Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 5

Matteo Kori non era ancora del tutto sicuro di come funzionasse un anno lakshmita, né era sicuro che lo avrebbe mai capito davvero, ma apparentemente i giorni multipli di cinque, in ogni stagione, erano considerati festivi nel calendario accademico. O forse non proprio festivi. Non una domenica, ma qualcosa di simile. A ogni modo, non c’erano lezioni e così, il giorno Quattordici di Primavera, aveva deciso di trascorrere la serata in un locale di Varshi, assieme a Sharma e Indira. Avrebbe presentato loro Bogdan, come Sharma lo aveva invitato a fare.

Richiesta strana, da parte del compagno. In generale, Sharma non sembrava poi così interessato alla vita privata delle persone, ma aveva dimostrato una certa curiosità nei confronti di Bogdan Stratos, quel fantomatico terrestre di cui il compagno di stanza parlava così spesso. Comprensibile, si disse Matteo: se il suo ruolo era quello di fargli da guida e balia, era legittimo che volesse anche farsi una idea sulle sue frequentazioni, nel caso non fossero raccomandabili. Magari lui ne sarebbe stato considerato responsabile. A Matteo non era molto chiaro la storia del tutore (o balia) lakshmita, per i nuovi arrivati, ma non poteva escludere che avesse anche una qualche responsabilità legale.

Qualunque fosse il motivo, adesso sedevano nel locale preferito da Bogdan, nel quartiere di Varshi dedicato alle scienze. O ad alcuni tipi di scienze. Nel corso di quei suoi primi giorni di permanenza sul pianeta, Matteo era stato costretto ad assorbire in breve tempo così tante informazioni diverse, e non sempre coerenti tra loro, che ormai non si sentiva più sicuro di nulla. Decisamente un posto strano, Lakshmi, ma non sgradevole.

Gli studenti che vedeva in quella zona, in apparenza, erano tutti iscritti a facoltà scientifiche, per cui poteva essere considerato un quartiere scientifico. Per semplicità. Il locale stesso poteva essere definito un bar, un pub o qualche altra cosa ancora, in termini terrestri, ma lui preferiva andare sul sicuro, chiamandolo genericamente “locale”. Meglio non complicarsi la vita con le varie differenze tra i posti in cui si andava a bere: le differenze c’erano, ma lasciava volentieri che fossero gli altri a preoccuparsene. Per Matteo erano tutti locali.

«Questo è alcolico» disse, sollevando un bicchiere pieno solo a metà. «Mettila pure come vuoi, ma è alcolico. Si sente il sapore.»

«E invece ti sbagli» rispose Bogdan. «È frutta e di alcol non ne troverai neppure una goccia.»

Matteo lo fissò con notevole sospetto. «A me sembra alcolico.»

«Neppure una goccia, giuro. Chiedi pure ai tuoi amici del posto, se non ti fidi di me.»

Matteo si girò verso Sharma. «Effettivamente ha ragione lui» gli confermò il compagno. «Contiene il distillato di un frutto locale e non c’è traccia di alcool. Su questo sta dicendo la verità.»

«Su questo? E su cosa non la dice?»

«Il processo di fermentazione di questo frutto produce una sostanza che è analoga all’alcool, quanto meno per il suo effetto sugli esseri umani. Si accumula nel sangue e, oltre una certa soglia, spesso causa lievi alterazioni al normale funzionamento del cervello. Ma un organismo sano la smaltisce in breve tempo» aggiunse Sharma, notando l’espressione dell’amico. «Non ci sono problemi.»

«Guastafeste» commentò Bogdan, allargando teatralmente le braccia. «Era soltanto uno scherzetto innocuo, giusto per introdurre il nostro collega alla vita notturna del posto.»

«Puoi portarlo a visitare un ospizio, se vuoi introdurlo alla vita notturna di Varshi» disse Indira. «È famosa proprio per la sua assenza di vita notturna, questa città. Nel caso non te ne fossi ancora accorto»

«Il che mi era sembrato molto strano, all’inizio» rispose Bogdan. «Sulla Terra sarebbe stato molto diverso: in una città universitaria come questa, di notte dovresti fare a gomitate tra gli studenti, per attraversare una strada. E schivare ciò che lasciano sulla strada, in parecchi casi. Qui, invece, siete tutti estremamente seri.»

«Differenze culturali. Per voi l’università è solo un luogo dove parcheggiarvi temporaneamente, in attesa di fare qualcosa di serio; per noi, invece, è un luogo di divertimento, che frequentiamo per scelta e per studiare ciò che noi amiamo. L’università stessa è il divertimento, nel caso non fosse chiaro» aggiunse.

«Parola di Indira, la sociologa» disse Sharma, con un sorriso più largo del solito.

«Non sono sociologa! È solo un seminario e non ho intenzione di proseguirlo, una volta finito. Sei tu semmai il filosofo, che ripete sempre roba simile.»

«Colpito. Devo ammettere che il mio campo di studi è proprio quello, anche se non è mia abitudine ripetere “roba”. Di solito, mi limito a esprimere pareri, opinioni, oppure a fornire spiegazioni.»

«A fare il professore» concluse Indira. «O il guastafeste, come ti ha giustamente definito Bogdan. Ti posso chiamare Bogdan, giusto?» chiese, girandosi verso di lui. «Non vorrei aver detto qualcosa di sbagliato. Matteo qui vuol farsi chiamare per nome, ma magari tu hai altre preferenze.»

«Bogdan va benissimo, grazie. In linea generale, rispondo a qualsiasi nome mi sia rivolto, purché non sia eccessivamente offensivo, ma il mio primo nome è la soluzione che preferisco, almeno tra amici o quasi coetanei.»

Matteo osservava l’amico, con un blando fastidio che gli si accumulava da qualche pare dietro la fronte. A conoscerlo meglio, o solo più a lungo, non era poi così serioso come era sembrato durante il viaggio verso Lakshmi. Era decisamente una persona spigliata, soprattutto con le ragazze. Il che era senza dubbio un altro lato negativo, almeno dal suo punto di vista. Avrebbe desiderato anche lui saper fare commenti buffi, simpatici, scherzosi o altro, quando parlava a Indira. Ma tutto ciò che gli usciva erano noiose osservazioni sul tempo o sulle lezioni che frequentavano assieme, come quella di filologia lakshmita. Non era giusto.

«Sei al tuo ultimo anno di specialistica» disse Sharma, rivolto a Bogdan. «O almeno così ha detto il tuo collega terrestre. Hai già sistemato il dopo?»

«Quasi sistemato. Attendo una conferma, ma no dovrebbero esserci brutte sorprese. Salvo miracoli negativi, per lo meno.»

«Miracoli negativi, che strana espressione!» disse Indira.

«Se esistono miracoli positivo, devono anche esistere miracoli negativi. È inevitabile.»

«Osservazione interessante» intervenne Sharma. «È lo stesso discorso che si può applicare anche alla fortuna. Di per sé, il sostantivo è neutro e non indica se sia buona o cattiva, anche se spesso, nel linguaggio comune, la fortuna è percepita come positiva e...»

«Risparmiaci, per pietà» lo interruppe Indira, sospirando. «Torniamo alla sistemazione, piuttosto. Quale sarebbe, se si può dire?»

«Ufficio per la Colonizzazione, sulla Terra. Un planetologo non ha molti altri sbocchi, dalle nostre parti, ma è comunque un buon posto, soprattutto se ti piace passare i primi anni a fare lo schiavo di qualche vecchiaccio.»

«E a te piace?»

«Direi proprio di no, ma servire un vecchio ha sempre una buona prospettiva, se sai attendere e sei paziente: la prospettiva dell’eredità. E poi è molto più probabile che scelgano di spedire un giovane a svolgere ricerche sul campo, invece che un vecchio. A ogni modo, è comunque uno dei settori più attivi e vivaci, sulla Terra.»

«Ma non dicevi che la planetologia non piaceva a nessuno?» chiese Matteo, cercando di ricordare agli altri la propria esistenza, seduto a quel tavolo.

«Il fatto che non piaccia non implica che non serva. La planetologia serve, ma non piace: per questo il mio posto di lavoro era quasi certo fin dall’inizio. Poca concorrenza.»

«È anche un lavoro di grande responsabilità, credo» disse Sharma. «Non ritengo di avere poi grande conoscenza della politica terrestre e della sua struttura amministrativa, ma mi pare che l’Ufficio per la Colonizzazione occupi un ruolo di primo piano, almeno in questa epoca storica.»

«Giusto. In un modo o nell’altro, gestisce di fatto la maggior parte della politica estera e ha dita di una notevole lunghezza, quando si tratta di arraffare fondi pubblici. Potremmo anche azzardarci a definirli tentacoli, anziché dita. Non che tutto ciò abbia qualche importanza, nel mio caso» aggiunse Bogdan, «Io sarò solo uno dei tanti dipendenti, con un incarico esclusivamente scientifico e di ricerca. L’amministrazione spetta ad altri.»

«La responsabilità è comunque...»

Bogdan alzò una mano a interromperlo. «Il mio campo sono i giganti gassosi. Importanti, certo, e di grande interesse, ok, ma non di grande responsabilità, salvo eventi estremamente rari e improbabili. Non sono uno di quelli che studiano e analizzano pianeti abitabili, sia chiaro. Se vuoi proprio farne una questione di responsabilità, allora la mia sarà molto limitata e puramente scientifica: io sarò responsabile della correttezza nei risultati delle mie ricerche, ma non ci saranno vite di mezzo, né umane né animali, come potrebbe accadere a chi si occupa ti pianeti abitabili.»

«Spero di non aver detto qualcosa che possa averti offeso, perché non era mia intenzione. Volevo solo avere chiari quali fossero i limiti...»

«Lo so, lo so, lo so» lo interruppe di nuovo Bogdan, sorridendo. «Anche la mia balia era così: il suo ritornello preferito era “responsabilità”. Capisco che nella vostra società la responsabilità abbia un grosso peso e non ne discuto, per cui metto subito in chiaro le mie e non ne parleremo più. Non sarò un lavoratore con grandi responsabilità, sul mio pianeta, ma solo uno che passerà la maggior parte della propria vita a fissare pianeti gassosi attraverso uno schermo. Ok?»

«Nessun problema» si affrettò a rispondere Indira, guardando storto Sharma. «Ma parliamo di altro, che questa discussione non è molto interessante. Frequenti spesso questo locale?»

«Non proprio spesso, ma quasi. È il posto in cui mi rintano la sera, quando voglio staccare la spina per un po’ e non pensare allo studio. È tranquillo, è vicino ed è privo di planetologi. Non trovi mai planetologi, in giro. Probabilmente pensano che non possa svilupparsi la vita all’esterno delle loro strutture universitarie.»

«Ma tu sei un planetologo, no?»

«Ma io sono terrestre e credo che possa svilupparsi una vita molto interessante, anche all’esterno di una struttura universitaria. Niente di troppo interessante, sia chiaro, perché siamo sempre a Varshi, ma più interessante di una pagina di matematica sì, questo è certo. Non che ci voglia molto.»

Matteo si guardò attorno, vagamente annoiato. Era un bene che i suoi amici lakshmiti si trovassero bene col suo amico terrestre, ottima cosa, magnifica, certo, ma al momento si sentiva una pianticella ornamentale. Non riusciva a entrare in una sola conversazione, almeno non con qualcosa di più di un sì o un no, un già o un infatti, e ciò gli riportava alla mente spiacevoli ricordi della vita sulla Terra. Vita scolastica, ma non solo. Vita di persona che è lì a fare numero e a scaldare una sedia.

Attorno a lui, il locale era tranquillo, proprio come diceva Bogdan. Varshi non era un posto vivace o rumoroso, né di giorno né di notte. Lo aveva potuto verificare di persona e la cosa gli andava bene. Neppure lui era vivace o rumoroso, in fondo. Certo, non gli sarebbe dispiaciuto essere coinvolto nei brandelli di vita notturna o diurna, ma questo era un altro discorso. C’erano studenti ad altri tavoli, o almeno persone giovani a sufficienza da poter essere studenti, e un gruppo più anziano, che poteva invece essere composto da professori. Parlavano e bevevano, senza tanto rumore; qualche risata più forte delle altre, occasionalmente, rompeva la calma generale del luogo. In apparenza, lui e Bogdan erano gli unici terrestri presenti, almeno quella sera.

«È un posto tranquillo» azzardò, in uno dei suoi più riusciti e fantasiosi tentativi di conversare, con una sciolta vivacità da uomo di mondo.

«È un posto lakshmita, quindi tranquillo per definizione» rispose Bogdan, sorridendo. Col bicchiere in mano e un’atmosfera rilassata a circondarlo, era parecchio diverso dal Bogdan chiuso in cabina, durante il viaggio di andata, un particolare che Matteo continuava a notare, quella sera.

«Esistono posti vivaci anche qui, non siamo un paese di pensionati!» disse Indira. «Fai un salto in una delle città qui attorno e lo vedrai anche tu. Varshi è tranquilla, perché è luogo di studi, ma tutto il resto del pianeta è perfettamente normale, te lo assicuro. Non sarà depravato come la vostra Terra, ma ci sappiamo divertire anche noi.»

«Sorprendente. In sette anni che vivo qui, non me ne ero mai accorto. Sicura che stiamo parlando di questo pianeta e non di qualche altro? Ho sempre avuto l’impressione che voi preferiste soprattutto stare in pace, ma forse mi sarò sbagliato io.»

«Una vita tranquilla sì, ma non da zombi. Mai stato a Bishapur, in estate? O te ne sei rimasto qui a Varshi per tutto il tempo?»

«La città sul golfo, qui a... nordest, credo, o giù di lì.»

«Nordovest, in realtà, e sì, è la città sul golfo. È dove vanno di solito gli studenti di questa zona, in estate. Sono due ore di viaggio, più o meno, ed è un posto decisamente più animato di Varshi.»

«Mai stato. Non amo molto il mare.»

«Allora vacci, la prossima estate: potrebbe farti cambiare idea. E poi» aggiunse Indira, «sarà la tua ultima estate sul nostro pianeta, no? Tanto vale godertela un po’ di più.»

Matteo sospirò. Affascinante come il suo tentativo di fare conversazione fosse stato dirottato in un attimo, per trasformarsi in un altro botta-e-risposta tra Bogdan e Indira. Anche sul nuovo mondo, la vita continuava proprio a dargli grandi soddisfazioni, niente da dire. Si girò verso Sharma, col vago proposito di scambiare due parole con lui, e fu piacevolmente sorpreso di leggere una tenue traccia di irritazione sul suo volto, che si era sempre mostrato di una serenità olimpica.

«Dici che sarà ora di rientrare, ormai?» gli chiese.

Sharma osservò l’orario sulla parete. «Potrebbe essere una buona idea cominciare a prepararsi, a questo punto, anche se non è ancora così tardi. Per domattina avevo in programma di mettermi un poco avanti con gli studi e non mi dispiacerebbe arrivarci con una mente lucida e riposata.»

«Ne hai una?» disse Indira. «E dove la tieni nascosta?»

Trascorse un’altra mezz’ora, prima che si preparassero davvero a lasciare il locale. Matteo non si sentiva del tutto stabile sulle gambe e sospettava che quella misteriosa sostanza prodotta dai frutti locali, o almeno dai frutti utilizzati per la bevanda che aveva scelto lui, non si accordasse molto col suo organismo. L’aria fresca della sera, però, sembrava fargli bene e poteva quasi credere che i suoi pensieri fossero più lucidi e coerenti, adesso. Si salutarono, quando Bogdan dovette svoltare verso il proprio alloggio, nelle vicinanze, mentre gli altri tre proseguirono verso la zona degli umanisti, in cui i rispettivi alloggi si trovavano. Non molta strada, e la percorsero a piedi, in silenzio.

«Che ne pensi dunque di Bogdan?» chiese Matteo a Sharma, quando furono in camera, ognuno sul proprio letto, nella fase di incertezza esistenziale che si colloca tra il rientro a casa e i preparativi per la notte.

«Un personaggio piuttosto curioso» rispose. «Posso capire perché risulti affascinante, a prima vista. La capacità di essere a proprio agio con chiunque, ma soprattutto la capacità di mettere chiunque a proprio agio, non sono doti che si trovano abitualmente qui da noi. Deve essere un tratto che si è perso, nel corso della nostra evoluzione sociale, anche se non saprei spiegartene bene le ragioni.»

«Argomento per un qualche tuo seminario?»

«No, no, direi di no» Sharma sorrise. «Almeno non per il momento. Non ho seminari a cui potrebbe essere adattata una analisi dello sviluppo sociale del nostro pianeta. Resto pur sempre un filosofo, non un sociologo.»

«Già, già.» Il suo cervello, ancora impegnato in una lotta contro i residui della bevanda aliena, non aveva registrato lo “a prima vista”, inserito da Sharma nella descrizione di Bogdan. Non a un livello conscio, almeno. «E quella storia della responsabilità, invece? Non ho seguito molto la discussione, ma mi pare che ci sia stato un poco di attrito tra voi due, su quello.»

«Non credo lo si possa definire propriamente “attrito”, non a un livello così moderato di dialogo. È più vicino a una sorta di barriera culturale, direi. L’idea di responsabilità ha un peso molto grande, per noi, ma posso capire che in una cultura così differente, come quella terrestre, il suo peso possa apparire eccessivo, anche per chi ha già vissuto su Lakshmi per un lungo periodo, come è il caso del tuo amico. Sette anni, giusto?»

«Sette anni, sì. Mi potresti spiegare questa storia della responsabilità? Mi incuriosisce.»

Sharma sospirò mentalmente, dietro al suo solito sorriso. Le guance rosse di Matteo gli dicevano che i prodotto locali avevano avuto fin troppo effetto sul suo organismo e dubitava che il compagno avrebbe capito più di due parole, se lo avesse sottoposto adesso a un sermone sulla responsabilità, ma poteva comunque accennargli qualcosa. Chissà, magari avrebbe prodotto qualche risultato.

«Cercherò di essere breve, perché è tardi e credo che sarebbe meglio dormire, per entrambi. A ogni modo, possiamo dire che la nostra è una società della responsabilità, per seguire una definizione già usata in altri casi, seppure con differenze. Sia la morale individuale che l’etica pubblica si fondano sul principio di responsabilità. Teoricamente, sei libero di fare qualsiasi cosa tu voglia, purché tu sia pronto in ogni istante ad assumerti la piena responsabilità di ciò che hai fatto e a pagarne tutte le sue conseguenze, prevedibili o meno. Ti è chiaro fin qui?»

«Uhm... grossomodo.»

«Mettiamola in questi termini: scuse come “non volevo”, “non sapevo”, “non pensavo” e così via, su Lakshmi, non funzionano. Quando decidi di fare qualcosa, devi anche accettare di pagarne tutte le conseguenze, positive o negative che siano, senza rifugiarti dietro a un qualsiasi tipo di scusa o di giustificazione.»

Matteo sedeva sul proprio letto, gli occhi socchiusi e la fronte lievemente corrucciata. Non aveva la faccia di chi stesse capendo molto, ma neanche quella di chi stesse seguendo molto. Più che altro, la faccia di qualcuno che aspetta solo la fine di una lezione noiosa, per passare ad altro. Nel suo caso, l’altro sarebbe stato probabilmente dormire. Sharma si arrese.

«Ne parleremo un’altra volta, semmai. Adesso penso proprio che sia meglio staccare e dormire.»

«Sì probabilmente è meglio. Ma è interessante, davvero. Magari ne parleremo meglio alla prossima occasione. Ricordamelo.»

Sharma sorrise. Sì, glielo avrebbe ricordato, prima o poi. Magari quando il suo compagno fosse stato più lucido, più disposto ad ascoltare. Ma era certo che ne avrebbero parlato ancora. O forse, in fondo, avrebbe anche potuto lasciare che Matteo lo imparasse da solo, al primo errore. Anche quella era una possibilità, sebbene a Sharma non piacesse molto. Ci avrebbe pensato.

Il giorno seguente, numero quindici della primavera e dunque giorno senza lezioni per gli studenti, Matteo decise di approfittarne per la sua prima spedizione al famigerato centro culturale terrestre, in cui si era preso l’impegno di lavorare, molto prima di scoprire che lì su Lakshmi non avrebbe avuto alcun bisogno di lavorare, per mantenersi e sopravvivere. Avrebbe preferito di gran lunga rimanere a casa a studiare, o almeno a far scorrere svogliatamente le lezioni precedenti, ma si era assunto un impegno e adesso lo avrebbe dovuto rispettare. Così imparava a non informarsi prima.

Sharma l’avrebbe definita responsabilità, forse? Matteo se lo chiese distratto, mentre procedeva per la strada assolata e non molto affollata, seguendo le indicazioni ricevute dal compagno. Forse sì, se ricordava bene dal discorso che gli aveva fatto, la notte precedente. Se decidi di fare qualcosa, poi te ne devi assumere tutte le responsabilità, prevedibili o meno. O qualcosa del genere. Dunque, anche un lavoro di cui non aveva bisogno, e che aveva accettato prima di conoscere il funzionamento della società lakshmita, era una sua responsabilità e adesso ne doveva pagare le conseguenze. O giù di lì.

Scrollò le spalle. Sharma era un filosofo, o così amava farsi chiamare, per cui era normale che si divertisse con quelle che qualsiasi altra persona, sulla Terra, avrebbe definito “seghe mentali”. Se si divertiva così, buon per lui. Matteo non era filosofo e sotto questo aspetto concordava con Bogdan: il suo compagno di stanza parlava troppo di responsabilità. Dettagli. C’era un altro dettaglio che lo attirava, al momento: la natura dei passanti, che incrociava per strada.

Per quanto seri, tranquilli, responsabili e così via, gli studenti lakshmiti parevano avere almeno una caratteristica in comune con quelli terrestri: non erano mattinieri, o almeno parevano essere poco propensi a uscire di casa prima di mezzogiorno. Camminando verso il centro culturale, un percorso che lo portava ad attraversare quasi tutto il quartiere degli umanisti e una bella fetta di quello degli artisti (o presunti tali), gli unici passanti che Matteo incrociava erano un po’ troppo anziani, perché li si potesse definire ancora “studenti”. Potevano esserlo, teoricamente, nessun dubbio a riguardo: di studenti attempati ne aveva già incontrati lui stesso, in due dei suoi corsi, ma questi non avevano la tipica aria da studenti. E dunque...

«Amano dormire su qualsiasi pianeta» si disse. Li poteva capire. Matteo era sempre stato piuttosto mattiniero, ma sapeva di rappresentare una eccezione, non la regola. Anche Sharma, nonostante tutti i suoi discorsi sulle mattine dedicate allo studio e la necessità di impegnarsi in ciò che si faceva, era ancora impegnato a rigirarsi come un lombrico nel proprio letto, quando Matteo era uscito. E dire che non era poi così presto, almeno a suo parere. Sospirò. Era sempre piacevole trovare qualcosa di familiare, all’estero, anche quando l’estero è ad anni luce da casa.

Il centro culturale terrestre, quando lo ebbe raggiunto, gli si mostrò come un edificio tutt’altro che memorabile. Si collocava quasi all’opposto di “memorabile”, nel suo dizionario personale. Era un edificio scialbo, sciatto, banale e trascurabile, senza neppure uno straccio di bandiera a marcare la sua esistenza. Lo si sarebbe forse potuto definire palazzo, stiracchiando al limite il concetto, ma il nome lo avrebbero meritato di più i due edifici che lo costeggiavano: quelli erano alti, eleganti, con una facciata decorata ma non troppo, per piacere senza eccessi. Il famigerato centro culturale era basso, tozzo, con una breve scalinata di ingresso e un portico in stile neoclassico col mal di pancia, il tutto condito da un paio di chiazze di umidità. E quello avrebbe dovuto rappresentare la cultura terrestre? Doveva ottenere proprio fantastici risultati...

Matteo entrò, senza molto entusiasmo. Come gli confermò l’impiegato all’ingresso, era realmente il prestigioso centro culturale terrestre, una istituzione che tutte le cavallette avrebbero invidiato al suo pianeta. Osservava deluso l’ambiente scarno, gli scaffali, i quadri di scarso gusto artistico e i busti che persino un ignorante come lui riconosceva come imitazioni prodotte dopo aver forse soltanto sentito nominare l’originale. Se la cultura terrestre era pubblicizzata così, poteva capire perché in mensa alcuni lo avessero guardato come un curioso batterio evoluto.

«Matteo Kori, con la kappa, giusto? Il suo nome è registrato» disse l’impiegato all’ingresso, che una targhetta sul petto identificava come dott. I. Brünnel. «Nei prossimi giorni le faremo sapere i suoi incarichi presso di noi e concorderemo giorni e orari in cui potrà offrire servizio presso la nostra istituzione. Le saremo poi grati se ci facesse pervenire un calendario delle sue lezioni, in modo da conciliare al meglio le due attività, senza inutili sprechi di tempo da parte di entrambe le parti.»

Brünnel parlava quella forma imbastardita di inglese, che sulla Terra era ormai diventata la lingua ufficiale da qualche secolo, ma lo parlava con un accento sudamericano, che alle orecchie di Matteo suonava un poco buffo, quasi cantilenante. Era anche gradito e nostalgico, però, come quasi sempre lo è il suono della propria lingua, quando si è lontani da casa. Avrebbe preferito sentire il dialetto mediterraneo, quello che parlava in famiglia, ma poteva accontentarsi, per il momento.

«E che tipo di attività dovrei svolgere?» chiese all’impiegato, o al dottore, o a qualunque altra cosa fosse il tizio che gli sedeva davanti.

«Questo dipenderà in gran parte dalle sue qualifiche, che avremo modo di verificare nei prossimi giorni, ma in linea di massima si tratterà di collaborare con le varie attività che noi svolgiamo, per promuovere la cultura terrestre su questo pianeta: corsi speciali di lingua e cultura, dibattiti su temi concernenti i rapporti tra i nostri mondi, mostre artistiche e architettoniche, spettacoli musicali ma anche teatrali, e così via. È sempre un piacere trovare nuovi compatrioti, interessati ad aiutarci in una opera di promozione, che a volte si rivela ardua.»

Matteo si guardò di nuovo attorno, stringendo le labbra. Avrebbe potuto commentare in modo anche piuttosto spiacevole sulle loro possibilità di successo, se le attività promozionali si svolgevano in un edificio che assomigliava a un magazzino in disuso, ma decise di astenersi, per misericordia. Molto probabilmente dovevano lavorare con un budget assai limitato, cercando di ricavare il massimo dal minimo di cui disponevano. Sarebbe stato certo offensivo farglielo notare.

«Ma questo posto funziona anche, non so... come punto di ritrovo per i terrestri della città?» chiese, con parecchia incertezza nella voce.

«In caso di eventi o festività particolari, sì, a volte ha ricoperto anche questo ruolo, ma non è certo il suo proposito principale, per cui le suggerisco di non aspettarsi molto, sotto questo riguardo. Se lei è alla ricerca di luoghi di raduno abituale per i nostri compatrioti, li troverà più facilmente nei vari locali circostanti le aree universitarie» gli rispose Brünnel.

Come immaginava. Bogdan non aveva saputo dirgli nulla a proposto di quel centro, ma gli aveva confermato che anche tra gli altri terrestri di facoltà scientifiche, o almeno tra quelli che conosceva lui, solo pochi erano consapevoli dell’esistenza del centro. Ottima pubblicità, niente da dire.

Prima di andarsene, si concesse una breve perlustrazione del luogo, attività che non gli richiese poi molto tempo, date le dimensioni. C’era effettivamente una specie di bar interno, che poteva essere riciclato come sala per i rinfreschi, in occasione dei fantomatici spettacoli che vi si svolgevano, e si potevano anche ammirare due esemplari di esseri umani, presumibilmente terrestri, che sedevano a un tavolino ed erano forse impegnati a fare colazione, tra una chiacchiera e l’altra. Erano giovani e avevano addirittura l’aria di studenti. Matteo si avvicinò, incuriosito.

Come ebbe modo di scoprire dopo una breve presentazione e due parole abbozzate, erano entrambi studenti, proprio come sembravano, ed entrambi terrestri. Entrambi erano anche iscritti a una facoltà di tipo scientifico, inoltre, cosa di cui avrebbe parlato con Bogdan alla prima occasione. Magari li aveva sentiti nominare, nel corso dei suoi sette anni all’università.

Il più vecchio dei due si presentò come Roger Snyder, al quarto anno di fisica. Non un tipo dall’aria molto gradevole, almeno alla vista e almeno per Matteo Kori. Aveva lineamenti topeschi, che il generale pallore non contribuiva ad abbellire, ma che erano evidenziati senza pietà dai capelli neri, lunghi fino alle spalle e sparpagliati come se non avessero più visto un pettine, dai tempi dell’ultima glaciazione. Aveva una tazzina di caffè davanti, ma pareva usarla più che altro per giocherellarci con l’indice della mano destra.

Il secondo era un certo Steve Dingledine, al terzo anno di exologia. Come il compagno di tavolo, portava capelli lunghi fino alle spalle, acconciatura che evidentemente doveva essere di moda nelle facoltà scientifiche. A differenza del nero lucido e luccicante, quasi oleoso, del compagno, la sua tinta era un incerto colore rossiccio, come rosse erano anche le guance paffute. Entrambi parlavano con un accento nordamericano ed entrambi non fecero una gran bella impressione a Matteo, che di lì a poco si inventò una scusa, per allontanarsi. Non rappresentavano il genere di persona che amava avere attorno: gli ricordavano troppo certi aspetti del proprio carattere, grazie tante.

E così quello sarebbe stato il suo nuovo posto di lavoro, o di volontariato, a seconda di come lo si volesse definire? Avrebbe potuto pescare molto meglio. Avrebbe potuto scegliere molto meglio, se si fosse informato prima sulla società lakshmita. Scegliere ad esempio di restarsene a casa e pensare soltanto allo studio, invece che al lavoro. Ma ormai era andata così.

Bella fregatura.

Ma la città gli sorrideva, nella luce tiepida e già tendente al caldo di quella mattina di primavera, e poteva quasi credere, o almeno illudersi, che sarebbe stata una esperienza interessante e che, forse, ne avrebbe anche potuto ricavare qualcosa di buono. In fondo in fondo. Guardandola dal punto di vista migliore. Restava da trovare il punto di vista migliore, ma per quello aveva tempo.

Non sarebbe stato necessario camminare, come Sharma gli aveva ripetuto molte volte, ma Matteo camminava lo stesso. Gli piaceva. Gli piaceva attraversare la città, percorrerne le strade, visitarne gli angoli più nascosti, che un veicolo non gli avrebbe permesso di notare. Era un suo vizio, uno dei pochi che lui fosse disposto a considerare vizi, e lo aveva accompagnato durante i suoi diciannove anni di vita sulla Terra. Perché abbandonarlo proprio adesso, quando davanti a sé aveva un intero nuovo mondo da esplorare? D’accordo, un nuovo mondo che era limitato a una città, almeno per il momento, ma pur sempre un nuovo mondo. E poi un poco di movimento sarebbe forse servito per invogliarlo a studiare.

Superò un parco, ricco di alberi che assomigliavano a magnolie. Avevano anche un odore simile a magnolie in fiore, in effetti, e Sharma gli aveva spiegato che forse avevano davvero qualcosa a che fare con le magnolie terrestri, o almeno qualcosa in comune, ma di preciso non ne aveva idea. Se ne potevano trovare alcune anche nel giardino della loro residenza universitaria. «Dovresti chiedere a un botanico, semmai» aveva concluso Sharma. «Per quanto ne so io, sono belle e hanno un buon profumo, in primavera, ma niente fiori. Deve essere la resina a profumare, o forse le foglie. Questa è tutta la mia cultura in fatto di alberi.»

C’erano bambini a giocare nel parco, le loro voci giungevano alla strada solo lievemente attutite da distanza e vegetazione. Erano piacevoli da sentire, in un certo senso, soprattutto perché Matteo non capiva cosa si gridassero di preciso. Cose decisamente non piacevoli da sentire, se assomigliavano a tutti gli altri bambini, ma il suono delle loro voci aveva comunque una musicalità gradevole. Era molto festiva, domenicale, con una spruzzata di nostalgia. Ai margini del parco, una donna di mezza età (presunta) portava al guinzaglio un cane di piccola taglia, di una razza di origine terrestre, ma modificata su Lakshmi per ottenere sgorbietti col pelo corto su tutto il corpo e una criniera leonina attorno alla testa. Ne aveva già visti parecchi in città e Indira gli aveva spiegato che erano molto comuni, come animali da compagnia. Gusti.

Cominciava ad abituarsi, a quel posto. Era ancora straniero e lo sarebbe rimasto per chissà quanto, soprattutto perché una parte di lui si ostinava a usare unità di tempo terrestri, come settimane e mesi, che su Lakshmi non esistevano, ma non appariva più così alieno come all’inizio. Sì, si sarebbe potuto adattare a quella vita. Alla lunga, forse l’avrebbe anche potuto considerare come una casa. A grandi linee. Tralasciando qualche piccolo incidente linguistico, la sua vita su quel pianeta si stava dimostrando una passeggiata.

E dire che ne era così spaventato, all’inizio...

Mentre si avviava verso il posto che chiamava già casa, perché era il posto in cui abitava, Matteo Kori non si accorse di come Terra e famiglia stessero svanendo dai ricordi, soppiantati dalla nuova realtà che era Lakshmi, una madre gentile che lo attirava a sé, giorno dopo giorno.