Adriano - racconti e altro

La maestra scellerata

Lontano, lontano, nel Messico, c’era una volta una valentissima maestra, alla cui scuola andavano le figlie de’ principi, de’ marchesi e de’ conti. Tra queste c’era anche la figlia del re, ch’aveva nome Elisa. Ella s’era fatta amica alla figlia d’un conte. Un giorno, trovandosi sole le due amiche, disse l’Elisa: Senti, voglio farti conoscere una mia curiosità. Son parecchi mesi ch’io mi sono accorta che ogni giovedì la maestra ci lascia per alcune ore; dove la vada io non so, e pagherei ogni cosa pur di saperlo. - L’altra, ch’era piuttosto ardita, rispose: E perchè non le teniamo dietro il prossimo giovedì, che così ci caveremo la curiosità? Facciamolo.

- Brava, - ripigliò la figlia del re, - teniamole dietro.

Fissato questo, quando venne il giovedì, le due arditelle, appena videro la maestra all’ora solita partirsi da loro, le tennero dietro piano piano, senza farsi scorgere. Saliron le scale e osservaron che la maestra s’era chiusa a chiave nel granaio. Le fanciulle, perchè non fossero sentiti i loro passi, si cavarono le scarpe e cautamente s’avvicinarono all’uscio del granaio. Poi misero l’occhio a un buco e con loro grande sorpresa videro la maestra distesa per terra con la bocca aperta; poco dopo videro volare entro per la finestra una vespa, ronzare più volte attorno alla maestra, e finalmente entrarle in bocca e non più uscirne.

Veduto tutto questo, si tolsero di là, piano piano discesero e rientrarono nella scola. Venuta l’ora di dover andarsene a casa, quando giunse un servo a prender la figlia del re, la maestra gli disse che l’avrebbe accompagnata ella a casa. Poi chiamò a sè la fanciulla e le tenne questo discorso: Tu credevi, sciagurata fanciulla, che io non mi dovessi accorgere della tua curiosità. So che tu ormai mi tieni per una strega. Credilo pure, chè non me n’importa; ma sappi ch’io mi vendicherò, sì, mi vendicherò. Non ti lascerò pace in tutta la vita, e se tu dirai solo una parola intorno a quanto hai veduto, guai a te, morrai subito.

La fanciulla all’udire queste minacce, diede in un pianto dirotto, e pregava la maestra che le perdonasse, che non direbbe nulla a nessuno di quanto aveva veduto. Ma quella sempre più spietata ripeteva: No, no chè voglio vendicarmi, - e poi soggiunse: Or va, apparecchiati, chè t’accompagnerò io a casa.

L’Elisa tutta malinconica, si mise in punto, raggiunse pochi istanti dopo la maestra e in sua compagnia tornò a casa. La strega domandò di parlare al re, e come gli fu innanzi, disse che la figlia era ormai così istruita che poteva far a meno di frequentar la scola, e per ciò se la tenesse pur a casa. Il re fu contento oltremodo del bell’elogio fatto alla figlia, e ringraziata la maestra, la accomiatò.

Era questa appena fuori della reggia, che si levò uno de’ più furiosi temporali a memoria d’uomini. Il cielo era così oscuro che il giorno pareva diventato notte: pioggia, grandine, lampi, tuoni e folgori mettevano lo spavento anche ne’ più coraggiosi. Ed ecco un fulmine vien proprio a cadere sulla reggia e tutta la incenerisce. Nessuno scampa da morte, eccetto la sventurata Elisa. La poveretta, appena potè ricuperare i sensi e riconobbe la perdita che aveva fatta, perchè non l’erano rimasti più nè genitori nè parenti, cominciò a piangere come una disperata e a pensar che tutto era già avvenuto per l’odio della maestra. Andò picchiando di porta in porta e a stento trovò chi le desse un tozzo di pane per isfamarsi e un ricovero durante la notte. Questa vita di mendicante ella condusse per ben due anni, ma poi, essendo ormai grandicella, le riuscì troppo dolorosa, per cui diede un addio al suo paese, e deliberò di allontanarsene tanto che non ne sentisse più parlare.

Camminò, camminò per mesi e mesi, finchè giunse in Francia. Chiese in qual parte del mondo si trovava, e quando seppe ch’ella era in Francia, respirò e dentro di sè disse: Qui nessuno mi conosce, e qui, io spero, non potrà giungere a perseguitarmi quella infame di maestra. - Ma perchè non le piaceva vivere della carità altrui, picchiò la porta d’un fornaio. Venne ad aprire proprio il padrone che, veduta una così bella giovane, le domandò che volesse. Ed ella rispose: ch’era una povera straniera, che volentieri lo avrebbe servito, piuttosto d’andar mendicando. Il fornaio si lasciò muovere a pietà dalle semplici parole dell’Elisa, e la raccolse in casa e la affidò alla moglie, ch’era un’ottima donna. Marito e moglie, appena s’accorsero della bontà della giovane e della sua abilità nel tenere i conti e nel sorvegliare i garzoni del forno, le posero tanto amore che ormai la consideravano come una loro figliuola. La povera Elisa, contenta d’esser diventata da figlia di re figlia adottiva d’un fornaio, potevasi dir felice, ma i suoi guai non erano terminati, anzi si potevano dire appena appena cominciati.

Un giorno la padrona la chiamò a sè, e le disse: Senti, mia buona figlia, ormai ti conosco per fedele, e so quanto tu valga nel tener d’occhio tutte le cose mie. Adesso è giunto il momento di darmene una prova più chiara. Io e il marito mio dobbiamo partir di qua per un paio di settimane ed abbiamo pensato di affidare la direzione de’ nostri affari alle tue cure. Ecco le chiavi, abbi occhio a tutto e fa di mostrarti degna della fiducia che noi poniamo in te. - L’Elisa promise che farebbe ogni suo potere perchè avessero a chiamarsi contenti di lei. Partirono dunque i due, marito e moglie, e le cose del forno camminarono ottimamente mercè le cure indefesse della giovane. Una notte però, mentre tranquillamente dormiva nel suo letto, sentì aprire con violenza la porta. Si destò d’improvviso l’Elisa, e al chiarore della luna scorse con spavento il viso arrabbiato della maestra. La quale, avvicinatasi alla giovane e presala per un braccio, le disse: Ah! tu credevi ch’io non sapessi dov’eri. Tu credevi, da stolta, ch’io mi fossi dimenticata della vendetta che giurai su te. No, no, non mi son dimenticata, e finchè avrò fiato, ti perseguiterò sempre, sempre. - Così detto, si diede ad aprire armadi e cassetti, e fatto un fardello de’ danari tutti e degli oggetti più preziosi, che fu una grossa somma, se n’uscì per la finestra. La Elisa rimase talmente stordita, che non sapeva più in che mondo fosse. Intanto tornarono dal viaggio i padroni, e, quando s’accorsero del furto, ne domandarono conto alla fanciulla. Questa potè protestare la sua innocenza quanto volle, che non fu creduta e come ladra cacciata via.

Andò raminga qua e là parecchi giorni, vivendo d’elemosina, e finalmente trovò un buon filatore di seta, che la tolse in sua casa. Ma anche qui accadde appunto come nella casa del fornaio. La giovane con le sue maniere si acquistò l’amore della moglie del padrone, e qui pure fu lasciata per alcuni giorni a guardia del tutto. E pur qui venne la brutta strega a far bottino d’ogni cosa, e la infelice Elisa una seconda volta fu messa alla porta come ladra.

Scacciata dal filatore e fuggita da tutti, che la credevano una malvagia, andò errando giorni e giorni, e a stento trovò genti pietose che non la lasciarono morir di fame. Un giorno tra gli altri, mentre, tormentata dalla fame, s’era seduta a piè d’un albero, le vien vicino un vecchio e le domanda: Che fai tu qui sola, o fanciulla? Di che paese sei? Rispose l’Elisa: Io sono una povera ragazza senza padre e senza madre e senza alcuno che m’aiuti. Non so nè anche dov’io sia nata, perch’ero troppo bambina quando rimasi orfana. Se voi, buon vecchio, potete, aiutatemi, ch’io m’accontento di qualsiasi faticoso servigio piuttosto d’andar mendicando per le vie.

- Povera fanciulla, - ripigliò il vecchio, - tu mi fai compassione, e voglio aiutarti giacchè lo meriti, secondo che mi pare. Tu devi sapere che il cuoco del re è mio amico, e adesso appunto ha bisogno d’una brava ragazza, che lo aiuti nelle faccende della cucina. Se non ti spiace, io gli posso parlare.

L’Elisa fu contentissima dell’offerta. Pochi giorni dopo era già nelle cucine del re, dove attendeva a’ suoi servigi con la solita alacrità. Una delle sue incombenze era, una o due volte al giorno, di portar, su per una scaletta segreta, della legna, e riempierne la paniera in una anticamera. Un dì, mentre col suo fascio della legna saliva la scaletta, ecco aprirsi in alto la porta, e discenderne il giovane re. Appena l’Elisa vide il re, tutta confusa, si lasciò cader la legna di sulle braccia, e cadde inginocchioni abbassando il capo per la vergogna. Il re, ch’era cortesissimo, vedutala in quell’atto, le disse: alzatevi, bella giovane. - Ma ella non si moveva. Alzatevi, vi dico, - ripetè il re, - non vi voglio poi mangiare. La giovane finalmente, per non parere scortese, si alzò e, domandata scusa al re dell’essersi lasciata trovare in quel servigio, riprese la sua legna, e andò nell’anticamera a riporla nella paniera. Ma al giovane, appena ebbe veduta la ragazza, parve assai più bella di quante n’aveva mai vedute, e se n’innamorò perdutamente. Eran passate alcune settimane da quest’incontro, quando la regina madre fece chiamare a sè l’Elisa, e, come fu alla sua presenza, le parlò così: - Senti, mia buona ragazza, io so che tu non sei atta a’ servigi ai quali la tua povertà ti costringe; tu sai leggere, scrivere e far di conto, ti si conviene un posto assai più degno della tua abilità e buona condotta. Ho pensato dunque di prenderti come dama di compagnia, e so che con questo recherò un gran piacere anche al mio figlio, che mi parla sempre tanto bene di te. - La giovane rimase di sasso a questa offerta, e cercò di scusarsi, ma la regina seppe insistere così gentilmente che le convenne accettare. Ed eccola diventata dama di corte, e quegli stessi che l’avevano veduta giorni innanzi attendere a’ suoi umili servigi, non l’avrebbero ora potuto più riconoscere, tanto bene l’Elisa disimpegnava gli uffici della nuova carica. Il giovane re, che aveva ora la opportunità di vederla tutto il giorno a fianco della madre e di parlarle, sempre più se n’accese. E questo suo amore potè tanto in lui, che un giorno, presentatosi alla madre, domandò in isposa la Elisa. La regina, che s’era affezionata alla giovane come a una sua figlia, subito accondiscese. Ma la difficoltà maggiore da vincere fu di persuader la ragazza, la quale in tutti i modi non voleva accettare sì alto onore tenendosene indegna. Però prega l’uno e prega l’altra, da ultimo dovette cedere, e fu coronata regina di Francia. Le feste delle nozze furono grandi, ci fu corte bandita per otto giorni, e mai sposi ebbero tanti augurii di felicità quanti n’ebbero questi due.

Eran trascorsi pochi mesi appena dalle nozze, quando il Gran Turco dichiarò la guerra alla Francia. Bisognò che il re partisse a capo del suo esercito. S’allontanò dunque dalla moglie con dolore, e la raccomandò teneramente alla madre. Dopo quattro mesi circa da che era partito, mentre l’Elisa una notte dormiva tranquilla sognando lo sposo, ecco all’improvviso aprirsi la finestra della stanza. Al rumore si desta, e con raccapriccio si vede innanzi l’odiata maestra, la quale s’avvicina e in un orecchio le dice: Ah! tu credevi di non più vedermi. Forse l’esser regina pareva ti dovesse salvare dalla mia vendetta. Oh! come ti sei scioccamente ingannata. Non t’ho io detto più volte che t’avrei perseguitata sempre, sempre? Or bene: io so che tu tra breve partorirai; ricordati allora di non chiamar altra donna per levatrice se non me che abito qua vicino. Guai se non facessi ciò, n’andrebbe della vita tua, e di chi più ami a questo mondo. - Detto questo, la vecchia strega sparve.

Come rimanesse la misera giovane, non è a dire. Voleva piangere, ma temeva di far conoscere il suo turbamento, perciò dovette dissimulare e soffocar dentro di sè il suo dolore. Venne intanto il momento del parto, e l’Elisa volle che si chiamasse la levatrice a lei vicina, ch’era la maestra. Costei, come fu nella stanza dell’Elisa, assistette con ogni cura al parto, e appena la giovane diede alla luce due bei bambini, un maschio e una femmina, di nascosto di tutti li trafugò, e in loro luogo pose due cagnolini. Quando la povera madre si vide così ingannata e senza nè anche la consolazione di poter parlare, si volse a piangere dirottamente. Entrata la regina, e vista la nuora che piangeva, le domanda la cagione, e l’Elisa zitta; quando però vide i due cagnolini, s’immaginò che la giovane piangesse per questo parto mostruoso. Addolorata comincia a confortarla: Non ti affannar punto, la mia buona Elisa, per questo tuo disgraziato parto. Non sei tu la prima, a cui ciò sia accaduto. Riguardo al re mio figlio, lascia il pensiero a me, che gli saprò scrivere in modo che non verrà a conoscere nulla del fatto.

Presa la penna, la regina scrisse al figlio come la Elisa aveva dati alla luce due bambini, che subito eran morti. Poi la consegna a un servo che la recapiti al re. Il servo prende la lettera, monta a cavallo, sprona, e via a tutta briglia. Verso sera si ferma a un’osteria per riposare, e, senza ch’egli la conoscesse, gli si avvicina la vecchia strega e gli dà a fiutare del tabacco. Questo tabacco ebbe la virtù d’addormentar subito il servo, e intanto la donna potè comodamente levargli di tasca la lettera per il re e rimetterne in suo luogo un’altra, nella quale si diceva che la Elisa aveva dato alla luce due cagnolini. Quando il servo si destò, per primo guarda se ha la lettera; la lettera c’è, rimonta in sella, e via di tutta corsa.

Il re, appena legge la lettera della strega, la quale aveva saputo troppo bene imitare il carattere della regina, monta in tanta collera che, senza pensar ad altro, per lo stesso corriere, fa dire alla madre: Si chiuda fra due muri la sciagurata moglie e si lasci morir di fame; nello stesso tempo si facciano i più sontuosi preparativi perchè egli, al ritorno dalla guerra, piglierebbe in moglie la figlia del re di Portogallo.

All’udire la crudele sentenza del figlio, la regina madre fu presa da spavento, e siccome credeva innocente l’Elisa, in luogo di farla morire, segretamente la fece condurre in un remoto appartamento. Qui ogni giorno andava a trovarla, e ambedue piangevano sopra l’inumana sentenza del re. Un giorno tra gli altri l’Elisa fece chiamare la regina e così le parlo: Finora non v’ho detto chi io fossi, adesso è giunto il momento di svelare ogni cosa. Io sono, sappiate, figlia del re del Messico. Un fulmine distrusse, quand’ero bambina, il palazzo di mio padre e con esso tutti i miei, eccetto me sola. Un servo, che ci era stato fedelissimo e che si trovava nel momento della disgrazia nella mia stanza, unica rispettata dalla folgore, fu mutato in statua di bronzo. Ora vi prego di farmi avere quella statua; quando io sia appagata in questo, son pur contenta di morire, sebbene sappia di morire ingiustamente. - La regina manda subito alcuni servi al Messico per la statua, i quali pochi giorni dopo ritornano con essa e la consegnano all’Elisa.

Intanto viene a casa dalla guerra il re, e cominciano le grandi feste per le nuove nozze. Una sera il re piglia in disparte la madre e le domanda cos’abbia fatto dell’Elisa, e la regina gli risponde: Senti, figlio mio: a me non resse l’animo d’uccidere quella povera giovane, che io credo innocente del tutto. Ho disubbidito al tuo comando, ma tutto, vedi, per il tuo meglio. Ora la tua buona sposa è chiusa in un appartamento del palazzo, e in sua compagnia non ha che una statua di bronzo. E quella statua di bronzo è un suo antico servitore, perchè tu devi sapere questo e questo. - E qui punto per punto gli contò la storia a lei narrata dalla giovane Elisa. Il re, all’udir sì strane notizie, non sa che dire nè che fare. Solo prega la madre che lo conduca all’appartamento della moglie, perchè egli vuole vedere che mai faccia l’Elisa là dentro sola con quella statua.

La madre lo condusse, e, appena il re ebbe accostato l’occhio a un buco dell’uscio che metteva alla stanza della sposa, la vede inginocchiata innanzi alla statua di bronzo. Poi sente, con sorpresa, il seguente discorso:

Diceva l’Elisa: Non è vero, statua di bronzo, che tu una volta, mentr’io ero bambina, mi venisti a pigliar a scola, e la mia maestra ti disse che m’avrebbe condotta a casa lei in persona?

E la statua, dopo queste parole, mandò un suono che pareva volesse spezzarsi.

- No, o statua di bronzo, continua l’Elisa, - non ispezzarti, te ne prego, prima ch’io t’abbia interrogata in tutto e per tutto. Tu mi fosti sempre fedele servitore. Di’ su dunque, non è vero che quella mia maestra, per vendicarsi d’una innocente curiosità, mandò un fulmine che distrusse la reggia del mio padre e tutti con essa che v’eran dentro, salvo me sola?

E la statua: crac; e in qualche punto d’essa cominciavansi a scorgere delle screpolature.

- No, non ispezzarti, o statua di bronzo; io vo’ narrarti quanto m’è successo dopo quella disgrazia. Per alcuni anni vissi elemosinando di porta in porta nel mio regno. Poi ebbi vergogna di questa misera vita e venni in Francia e mi allogai presso un fornaio come serva, e qui era felice. Ma non ancor contenta di perseguitarmi, la mia maestra fece tanto che fui cacciata da quella casa come ladra. Trovai ancora un pietoso filatore di seta che mi raccolse in sua casa, e di qui pure, sempre per l’odio di quella strega, fui cacciata come ladra.

E la statua: crac.

- No, o statua di bronzo, non ispezzarti, te ne prego, prima d’aver intesa l’intera mia vita, tutta, tutta. Poi, sappi, io entrai come serva nelle cucine del re. Un giorno il re mi vide, s’innamorò di me, e poco dopo mi volle per sua sposa. Andato lui alla guerra, quando io fui vicina al parto, venne ancora a me la maestra, e volle a tutta forza esser la mia levatrice. E quando diedi alla luce due bambini, un maschio e una femmina, me li trafugò, e in loro scambio mise nel mio letto due cagnolini.

E la statua: crac.

- No, o statua di bronzo, non ti spezzare, te ne prego. L’ingrato mio sposo, appena seppe del mio parto, comandò ch’io fossi chiusa tra due muri, e qui lasciata morir di fame. Ma la regina sua madre, che m’ha sempre voluto il maggior bene del mondo, non ubbidì al comando del figlio, e mi confinò in questo remoto appartamento.

E la statua: crac.

- No, o statua di bronzo, non ispezzarti, ti scongiuro; aspetta ancora un poco che la mia storia sia terminata. Ora, il mio ingrato sposo vuol prendersi un’altra moglie, e già di qui sento gli apparecchi che si fanno per le feste. Io non posso tollerare più a lungo d’esser tormentata. Ho sofferto anche troppo, ed oramai ho deciso di togliermi la vita.

A quest’ultime parole la statua diede due o tre crolli, e poi cadde tutta in frantumi a’ piedi della sventurata giovane.

L’Elisa aveva già alzato un coltello per uccidersi, quando il re apre in un tratto l’uscio e le strappa di mano il coltello. Poi rivolto alla statua, disse: Tu, o statua, ch’eri pur di bronzo, non hai potuto reggere alla narrazione di tante sciagure, e lo potrò io, che non ho poi il cuore di bronzo? - Detto questo, prese l’Elisa per mano, e la condusse innanzi alla regina madre, e qui le domandò perdono dei torti che le aveva recati, e la riconobbe di nuovo per sua sposa.

E non contento di questo, pensò anche di liberarla per sempre dalle persecuzioni della maestra. Siccome sapeva che a costei piaceva la musica, così raduna una banda di suonatori, e con essi s’avvia alla capitale del Messico. Giuntovi, si ferma innanzi alla casa della maestra, e i suoi cominciano a suonare allegramente. La vecchia strega, che forse credeva si volesse fare una serenata proprio a lei, esce di casa per ringraziare i suonatori. Aveva uno per banda i due bambini dell’Elisa, che ormai s’erano fatti grandicelli e che parevano due angioli. Il re, appena la vede, la fa pigliare e gettar in un fiume. Si prende quindi i due ragazzini, e li conduce alla sua buona Elisa, la quale quasi morì di gioia al vedere la bellezza angelica de’ suoi figli, l’uno dei quali aveva i capelli d’oro, l’altra una stella in fronte.

Commento

Storia di una lunga vendetta ai danni della povera protagonista. Curiosamente, all’inizio sono in due a commettere l’infrazione ai danni della cattiva di turno, ma una delle due colpevoli è dimenticata e sparisce subito dalla scena, senza subire in apparenza alcun castigo. Succede.

Che la maestra-strega scelga proprio il giovedì per le sue misteriose sparizioni ha un suo senso. In diverse zone d’Europa il giovedì è collegato nel folklore e nelle storie ai raduni di streghe e alle stregonerie in generale. In Estonia, per esempio, è di solito il giovedì notte che le streghe si radunano ed è sempre il giovedì notte in cui si compiono rituali di magia nera (per tre settimane consecutive, in genere), mentre i benandanti friulani si recavano in volo magico alle loro battaglie estatiche proprio il giovedì notte delle quattro tempora. In questa fiaba non avviene di notte, vero, ma forse è solo per esigenze narrative: le ragazzine sono a scuola solo di giorno, dopotutto.

La vespa che entra nella bocca della maestra-strega è probabilmente la sua anima, che era uscita dal corpo per recarsi a qualche raduno o per altre attività magiche. Abbandonare il proprio corpo sotto forma di animale o insetto è comune a molte tradizioni sciamaniche, dopotutto, ed è un tratto che ritroviamo spesso anche nel folklore in generale, spesso (ma non solo) legato al motivo del sabba. Sotto questo aspetto, la fiaba mantovana si allinea con una tradizione comune a molte altre regioni di Europa. Ma passiamo oltre.

Come spesso accade nelle fiabe, la protagonista è vittima del classico scambio di bambini: quando partorisce, i suoi figli sono fatti sparire e sostituiti con due animali. Un particolare curioso è che la regina suocera consola la nuora dicendole che partorire animali è una cosa che può capitare e non è il caso di prendersela troppo. Su queste basi si potrebbe forse ipotizzare che la fiaba sia nata in un tempo molto remoto, quando animali e umani erano ancora indistinti nell’immaginario comune, ma balzi speculativi di questo tipo li lascio molto volentieri ad altri. Consideriamola semmai una bugia bianca per consolare una donna chiaramente sconvolta.

In altre storie con scambi simili, però, alla fine troviamo una nota di realismo, con un qualche personaggio che fa notare al marito boccalone come sia assurdo che una donna umana possa partorire cani, gatti e animali assortiti, e la colpa è sua per averci creduto e aver punito la moglie per una colpa che le sarebbe stato impossibile commettere. Qui invece il parto animalesco è presentato come normale, o almeno plausibile, e non è mai messa in dubbio la sua possibilità. Dettagli, per l’appunto, ma piuttosto curiosi.

I luoghi sono usati senza alcun realismo, semplici nomi gettati qui e là per evocare paesi lontani e fantastici. Una ragazzina va a piedi dal Messico alla Francia, senza navi? In pochi giorni vanno dalla Francia al Messico e ritornano con la statua? Licenze poetiche, chiaramente. Succede di continuo nelle fiabe, ma è sempre piuttosto buffo incontrare episodi di questo tipo.

Possiamo tuttavia sottolineare come in questa fiaba i personaggi principali, nel bene e nel male, siano tutte donne: l’eroina, la suocera benevola e la strega cattiva. Il re c’è, ma il suo ruolo è più che altro quello di un soprammobile: serve ai fini della storia, ma più che agire è capace solo di reagire a quello che le altre gli combinano attorno, lasciandosi menare qui e là come una banderuola. Che il nucleo della fiaba risalga a epoche pre-patriarcali? Altra speculazione che lascio volentieri a chi si diverte con questi balzi di fede.