeke. L’insetto era quello che aveva punto suo padre, durante un turno di guardia, e quel pozzo si trovava quasi sul lato opposto del pianeta, dove era fissato l’ascensore della stazione militare. Posto inaccessibile, per lui, ma i pozzi a milletrecento chilometri... «Ci penseremo poi,» annunciò all’alloggio vuoto.

Quasi un’ora dopo entrò anche Olaf, sbuffando e con gli occhi da pesce stravolto. «Non ne posso più,» brontolò, prima di lasciarsi cadere su una specie di sedia. La sedia resse, con uno scricchiolio preoccupante. Davide attese il crack, ma il crack non venne. Meglio così.

«Cosa ci faranno fare, allora?»

«Strade,» rispose Olaf. «I signorini non saranno contenti, ma a noi toccano le strade. E credimi, ci va meglio così. Terraformare i campi sarà anche più piacevole, forse, ma c’è da lasciarci la schiena e i polmoni. Respiri di quella roba che non fa solo schifo, ma anche male. Oh, magari non puzza come quella per fare le strade, ma almeno la puzza non fa male. Schifo sì, ma male no.»

Giusto per portare una ventata di ottimismo. «Credevo che usassero roba naturale, nei campi,» disse Davide. «O almeno trattata. Sai, quella roba biologica, non so come si chiami. Quella non dovrebbe fare male, no? O sono tutte balle, che è buona e genuina?»

Olaf lo guardò serio. «Ti sembro uno scienziato, io?» Scoppiò a ridere. «Boh, ma che ne so. Ti dico quello che sento e quello che mi ha detto il capo, lì. Se è vero o no, chi lo sa. Ma sulla roba buona e genuina, guarda, io non ci scommetterei un piede. Neanche l’unghia di un piede, se è per questo.»

Davide finì di sistemare le ultime cose e si raddrizzò, schioccando le vertebre. «Quindi, domani si va a spalare in strada e a spargere quella cosa che puzza ma che non fa male. Speriamo che non ci sia troppo caldo, quantomeno.»

«Troppo caldo qui? D’estate, forse, ma non adesso. Dicono che sia un pianeta freddo e io ci credo. Non ha la faccia molto calda quella parte che abbiamo visto noi. Faticheremo, certo, ma magari non suderemo. Poteva andarci peggio, no? E poi dai, è solo l’inizio: siamo appena arrivati e ci dobbiamo beccare quello che c’è. Si sa che i nuovi si beccano sempre i lavori più schifosi, no?»

Davide annuì, sorridendo. Strade. Non il massimo, ma si poteva sopravvivere, in effetti. A lavorare sulle vie di comunicazione, poi, c’era anche il caso che potesse saperne di più su come arrivare alla base militare, quella a milletrecento chilometri da loro. Magari poteva sentire Olaf, fargli un paio di domande tattiche, buttate lì, con indifferenza. Olaf era un bravo ragazzo, ma non era certo un genio e Davide era piuttosto sicuro di poterlo fregare. Sì, ce l’avrebbe fatta. Le strade non erano un inizio grandioso, ma potevano essere un buon inizio. Un inizio utile.

Il mattino seguente ne era già meno sicuro, quando scese dal letto e sentì nei muscoli delle gambe e della schiena tutto il peso del lungo viaggio appena concluso. Lungo e scomodo: le strade avevano di certo un gran bisogno di essere risistemate, o anche solo sistemate. A voler essere generosi, le si potevano definire una versione moderna delle antiche mulattiere. Per non parlare poi dei mezzi di trasporto. Pianeta primitivo, già. E dopo avere speso ore a viaggiare su quel pianeta primitivo, ora si sentiva come se avesse un ciccione appollaiato sulle spalle e se lo dovesse portare in giro ovunque. Olaf rise, quando lo vide uscire dal bagno con faccia stravolta e schiena ingobbita.

«Dormito male? Vuoi un materasso ortopedico, per riposare le tue stanche chiappette?»

«Svegliato male,» rispose Davide, senza entusiasmo. Provò a inarcare la schiena, per rilassarla, e si arrese con un grugnito. Ritentò, con maggiore successo. Forse era meglio riconsiderare le idee del giorno prima: lavorare alle strade poteva essere un pessimo affare. Ancora non aveva cominciato e già era ridotto a carta igienica usata.

«Poi ti passa, vedrai,» disse Olaf. «È il viaggio. Anch’io mi sento uno schifo, ma basta che ti rimetti in moto e cominci ad andare, poi i muscoli si sciolgono. Vedrai, mi è capitato un sacco di volte.»

A vederlo, però, dritto e saldo sulle gambe, poteva sembrare tutto fuorché una persona con problemi ai muscoli. Anzi, se c’era una porzione di Olaf che sembrava proprio non avere problemi, erano i muscoli, più adatti a un quarto di bue appeso al gancio che a un essere umano, almeno dal punto di vista del mingherlino Davide. Senza altri commenti, si vestirono e andarono a fare colazione nella sala comune, dove li altri già li aspettavano.

«Buongiorno, grande capo Caduto-Dal-Letto!» Sebastian salutò Olaf,.

Olaf lo ricambiò con una manata sulla schiena, che rimbombò come un’asse crepata, poi sedette e rise assieme agli altri. Sedette anche Davide, ridendo meno. Non era proprio di cattivo umore, ma i suoi muscoli suggerivano che sarebbe stata una pessima giornata. Una lunga e pessima giornata. Di lavoro, per di più.

«Ti sei dimenticato a letto qualcosa?» gli chiese Tunde. «Hai una faccia...»

«La schiena e le gambe,» rispose Davide. «Anzi, devo averle perse per strada ieri pomeriggio. Per il resto, sto benissimo. Come una foca monaca in pieno deserto.»

«Sei il più giovane e sei già ridotto a un catorcio? Male, male. Dovresti fare più sport, caro mio, o a settant’anni ci arrivi dentro un cassonetto. Magari ti farò un massaggio, se sopravvivi alla mattina.»

Sì, era moderatamente convinto che sarebbe sopravvissuto alla mattina, sempre che non lo avessero spedito subito a spalare davanti ai mezzi o, peggio ancora, dietro ai mezzi, nel caldo e nel fetore che si lasciavano alle spalle. Ma Olaf non poteva essere così carogna, giusto? Dopotutto, lo aveva visto come era ridotto al risveglio, no? Certo che lo aveva visto! Avrebbe avuto compassione di lui e sì, forse gli avrebbe assegnato un compito più leggero, almeno per il primo periodo. Per prenderci la mano e adattarsi all’ambiente, non per favoritismi. Sarebbe stato un gesto da amico. Un gesto più che sensato. Un modo per ottimizzare e valorizzare le risorse umane. Già.

Olaf Selke lo mandò a spalare dietro i mezzi.

Alla pausa pranzo, Davide era piacevolmente moribondo. Mangiò senza appetito la razione insapore che aveva di fronte e neppure si accorse che Sebastian gli aveva infilato un tovagliolo, tra due fette di pane (o di qualcosa che assomigliava abbastanza al pane, anche se aveva il sapore di cartone). Fu Sebastian stesso a doverlo avvertire e a toglierlo, depresso perché lo scherzo non era andato a finire come avrebbe sperato. Col suo attuale livello di attenzione, Davide si sarebbe mangiato il tovagliolo e avrebbe magari chiesto il bis.

«Tre a uno che schiatti prima del tramonto,» gli disse Sebastian, mentre risistemava il tovagliolo. «Così poi ti dovremo seppellire lì dove sei, sotto una spruzzata di sostanze plastiche.»

«Non sono sostanze plastiche,» rispose Davide senza pensare. «Sono...» ma non trovò la risposta. Sapeva il nome della sostanza, glielo avevano detto proprio quella mattina, mentre gli spiegavano il sistema giusto per spargerla e lisciarla in modo uniforme, dopo il passaggio delle presse, ma la sua mente era una marmellata di ragnatele, in quel momento.

Aveva pensato molte volte a come sarebbe stato colonizzare un nuovo mondo. Era stata una delle sue fantasticherie preferite, sia prima della partenza che durante il viaggio. Si era immaginato una grande e rivoluzionaria tecnologia, qualcosa impossibile da capire per uno come lui; macchinari di grandi dimensioni e ancora più grande intelligenza, che si manovravano praticamente da soli; robot, magari, che si occupavano dei lavori più faticosi e pericolosi. E gli umani? Lì intorno, ovvio, ma in un ruolo be definito, ben preciso. Supervisori, controllori, programmatori, altre cose in -ori. Ma manovali? No, mai, era inconcepibile! Mica erano ancora ai tempi del far west e dei pionieri, no?

Sbagliato. Perché i macchinari c’erano, naturalmente, ed erano grandi, complessi, favolosi, più o meno tutto quello che Davide aveva immaginato. Ma consumavano anche una quantità enorme di energia e l’energia era merce preziosa, lì su Madre. Una volta raggiunta una piena autosufficienza energetica, il discorso sarebbe cambiato, ma quel momento era ancora piuttosto distante e i grandi macchinari dovevano essere usati col contagocce. Il lavoro vero e proprio era svolto da un diverso tipo di macchina, che consumava meno e richiedeva energia rinnovabile, che su Madre si poteva già trovare in abbondanza, sebbene dal sapore discutibile. La macchina umana.

Così, in attesa del giorno promesso, quando anche le ultime centrali sarebbero state completate e il pianeta avrebbe avuto energia da sprecare e sperperare allegramente, i macchinari pisolavano e gli umani lavoravano. Lavoravano duro, per avvicinare il più possibile quel momento. E Davide era un cadavere ambulante, con le ossa a pezzi e muscoli di margarina.

«Penso proprio che hai bisogno del massaggio che ti avevo detto,» commentò Tunde. «Sei arrivato vivo al pranzo, quindi te lo meriti. Mettiamola così, almeno.»

Davide non rispose, ma accettò di lasciarsi stramazzare sul terreno ruvido e polveroso, dove solo un lieve strato di erba lo ammorbidiva. Giacque sulla pancia col cervello scollegato, in pieno stand-by, mentre Tunde Bohr lo massaggiava e gli altri continuavano a parlare, attorno al tavolo. Chissà dove la trovavano tutta quella forza. Dovevano essere molto più robusti di lui, o molto più allenati. Non gli interessava granché, al momento; al momento gli bastava lasciare vagare la mente e sentire il peso di Tunde, fortunatamente non eccessivo, mentre gli massaggiava la schiena. Era brava.

«Ma come ci sei finito, qui?» gli chiese lei, qualche minuto dopo. «Hai il fisico di uno che non ha mai fatto sport in vita sua! Sembri mio nonno... Come speri di campare, su questo mondo?»

Ottima domanda, peccato che non possedesse una altrettanto ottima risposta. Anzi, non aveva una risposta, ottima o meno che fosse. Cosa le aveva detto, quando si erano presentati? Che storia si era inventato, per spiegare la sua partenza come colono? E chi se lo ricordava! Poteva fingere di essersi addormentato e tacere, o poteva inventare una nuova storia e sperare che coincidesse con la prima. Oppure poteva addirittura infilarci in mezzo un poco di verità. E siccome la soluzione più prudente e logica sarebbe stata quella di fingersi addormentato, Davide non la scelse. In questo, era tutto suo fratello, anche se il semplice pensiero lo avrebbe orripilato.

«Volevo vedere Madre,» rispose. «Mio padre c’era già stato e me ne aveva parlato. Ero curioso, sai. Un po’ come quei posti che sì, insomma, tu li senti, no?, e poi ti viene voglia di vederli. Dopo.»

«Uhm...» Tunde cercava di ricostruire le parole biascicate di Davide, che si trascinavano come gli ospiti peggio ridotti di un ospizio. «Tuo padre è stato su Madre? E quando, scusa?»

«Prima. Cioè, insomma, uno dei primi. Non c’era niente quando era venuto lui, sai? Niente. Niente di niente. Neanche un niente. Però diceva che sì, eh, era orgoglioso. Che insomma, sai com’è, no? Primo uomo su un mondo, quella roba lì, dai. Ne parlava spesso. Diceva che... sì. Volevo essere come lui, cioè, circa, sai, andare sul mondo, questo mondo. Cioè.»

Tunde attese la conclusione della frase, ma la conclusione non arrivò. «Tuo padre è stato uno dei primi coloni?» chiese poi, alquanto incerta. «E dopo un po’ è tornato sulla Terra? Strano, pensavo che il trasferimento fosse definitivo. Non mi avevano mai parlato di coloni che sono partiti per Madre, ci sono rimasti un po’ e poi sono tornati sulla Terra, a farsi una famiglia. Sei proprio sicuro, Bruno? Perché la tua storia è un po’... strana, ecco.»

Era proprio sicuro? Non lo sapeva neanche lui, perché il suo cervello sembrava liscio e le parole non si fermavano. Scorrevano via, scivolavano, appena le pronunciava. Cosa stava dicendo? «Beh, vedi, ma lui non era un colono. Era prima. mio padre era un militare, sai, ed era venuto qui quando non c’era niente. Le basi, ci sono anche in orbita, anche se non è una base, ma una stazione. E poi sì, sul pianeta ce ne sono tante. Lui era in una di quelle, controllava i pozzi. Conosci i pozzi, no?»

«No. Ma se vuoi possiamo dire di sì.» Delirava, ovvio. Forse la fatica, o anche qualcosa che aveva mangiato e non era andato d’accordo col suo organismo. O una malattia, perché no? Sì, suonava più probabile. Bruno delirava come se avesse la febbre alta e non si riusciva a capire niente della sua storia. Meglio assecondarlo, per adesso. «I pozzi?»

«I pozzi. Quelli.» Altre parole biascicate, un borbottio, forse un sospiro. «Ce ne sono tanti, lo sai? E sono enormi. Sono pozzi pozzoni. E mio padre faceva la guardia, ma non da solo. E c’erano anche gli insetti, che uscivano dai pozzi.»

«Ah, sì, gli insetti.» Febbre, sì. poteva solo essere febbre, a quel punto. Quando cominci a vedere gli insetti, insetti che escono da un pozzo, anzi da un pozzone, era chiaramente febbre. Una qualche malattia del posto, magari. Ricordava che, da bambina, lei vedeva spesso dei disegni sulle pareti della camera, quando aveva la febbre alta. Bruno vedeva gli insetti. Ok, a ognuno il suo. Le sarebbe piaciuto avere studiato psicologia, per capire magari cosa c’entrasse il padre col delirio: faceva la guardia ai pozzi da cui uscivano gli insetti, ok, ma che significava?

Tunde Bohr alzò le spalle. Non lo avrebbe mai saputo, probabilmente, e forse era meglio. Continuò a massaggiargli la schiena, sentendo come erano contratti i muscoli, come erano annodati e rigidi. A pezzi, davvero. Stanco e febbricitante. Poteva andare peggio, come primo giorno?

«Lo hanno punto,» disse Davide, proseguendo il delirio. «Voglio trovarlo e sapere chi lo ha punto. Cosa lo ha punto. Quello lì, insomma. Sono nei pozzi, sai? E voglio andare ai pozzi, per vederli. Ci sarà mio padre là sotto? Zeke dice che era qui anche lui.»

Zeke. Chi era Zeke? Lo aveva già nominato? Possibile. Tunde non capiva molto di quello che lui bofonchiava e aveva smesso già da un paio di minuti di ascoltarlo realmente, accontentandosi di un «sì» ogni tanto e magari qualche «certo» e un paio di «già». Pensava invece che avrebbe protestato con Olaf, quella sera. Perché gli aveva affidato un lavoro tanto duro? Era evidente che Bruno non aveva il fisico per sopportarlo. Anzi, era meglio che tornasse subito in stanza a riposare e dormire, invece di continuare a spalare dietro ai mezzi. Che scherzo da idioti, mandarlo là.

«Ma non pensi che questa vita sia poco adatta a te?» gli chiese, cercando di riportare la discussione nella sfera della razionalità, per quanto possibile.

«È duro, ma qualcuno lo deve fare. Zeke dice che tocca a me. È vero, sai? Perché non ci sono già stato prima, io... no, cioè, ci sono già stato, ma non proprio. È mio padre, vedi? Lo devo fare per lui, anche se lo odio. Perché voglio sapere.»

Bene, tentativo fallito. Tunde smise di fare domande e continuo a massaggiare, sentendo i discorsi di Bruno senza ascoltarli. Erano parole (parole?) che le scorrevano davanti, entrando in un orecchio e uscendo dall’altro, senza lasciare molte tracce del proprio passaggio. Meglio così. Stanco e con un po’ di febbre, o forse più di un po’: ecco com’era il suo amico. Il sole, il lavoro, forse pure i fumi della roba che spargeva sulla strada. E magari aggiungiamo il cibo. Non è proprio come essere in un ristorante a cinque stelle, se così si può dire.

Vide avvicinarsi Olaf, a piccoli passi. Aveva l’aria preoccupata e faceva bene a esserlo: per come si era ridotto Bruno, grazie a quella genialata di metterlo dietro i mezzi, che adesso lui si preoccupasse era proprio il minimo sindacale. L’aveva deciso lui, la colpa era sua.

«Come sta?» le chiese. «È messo così male?»

Tunde lo guardò come se fosse un imbecille, poi tolse il “come”: era un imbecille. Non ci voleva una laurea per capirlo e Tunde lo capiva appunto anche senza laurea. Chissà perché avevano scelto proprio lui, come responsabile...

«Certo che è messo male,» gli rispose. «Non so come fosse stamattina, ma lavorare dietro a quegli affari non lo ha certo migliorato, anzi. Non potevi pensarci prima, anche tu?»

«Scusa. Pensavo stesse esagerando un po’, lo sai come è fatto. Di solito un po’ di lavoro duro aiuta a riavviarsi, dopo una brutta notte. O almeno, con me funziona così.» Abbassò la testa, in apparenza davvero dispiaciuto. «Forse è meglio se lo lascio a riposo oggi pomeriggio, che ne dici?»

«Dico che sarà proprio meglio,» rispose Tunde. «O vuoi farlo lavorare con la febbre?»

Rimasero in silenzio per un poco, fissando entrambi Davide (o Bruno, come lo conoscevano loro), che a terra continuava a borbottare frasi e parole sconnesse, raccontando di un fantomatico padre che era qui ma era là, di un certo Zeke e dei pozzi da cui uscivano gli insetti e che lui, per qualche motivo non ben precisato, doveva o voleva trovare. «È mio papà,» aggiungeva di tanto in tanto.

«Senti, ma tu lo sai cosa sta dicendo?» chiese Olaf. «Cioè, perché sta raccontando questa roba? Gli hai chiesto qualcosa tu o lo fa per i fatti suoi? Perché a me sembra un delirio e, lo sai, se fa tutto da solo, allora non è proprio un buon segno, no?»

Tunde sospirò. «Gli avevo fatto una domanda io, all’inizio, ma poi ha continuato a dire cose sempre più senza senso. Non ha neanche risposto alla domanda, in effetti, o almeno non in modo logico e comprensibile. Poi chissà, nella sua mente potrebbe anche avere risposto. Magari è convinto di stare facendo chissà quale discorso.»

«E cosa gli avevi chiesto, tu? Qualcosa su suo padre?»

«Ma no, figurati! Sono affari suoi, non vado a curiosare nella sua famiglia. È lui che se n’è uscito con questa storia di suo padre, non io. Io gli avevo chiesto solo come mai era venuto qui su Madre, a fare il colono, perché lo vedi anche tu, dai, non ha proprio il fisico.»

Olaf alzò le spalle. «Oh, sulla Terra prendono tutti, lo sai anche tu. Fisico o non fisico, se tu vuoi ti fanno partire. E dici che non ti ha risposto, allora?»

«Non in modo comprensibile. Ha cominciato a delirare su suo padre, che era uno dei primi, ma non ha spiegato bene a fare cosa. Poi ha detto che cercava dei pozzi, non so. Anche degli insetti.»

Olaf la guardò come se si fosse infilata la testa nel forno, per asciugarsi i capelli. «E da dove le ha tirate fuori, queste storie? O te le stai inventando per prendermi in giro, eh? Ti vuoi vendicare?»

«Non mi invento niente, figurati! Ascoltalo e lo capirai da solo.»

Olaf lo ascoltò, mentre Tunde aveva ormai abbandonato ogni parvenza di massaggio. E capì.

«Vedo se riesco a farlo riportare agli alloggi,» disse alla fine. «Oggi si riposa, è meglio. Già stanotte non ha dormito molto bene e adesso mi si mette pure a delirare. No, meglio che torni a letto: non voglio che gli succeda qualcosa. E poi sarebbe inutile tenercelo qui.»

«Più che inutile: sarebbe dannoso.»

«E allora tornerà a casa. Per un giorno ci possiamo arrangiare anche senza di lui. Dai, che adesso la pausa è finita e dobbiamo ricominciare. Abbiamo anche la sua parte, come extra» concluse, mentre si allontanava verso un altro responsabile, forse per discutere del trasporto di Davide. Anche Tunde si alzò e si spazzolò i pantaloni, preparandosi a tornare al lavoro. Sarebbe stato un pomeriggio lungo e duro, questo era certo. E magari, con un poco di fortuna, per quella sera Bruno avrebbe smesso di delirare. Forse. Riposandosi per bene.

In mezzo e sotto a tutto questo, Davide Kori continuava a borbottare di pozzi, padri e Zeke. E nelle sue parole confuse, sembravano diventare una cosa sola. Il resto del gruppo, attorno a lui, si alzava e si preparava per tornare al lavoro, dopo la pausa pranzo. Soltanto uno si attardava, osservando il giovane al suolo. Lo osservava e lo ascoltava. E memorizzava ogni cosa che sentiva.