Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 35

Nuova Kalighat era un tipo di città che Matteo non aveva mai visto, né sulla Terra né su Lakshmi. Il tipo di città che ti fa sentire un insetto spiaccicato su un parabrezza, o se sei fortunato un insetto e basta, anche se sentirsi un insetto non è proprio una grande fortuna, a dirla tutta. Il tipo di città che ti sovrasta da ogni lato con palazzi luccicanti e freddi, che prima ti accoglie nelle sue strade larghe e poi ti smarrisce nei suoi giardini di colori accecanti e profumi intossicanti. O fetidi, d’accordo, perché non tutta la vegetazione aveva odori gradevoli e comunque è sempre questione di gusti. Ma parlavamo di Nuova Kalighat, non di botanica, quindi torniamo alla descrizione. È il tipo di città che ha mille voci e ognuna parla in una lingua diversa, o in un dialetto diverso, con accenti che si sommano e si intrecciano, si accordano e fanno a pugni, a generare una sinfonia impressionista, un arazzo di caos e ordine assieme. Il tipo di città che non si ferma neppure con un paletto nel cuore, o una colata di azoto liquido sulla testa, o qualsiasi altro sistema si preferisca per fermare entità che di solito non accettano facilmente di essere fermate.

Nuova Kalighat era il tipo di città che è capitale di un pianeta. Grossomodo. Per un dato valore di capitale, almeno, e per qualunque cosa significasse essere una capitale amministrativa.

Matteo passeggiava stordito tra le vie del quartiere, un quartiere, un qualunque quartiere. Ma quale? Non ne aveva idea. Erano ben poche le cose di cui avesse idea, al momento, e ancora meno le cose positive di cui avesse idea. Una, per esempio, era la presenza di Chakra alla sua destra, anche se gli richiedeva un certo ripensamento dell’aggettivo “positivo”, per poterlo applicare al contesto senza che il principio aristotelico di non contraddizione protestasse.

Speculazioni linguistiche a parte, i suoi occhi tentavano di vedere ogni cosa in un solo sguardo, con l’ostinata ottusità di mosconi incapaci di uscire da una finestra semiaperta (o semichiusa, a seconda delle prospettive). Una scena qui, una scena là, un edificio dalla forma stramba, un altro che pareva costruito di mattoncini colorati, di quelli per bambini, e il sole soffocante che si rifletteva ovunque, si moltiplicava, si disperdeva, si centuplicava, esplodeva da ogni angolo e da ogni superficie piatta attorno a lui. E non tratteneva niente, niente, solo impressioni e sensazioni, e forse altre cose che finiscono per -ioni, ma che al momento non sapeva indicare. E caldo. Faceva un caldo da crepare in cinquanta pezzi e poi fondersi sul marciapiede. Un caldo verde.

«Come ci sono finito qui?» chiese e si chiese, mentre osservava una fila di risciò passargli davanti, all’attraversamento pedonale, come luccicanti formiconi automatici. «Cosa ci faccio qui?»

«Mi hai seguito perché mi devi seguire,» rispose Chakra. «E io sono venuto qui perché devo venire qui. O lo hai già dimenticato? Ti si è riavviato il cervello, prima che ti ricordassi di salvare?»

«Non è questo che intendo!» Ma cosa intendeva? Non lo sapeva neppure lui, ma sapeva che c’era qualcosa che lui intendeva. Forse. Da qualche parte. Probabilmente solo il fatto che fosse accaduto tutto così in fretta, anche se in realtà non era stato poi così in fretta, no, ma nella sua percezione sì, era accaduto tutto in fretta. E male. In fretta e male. A cominciare da quando aveva spiegato agli altri che non sarebbe andato al mare a Bishapur assieme a loro, e gli altri... beh...

«Ah, va bene. Buon viaggio.» E basta. Senza neppure uno straccio di punto esclamativo. Come si poteva essere liquidati così, da una persona che ritenevi tua amica? Ok, doveva ammettere che una parte di responsabilità l’aveva anche lui, che dopo la storia di Sharma spione non si era fatto molto sentire o anche solo vedere, e sì, probabilmente li aveva anche un poco evitati, in mensa e all’uscita dalle lezioni, ma non poi così tanto, giusto? Non così tanto da meritarsi una riposta tanto fredda, o almeno non da Indira. Giusto?

Eppure era andata così. E adesso era lì, all’estremità meridionale del continente, assieme a Chakra, in una città di cui non sapeva nulla, a parte il fatto che vi si svolgevano i processi più importanti. Un centro per tutta quella roba legale e legislativa, che lui non aveva mai capito, anche perché non si era mai interessato di studiarla, o anche solo leggerla. Cosa ci faceva lì?

Accompagnava la sua nuova balia, d’accordo, ma su un piano metafisico, in una prospettiva molto più ampia e assoluta, tendente al noumenico, cosa ci faceva lì?

«Siamo dall’altra parte del mondo,» disse, continuando a guardarsi attorno, come un invasato. Il che era anche pertinente, dato che spesso si sentiva una pianta grassa, appoggiata sulle mensole delle vite altrui, in attesa di una innaffiata.

Chakra alzò le spalle. «Non è l’altra parte del mondo. È sempre lo stesso continente, ma qualche migliaio di chilometri più a sud. Dall’altra parte,» e indicò verso la zona del porto e la costa, la zona meridionale della città, che da lì non si poteva vedere ma ogni tanto si fiutava, «appena passati gli stretti, comincia il continente meridionale, che tra l’altro è il mio continente natale. Un bel posto, anche se forse un po’ troppo vivace per i tuoi gusti.»

Matteo si domandò di sfuggita se possedesse ancora qualcosa definibile come “suoi gusti”, ma era una direzione di pensiero che preferiva non esplorare, non adesso. «E siamo venuti qui perché devi approfondire delle ricerche per il tuo corso di studi.»

«E siamo venuti qui perché devo... approfondire delle ricerche per il mio corso di studi, sì, direi che la possiamo mettere così. E tu mi segui perché sei irresponsabile e non ti è permesso di allontanarti dalla tua balia. Sei stato proprio un bambino cattivo e adesso sei in punizione. E sono in punizione pure io, che mi devo sorbire sua Pallosità anche quando sarei teoricamente in vacanza di piacere.»

«Ma non eravamo qui perché dovevi approfondire delle ricerche?»

«Ciò non implica che non possa essere anche una vacanza di piacere.»

Vero, almeno in teoria. In pratica, però, da quando erano partiti Matteo non gli aveva ancora visto fare neppure una ricerca. Neppure mezza ricerca. Di locali, invece, ne avevano visti parecchi, spesso dall’interno. In via del tutto ipotetica non poteva escludere che, su un qualche piano di esistenza a lui non accessibile, Chakra stesse realmente svolgendo ricerche e approfondendo aspetti di diritto e legge che lui, mero letterato, non avrebbe mai potuto comprendere. In via del tutto ipotetica poteva anche pensare che Chakra stesse elaborando un modo per invertire la spinta entropica e rigenerare l’universo, utilizzando un fermacravatta e un rotolo di carta igienica, ma se proprio doveva dire la sua... No, meglio non dirla. Non ce n’era bisogno.

«Ed era proprio necessario venire nella capitale, vero?»

«Capitale amministrativa,» lo corresse Chakra. «Non è la stessa cosa, ragazzo mio. È una specie di città neutra, dove si trovano i rappresentanti delle varie regioni a fare quello che i rappresentanti delle varie regioni sono soliti fare. Governare o cazzeggiare, a seconda del punto di vista di chi te li descrive. C’è la sede del governo centrale ed è qui che si decide, quando si deve decidere qualcosa e quando si tratta di questioni planetarie o interplanetarie. Per gli affari locali, invece, ci pensano le regioni. E poi ci sono i tribunali principali, per i reati più grossi. È un posto molto importante per chi studia diritto, come vedi.»

«Ci sono anche molti locali notturni, direi.»

«Ci sono anche molti locali notturni, naturalmente. La gente ha pure diritto di svagarsi un poco, al termine di una dura giornata di lavoro, non trovi?»

«Perché su Lakshmi si lavora molto...»

«Vivere è il più duro di tutti i lavori. È un mestiere che non si impara mai davvero.»

«Adesso mi sembri Sharma.»

«Devo prenderlo come un insulto o come un complimento?»

Matteo si astenne dal commentare dove e come lo avrebbe dovuto prendere, se proprio ci teneva a prendere qualcosa. Attraversarono la strada, strisciando il più possibile all’ombra degli alberi, che da quelle parti erano una specie di platano, ma con foglie da palma. Un bizzarro miscuglio che un botanico avrebbe certo trovato molto interessante. Siccome però Matteo non era botanico e aveva altre cose per la testa, li trovò solo utili per dargli ombra, mentre cercavano di raggiungere il parco del quartiere. O il parco e basta. C’erano parchi ovunque, in apparenza. E quartieri ovunque.

«Io comunque non ho ancora capito a cosa servano i tribunali, da queste parti. O anche gli avvocati, se è per questo. Avete questa storia della responsabilità, vi spiate e registrate a vicenda... c’è proprio bisogno di processi e discussioni, quando qualcuno commette un reato? Chissà quanti testimoni lo avranno visto! E poi scusa, se siete tutti così responsabili, dovreste solo ammettere quello che avete fatto e stop, fine della storia. Non servono avvocati o tribunali.»

«Piccolo terrestre, sei proprio ingenuo,» sorrise Chakra. «Pensi forse che tutti i lakshmiti siano così responsabili e puri da alzare la manina e dire “sono stato io, signora maestra”? Siamo esseri umani come tutti gli altri, Matteo. Anche se ci inculcano questa solfa della responsabilità fin dalla nascita, non tutti la contraggono allo stesso modo. Il tuo amico Sharma ne è un malato terminale; io, invece, ne ho ricevuta una dose minore, oppure i miei anticorpi morali hanno funzionato meglio.»

«La responsabilità c’è, ma molti la evitano, insomma.»

Chakra alzò le spalle. «Molti, pochi, non lo so. C’è chi la rispetta e chi la elude. E anche tra chi la rispetta, a volte l’istinto di sopravvivenza è più forte della responsabilità e spinge ad aggirarla, o a fare finta di niente quando ti beccano col sorcio in bocca. Per questo ci spiamo a vicenda.»

«Un posticino fantastico...»

«Un cul-de-sac sociologico, come credo di averti già detto. E quando la morale e lo spionaggio non bastano, ecco che arrivano tribunali e avvocati, ad analizzare la vita dell’imputato irresponsabile, a spiegare o confutare che le cose siano andate così e cosà, a trovare scuse e mostrare che l’imputato è stato in realtà una vittima degli eventi e le sue scelte erano inevitabili e obbligate o viceversa, e così via. Divertente, da un certo punto di vista.»

«E così si aggira la responsabilità?»

«No, ma la si diluisce. La si plasma. A volte funziona e te ne esci con la pena ridotta, perché ti sono riconosciute svariate attenuanti. A volte non funziona e ti pigli tutta la tua pena.»

Sulla loro destra, la successione continua di edifici residenziali si ruppe, appena dopo quello che a Matteo sembrava un café alla francese, ma che in effetti poteva essere qualsiasi cosa, incluso una rivendita di paralumi. Ah no, non una rivendita: un centro di distribuzione, semmai. Non era mai facile per lui capire di cosa si occupasse un negozio lakshmita, guardandone soltanto la facciata e la vetrina, soprattutto perché i negozi non erano proprio negozi, non come li intendeva sulla Terra.

In ogni caso, quel locale non era importante; lo era ciò che stava subito dopo il locale, dove le case finivano e spariva l’ombra offerta dai tendoni. Il parco, con le sue mille e profumate piante e coi suoi diecimila e fastidiosi insetti, tra pishacha e altre cose meno gradevoli, a cui Matteo non aveva ancora trovato un nome e non ne avvertiva l’urgenza. Preferiva schiacciarli e basta.

Un vialetto di ghiaia fine e bianca partiva a pochi passi da loro e conduceva verso il centro, in una specie di corridoio di alberi. Un corridoio all’ombra, dove le foglie larghe erano mosse dalla brezza pomeridiana. Un angolo di paradiso, insomma, che si affrettarono a infilare. E poco affollato, il che era un altro punto a favore, soprattutto in una città come quella, che sembrava avere persone più o meno ovunque, neanche spuntassero dalla terra, come erbacce.

«Non credo che capirò mai come funzioni di preciso questo pianeta,» disse Matteo. Si passò una mano sul collo, dove avvertiva da qualche minuto un lieve prurito. Lo trovò sudato e coperto da una patina di moscerini neri, o da cose che assomigliavano a moscerini neri. Spazzò tutto sui pantaloni, un poco schifato. «No, non lo capirò mai.»

«Oh beh, tanto non ci dovrai vivere più di tanto, vero? Studi, ti prendi la tua pallosissima laurea e poi via, a lavorare come maestrina in una scuola della tua Terra. Non hai bisogno di capire altro.»

«Non è pallosissima e non lavorerò come maestrina.»

«Giusto, giusto. Non lavorerai proprio, per come sei messo. Il punto è che per te è solo una tappa, non ci devi restare più di tanto. Non che io ci resterò più di tanto, sia chiaro: l’unica cosa buona di questo mondo è che non devi lavorare, ma per il resto è un letamaio tremendo.»

«Mah, è un posto di pazzi, per certi versi, ma non mi sembra poi così male...»

«Te ne accorgerai, prima della fine. Se ne accorgono tutti quelli che vengono da fuori. Anche il tuo amico Bogdan è andato via con un sorriso che quasi gli apriva la testa. Deve aver capito che questo pianeta non ha futuro e un giorno lo capirai anche tu, vedrai.»

Matteo aveva qualche dubbio in proposito, ma non aveva voglia di discuterne, adesso. La stradina di ghiaia bianca li aveva portati a una fontana, una specie di bacino di vetro (forse vetro vero o forse un qualche materiale simile) con una colonna centrale e una serie di spruzzi di acqua, ognuno di un colore diverso. Ricadendo nel bacino, si mischiavano e tornavano trasparenti, dimostrando così che la differenza nei colori era un gioco di luci e riflessi, non una realtà. O qualcosa del genere. Matteo si fermò incantato a guardarlo, mani sul bordo del bacino e testa protesa in avanti, ad accogliere con piacere gli schizzi e le gocce d’acqua che il vento trasportava. Faceva fresco, lì.

Attorno alla fontana, in quella che poteva essere una piazzetta di ghiaia, erano distribuite panchine in numero regolare, tutte all’ombra di un qualche albero. C’erano soltanto vecchi, in quel momento, che come loro erano scesi al parco per godersi un poco di fresco, nell’afa del pomeriggio. Nei giorni dopo il Muro dovevano essere parecchi a scendere nei giardini, per respirare un poco di aria dopo il troppo tempo passato al chiuso. A Varshi, in quel periodo, la sessione di esami era conclusa e tutti o quasi gli studenti si preparavano ad andare al mare, o altrove. Sharma e Indira sarebbero andati a Bishapur, come l’anno prima, e assieme a loro ci sarebbe stato più o meno il solito gruppo.

Lui no. Lui era lì, dall’altra parte del continente o quasi, a respirare il fresco di una fontana assieme a un nugolo di vecchietti e una specie di studente di diritto, che però era diritto come un cavatappi. La vita sa essere davvero strana, alle volte. Altre volte, invece, è orribile e basta. Matteo sperava di non dover vedere troppe di quelle altre volte. Ancora non ne aveva viste, non davvero, ma non si poteva mai dire. In fondo, prima di partire per Nuova Kalighat era convinto che Chakra lo avrebbe portato lì per farlo sottoporre a un qualche processo, per i fatti di Kemala, e invece se ne stavano in un giardino a godersi una fontana, dopo aver speso la maggior parte del tempo in giro per locali.

Sì, probabilmente doveva ammettere di aver giudicato male l’amico. Chakra era una brava persona, a modo suo, ed era moderatamente affidabile, quando voleva, ma aveva anche la stessa prevedibilità di un elettrone e questo rendeva piuttosto difficile inquadrarlo. Potevi intuire in linea generale a cosa stesse puntando, come fine ultimo, ma era impossibile capire come lo avrebbe raggiunto. Quel simpatico spione di Sharma, invece, che faceva tutto per il suo bene...

Rimasero per qualche minuto lì, fermi appoggiati alla fontana, a non fare niente e a non dire niente. Si stava bene e non avevano fretta di partire, anche perché non c’erano luoghi precisi dove andare, a parte l’alloggio che avevano scelto. C’era tempo da far trascorrere, in attesa della sera e in attesa di qualsiasi cosa Chakra si sarebbe inventato a quel punto: il parco era un posto come un altro, per un poco di riposo. Migliore di molti altri, in effetti.

Attorno a loro, il fruscio del vento si univa di tanto in tanto al mormorio di gente che chiacchierava, o al cigolio delle scarpe sulla ghiaia, oltre al continuo ronzio degli insetti. Anche lì, in una città così grande e popolata, l’estate aveva gli stessi suoni che aveva a Varshi. Era consolante, a modo suo. Era anche un poco nostalgico, Matteo lo doveva ammettere, ed era strano provare nostalgia per una città in cui aveva speso poco più di un anno, non sempre positivo. Ma era strano? Forse, non ne era più così sicuro. Sapeva solo che quel pianeta gli piaceva, anche se la società era migliorabile.

Si staranno divertendo, a Bishapur? Il vento aveva cambiato direzione e adesso soffiava dal mare, più debole ma forse più fresco rispetto a prima. Forse. Lasciava una sensazione di freschezza, almeno, con l’odore salmastro che lo colorava. Odore vago, d’accordo, e in gran parte mescolato e diluito dalla vegetazione, in un miscuglio che non risultava proprio piacevole al naso di Matteo. Si sporse un poco in avanti, sperando che la fontana coprisse l’odore. Non lo coprì.

Un anno. Era passato un anno dalla vacanza a Bishapur, l’incontro con Kemala e tutto il resto. Non qualcosa che ricordasse con nostalgia, non proprio, ma lo ricordava, soprattutto con quell’odore che il vento gli sbatteva in faccia. Era il miscuglio di vegetazione e mare, soprattutto, che agiva come la più impalpabile delle madeleine e gli suggeriva che, forse, viaggiare nel tempo era tutta questione di naso. Anche Kemala gli era apparsa in un odore simile, dove i fiori si mischiavano al salmastro. Un ricordo non proprio lieto, visto come era andata a finire. Qualche antico gesto scaramantico sarebbe stato opportuno, a quel punto.

E come era andata a finire lei? Dopo il messaggio che aveva causato il litigio con Sharma non aveva più sentito nulla. Doveva essere partita per Madre, ormai, e doveva anche esserci arrivata già da un pezzo. Non che il concetto di tempo avesse molto spazio lì su Lakshmi, specie in estate, e non che lo scorrere del tempo in generale gli fosse molto chiaro, quando si mescolavano viaggi interstellari, calendari locali e unità di misura standard. Comunque era passato parecchio, per cui anche la sua storia si doveva ormai essere conclusa, in un modo o nell’altro.

Non che avesse molta importanza, dato che non si sarebbero mai più rivisti. Per fortuna. Ma quanti problemi si sarebbe risparmiato se quel giorno di un anno fa lui fosse uscito dal locale assieme agli altri, invece di attardarsi? Tanti. Troppi. Ma era il destino, la sfiga, o qualcosa del genere.

«Torniamocene indietro, va’. Ho una gran voglia di farmi una doccia, con questo clima,» disse.

«Non sei l’unico,» annuì Chakra. «E poi dovremo anche pensare a prepararci per la serata, no? Ci sono diversi posti interessanti che ho notato, lungo la strada, e penso che sarebbe opportuno per noi uno studio approfondito e accurato di ciò che hanno da offrirci. È per il mio corso di studi, sai.»

Matteo sospirò, ma lo seguì lo stesso. Non che avesse molto altro da fare, in fondo. E poi, lo doveva ammettere: si stava divertendo. Un poco. Sotto sotto. Suo malgrado. Qualunque cosa fosse, Chakra era di certo una cura contro la troppa serietà. Poteva fargli bene, in dosi non eccessive.

E forse fu il destino, la sfiga o qualcosa del genere che mise letteralmente sulla loro strada Kemala Kexin, mentre uscivano dal parco. Era stanca, smagrita, spenta. E parecchio abbattuta.

Alloggio e doccia dovettero attendere, proprio come dovette attendere l’uscita dal parco. Matteo e Chakra ritornarono nella zona delle panchine, in silenzio, con una terza figura al seguito che era ancora più silenziosa di loro. Il che sarebbe dovuto essere impossibile, almeno in teoria, perché non si può essere più silenziosi di qualcuno che non parla e non fa rumore, eppure Kemala ci riusciva. Non solo taceva, ma sembrava addirittura assorbire ogni rumore che galleggiava nell’aria, come una specie di buco nero in forma umana. Gli unici suoni erano il sottile scricchiolio della ghiaia sotto ai loro piedi, mentre camminavano adagio.

C’erano state le presentazioni di rito, ma ancora nessuna spiegazione. Chakra aveva insistito che se ne parlasse altrove, in un luogo più riparato. Matteo dubitava che potesse esserci un luogo molto riparato, lì nel mezzo di un parco pubblico brulicante di vecchietti, eppure ne avevano trovato uno. Più o meno. Non era molto riparato, in effetti, o almeno non dava quella sensazione, eppure c’erano poche persone attorno, la fontana era una di quelle sonore, come se ne vedevano e sentivano più o meno ovunque a Varshi e, nel complesso, offriva tanta privacy quanta se ne potesse trovare su un pianeta di spioni come Lakshmi. Non molta, dunque, ma almeno ti illudeva.

«Bene bene bene,» disse Chakra, sedendo su una panchina. «Adesso siamo pronti ad ascoltare la tua storia di disgrazie, fallimenti e rimpatri forzati. Se vuoi raccontarla, ovviamente.»

Kemala studiò Chakra con un certo sospetto, seguito subito da un incerto sospetto, che era molto più vago e, dunque, molto più preoccupante. Guardò poi Matteo, che tentò senza molto successo un sorriso incoraggiante e annuì. «Parla pure,» le disse. «So che non si presenta molto bene, ma è una persona fidata, a modo suo. In confronto ad altri, almeno.»

«Ragazzo mio, così mi offendi! Io sono una persona totalmente inaffidabile, ricordatelo. Non sono però uno spione, come li chiami tu, e non me ne frega niente dei fatti vostri. Sulla base di quello che mi ha accennato il nostro amico terrestre, però, trovo che il tuo caso sia alquanto interessante, su un piano prettamente legale. Se vuoi parlarne, parlane pure. Se non vuoi parlarne, non parlarne pure. È la stessa cosa, per me.»

«E questa sarebbe la tua nuova balia?» chiese Kemala. «Certo che te cerchi col lanternino...»

Matteo scrollò le spalle. «Poteva andarmi peggio, forse.» A lei era andata decisamente peggio con la sua avventura su Madre, almeno a giudicare dal suo aspetto, ma non sarebbe stato saggio farglielo notare. Meglio aspettare che ci arrivasse da sola. E ci arrivò, subito dopo.

Kemala raccontò della propria esperienza sulla Terra, del successivo viaggio verso Madre e del suo arrivo sul pianeta. Soprattutto di quello. Lo raccontò in versione riveduta e corretta, personalizzata e abbreviata in vari punti, ma nel complesso sufficientemente vicina al vero da suonare verosimile. La parte dell’arresto e del rimpatrio, soprattutto. La storia relativamente più dettagliata di come avesse vissuto sulla Terra, invece, suonò alle orecchie di Matteo molto più vicina a una specie di romanzo di basso livello che alla realtà, ma lo tenne per sé. Se mai avesse dovuto raccontare la propria vita su Lakshmi, era probabile che anche lui l’avrebbe infarcita di luoghi comuni implausibili.

La lasciarono parlare, senza interruzioni e senza commenti. Alla fine, Chakra si accarezzò a lungo la barbetta, fissandola. Matteo avrebbe voluto dire qualcosa, un qualche commento, ma era chiaro che l’amico si stava preparando a dare la propria opinione, qualunque essa fosse. Interromperlo poteva essere nocivo, non tanto per sé quanto per l’atmosfera generale del gruppetto. Che era già buia a sufficienza di suo, in effetti.

«Il tuo progetto è stato molto avventuroso, non ne discuto, ma è anche un progetto spaventosamente stupido. Te lo ha suggerito il terrestre, qui?» E puntò col pollice verso Matteo.

«No, non me lo ha suggerito lui. E sì, lo so che è stato spaventosamente stupido. Me lo ha ripetuto anche la professoressa Choi, nel viaggio di ritorno, grazie tanto per la sottolineatura.»

«Te lo avrei ripetuto anch’io, prima del viaggio di andata, se è per questo. Bastava una conoscenza minima delle leggi interplanetarie per capire che non avrebbero mai, mai e ancora mai chiuso un occhio, o anche solo un poro, su un reato come l’immigrazione clandestina. Il primo pianeta che toccherà quella legge, in qualunque circostanza, spalancherà un verminaio che ci lascerà merda da spalare per un decennio almeno.»

«Sì, è più o meno la stessa cosa che mi ha detto anche l’ambasciatore, anche se in un modo meno colorito.» Kemala sospirò, a testa bassa. Pallida e spenta, sì, era il modo migliore per descriverla, al momento. Matteo la confrontò col ricordo che ne aveva, prima della sua partenza verso la Terra, e il caldo appiccicoso dell’estate fu per un attimo sostituito da un brivido. Poi tornò caldo appiccicoso.

«Ma se lo sa Chakra, lo avrà saputo anche la tua professoressa, giusto? Perché non ti ha avvertito prima, allora? Sarebbe stato molto più semplice,» disse Matteo.

«Terrestre, terrestre, non ti ricordi la lezione sul principio di responsabilità?» chiese Charka, con un mezzo sorriso. «Non l’avrebbe mai avvertita prima. Avvertirla prima e impedirle di agire nel modo in cui voleva sarebbe stata una orribile violazione delle sue libertà.»

«Fai quello che vuoi e poi cazzi tuoi, giusto? Ma è stupido!»

«Non è stupido. È Lakshmi, dove la sociologia si rannicchia in un angolo a piangere disperata, e la psicologia sociale spende le giornate al bar, a ubriacarsi.»

«Questa non l’ho capita.»

«Non importa. Un giorno capirai. Quando sarai diventato grande.»

«Non sarebbe servito a nulla dirmelo,» li interruppe Kemala, col suo nuovo tono da campana rotta. «Mi ero messa in testa una cosa e l’avrei fatta comunque. Dovevo andarci a sbattere il naso.»

Matteo continuava a pensare che fosse tutto estremamente stupido, ma scelse di tacere. Per quanto stupida, era stata una terribile esperienza per lei e non sarebbe stato il caso di commentare più dello stretto necessario. E poi ci pensava già Chakra, col tatto di una murena. «E adesso?» chiese.

Kemala allargò le braccia. «Adesso sono qui.»

«Sì, ok, ma cosa significa?»

«Matteo, Matteo, alle volte mi chiedo con quale parte del corpo ragioni,» disse Chakra. «E puoi star sicuro che preferisco rimanere nell’ignoranza. È sotto processo, no? E attende la sentenza.»

«Sotto processo? Perché?»

Chakra roteò gli occhi. «Interpreterò il tuo perché come un “come fai a saperlo?” e ti risponderò di conseguenza. Pensare che tu mi stia davvero chiedendo perché sia sotto processo è troppo stupido persino per uno come te: non possiedo ancora la forza di carattere per calarmi in certi abissi della degenerazione umana. Questo è un quartiere giudiziario e qui sono parcheggiati tutti gli imputati in attesa di processo, sentenza o di scontare la propria pena. Ci sono anche normali abitanti, è ovvio, come i vecchietti che abbondano nel parco, ma la caratteristica più interessante del posto è proprio la sua alta concentrazione di inquisiti, rei e altra mercanzia umana. Per quale motivo pensi che io lo abbia scelto come nostra residenza, eh?»

Matteo lo guardò negli occhi. «Vuoi davvero che ti risponda?»

«Domanda retorica, domanda retorica. In ogni caso, è proprio per questo che siamo qui ed è proprio per questo che i miei approfondimenti didattici richiedono un costante movimento attraverso le aree più frequentate del quartiere. È la pura verità, te lo assicuro,» aggiunse, mentendo spudoratamente in faccia a Matteo, che continuava a guardarlo dubbioso.

«Quindi è qui che lasciano girare tutti i criminali, senza sorvegliarli?»

«Solo alcuni e non necessariamente criminali. Sei criminale solo dopo la condanna, ricorda; fino ad allora sei innocente. E comunque questo è uno dei quartieri giudiziari: ce ne sono altri, ma qui trovi i reati che interessano a me. Per il mio corso di studi, ricorda.»

«E non li sorvegliano?»

Chakra allargò le braccia, gioioso. «Ma siamo tutti sorvegliati, no? Questa è Lakshmi, dove c’è sempre qualcuno che ti guarda, anche mentre sei seduto sul cesso. Non sei proprio tu a lamentarti in continuazione della sorveglianza? Qui è solo leggermente accentuata. Chi è sotto processo ha la certezza di essere guardato per tutto il tempo, mentre in condizioni normali ne hai solo il sospetto.»

«È come dice il tuo amico,» confermò Kemala. «Ed è come col tricheco di cui parlavi tu. Non puoi scappare, perché c’è sempre qualcuno che ti guarda e fa rapporto. Siamo qui ad aspettare.»

«Infatti. E nel tuo caso, quando sarà la sentenza? Mi piacerebbe poter assistere, se per te non è un problema. La trovo molto interessante per il mio corso di studi.»

Kemala alzò le spalle. «Assistete pure. Sarà tra cinque giorni, ma tanto so già cosa decideranno. Me lo ha anticipato la professoressa Choi, poco dopo il ritorno. Dovrà comunque esserci un processo, perché così vuole la legge, e dovranno esserci tutte le varie discussioni di voi legali, ma non servirà a niente, perché il risultato è già deciso.»

«Normale amministrazione,» rispose Chakra. «Funziona quasi sempre così, in questi casi, ma l’iter giudiziario è comunque interessante da seguire, anche se è solo un copione recitato. Allora, ci vuoi anticipare la sentenza, oppure dovremo aspettare la fine dello spettacolo per conoscerla?»

Nuova scrollata di spalle. «Mi manderanno su Agni a proseguire i miei studi. È il massimo che la professoressa Choi sia riuscita a ottenere. Io andrò su Agni, studierò da vicino la pietra su cui avevo fatto la mia tesi, e tutti vissero felici e contenti. E di Madre non si parlerà più. Non con me, almeno. Non per me,» aggiunse, suggerendo col tono che la campana non era solo crepata, ma frantumata.

Matteo ci pensò un poco. «Beh, non mi pare poi così terribile. In fondo poteva andare molto peggio, no? Sarai ancora libera e potrai continuare i tuoi studi, anche se su un altro mondo. Ok, lo so, non è Madre e non è quello che volevi, ma almeno sei da quelle parti, no? Come argomento, dico.»

Ma lo era? Ancora non aveva avuto alcun interesse ad approfondire il discorso di quella fantomatica pietra di Agni, qualunque cosa fosse. Se però era stato argomento della tesi di una come Kemala, monomaniaca allo stadio terminale, qualcosa doveva pur avere a che fare con Madre e le sue rovine aliene, giusto? Poteva capire la delusione, ma a suo parere ne stava facendo un dramma per niente. Poi si girò verso Chakra e capì che nel suo ragionamento c’era un qualche difetto, a lui ignoto.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese.

Chakra sospirò, scuotendo la testa. «Non hai capito il nocciolo della sentenza, giusto?»

Molto probabilmente no, vista la differenza tra la sua reazione e la reazione degli altri due. Ma cosa c’era da capire, in fondo? A lui sembrava tutto così semplice... Lo chiese.

«La manderanno su Agni a continuare i propri studi,» disse Chakra, lentamente. «Su Agni. Agni è un mondo coloniale, a diversi anni luce da qui. Il più vicino a Madre, in effetti, ma questo è un altro discorso e al momento non ci interessa, anche perché comunque sono distanze astronomiche e il concetto di vicino è molto più, come dire, elastico e spazioso. La manderanno però ad anni luce da casa e là dovrà continuare i propri studi. Ci sei fino a questo punto? O ti sei già perso?»

«Ci sono, ma...»

«Calma. La manderanno su Agni e su Agni resterà. Giusto o sbagliato?» chiese a Kemala, che stava sempre in silenzio e a testa bassa, mentre loro le parlavano attorno.

«Giusto. Un biglietto di sola andata per Agni,» rispose lei.

«Sì, vabbè, ma io non...»

«Calma ancora. Pensaci. Cosa significa un biglietto di sola andata per Agni?»

«Che non tornerà indietro, ok, ma...»

«Significa esilio,» concluse Chakra. «Hai rotto le palle a Lakshmi e adesso vattene fuori dai piedi e arrangiati da sola. Crepa pure dove vuoi, a Lakshmi non importa più nulla di te. Se fuori. Sei sola.»

Matteo si azzittì. Ok, questo non lo aveva previsto. Non lo aveva neppure pensato o immaginato. E come avrebbe potuto pensarlo o immaginarlo, seriamente? L’esilio suonava così... così vecchio, così primitivo, superato. Che senso aveva mandare una persona in esilio, in un’epoca in cui esistevano i viaggi interstellari? Un’epoca in cui esistevano anche le comunicazioni interstellari. Ok, vero, non è che fossero proprio il massimo e non funzionavano sempre molto bene, ma esistevano. Che razza di una pena era l’esilio, davvero? Eppure doveva essere una pena seria, almeno lì su Lakshmi.

«Non hai ancora recepito il messaggio?» gli chiese Chakra. «Credevo fosse abbastanza chiaro.»

«No, no, sì, è chiaro, è chiaro. È che... boh, non credo che sulla Terra ci sia ancora l’esilio, per cui stavo cercando di inquadrarlo, come dire, di farmi una idea di come fosse, ecco.»

«Spiacevole, per un lakshmita,» rispose Kemala. «Soprattutto perché dovrò restare là. Non avrò più altre occasioni di andare su Madre a studiare. Ormai...»

«Ormai e orsempre,» disse Chakra. «Butta via l’ormai e non pensarci. Le sentenze di esilio non ti impongono una residenza specifica, ma ti impongono solo di non ritornare nel posto da cui sei stata esiliata. Questo significa che non potrai tornare su Lakshmi, certo, ma non sarai costretta a rimanere su Agni per il resto della tua vita. Pensala come la tua prima tappa. Le prossime... chissà, starà a te deciderle. Una nuova occasione per tornare su Madre potrebbe sempre arrivare, anche se dubito che sarà a breve, visti i tuoi precedenti. Quando cambierà il governo della colonia, però... chi lo sa.»

Kemala alzò la testa. Non era decisamente di buon umore ed era a diversi anni luce dalla vivacità, che forse era stata solo pazzia o incoscienza, che Matteo le aveva visto in faccia in precedenza, sia a Bishapur che a Vashi, durante l’autunno precedente, ma almeno non assomigliava più a un morto vivente, in procinto di ritentare il suicidio. Poteva essere un progresso.

«Beh, io non so niente di come funzioni questa legge, ma Chakra ha ragione,» le disse. «Prendila come una pausa di riflessione. Studia quello che devi studiare, guardati attorno, e poi magari avrai una nuova opportunità di tentare con Madre. A proposito, cos’è che devi studiare?»

«La pietra di Agni. Te ne avevo già parato, non te lo ricordi?»

«Ehm...»

«Prendila come risposta negativa e non farci troppo caso,» le disse Chakra sorridendo. «Sospetto che sia colpa di un trauma che ha subito in età infantile. Caduto di testa dal seggiolone, sai.»

Sorrise anche Kemala. Più o meno. «La pietra di Agni è una pietra ed è stata trovata su Agni. È per questo che si chiama così: pietra di Agni. O almeno, è una quasi pietra. In realtà non è composta da roccia vera, ma dallo stesso materiale con cui sono state edificate le rovine aliene di Madre. Risale a circa tre milioni di anni fa, più o meno la stessa età delle rovine, anche se forse sarebbe più corretto collocarla in un’epoca di poco successiva rispetto alle rovine rinvenute finora su Madre, ma non si è ancora raggiunta una datazione certa. Potrebbe essere stata prodotta dalla stessa civiltà che viveva su Madre e ha edificato le rovine e potrebbe essere una prova che quella civiltà aveva già scoperto il volo interstellare, prima di estinguersi, ma... Potrebbe, appunto. Offre più misteri che certezze, al momento.» Alzò le spalle. «Per questo è interessante, anche se...»

«Anche se non è Madre, vero?» disse Matteo.

«Anche se non è Madre, già. Agni è il pianeta abitabile più vicino a Madre, dopotutto, e se anche gli alieni di Madre avevano la nostra stessa struttura biologica, cosa che supponiamo, data la natura del pianeta e la struttura delle altre forme di vita locali, è possibile che abbiano esplorato Agni, magari per creare una colonia. Era il mondo più vicino al loro su cui potessero abitare, dopotutto, e la più logica delle scelte. Spiegherebbe perché sia stata trovata quella pietra, proprio lì.»

«Interessante, interessante,» mentì Chakra. «Sono sicuro che potrai dare un grande contributo allo studio dei movimenti di questa civiltà aliena, analizzando a fondo la pietra di Agni. Anzi, anzi, puoi pensarla così: seguirai lo stesso cammino degli alieni, ma al contrario. Partirai da Agni e poi, a poco a poco, punterai verso Madre. E alla fine riuscirai a trovare le tue risposte.»

Kemala sospirò. «Staremo a vedere. Speriamo.»

Stettero a vedere e sperarono. Cinque giorni dopo si svolse l’ultima fase del processo, in un’aula in cui sedevano anche Chakra e Matteo, come spettatori moderatamente interessati, e la sentenza ebbe la propria conferma ufficiale. Kemala Kexin aveva dieci giorni di tempo per partire verso Agni, la sua nuova patria. La sua unica patria.

Dove l’attendeva la pietra di Agni.