Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 56

In una stanza singola e ben protetta di una clinica privata poco fuori città, in un’area tranquilla della regione Nordamericana, il dottor Leonardi dormiva un sonno farmacologico e senza sogni, almeno per quanto si poteva ipotizzare basandosi sulla sua espressione. L’ultima volta che si era concesso il lusso di un periodo prolungato a letto era stato sempre in un ospedale, ma alcuni anni prima, quando a collassare e richiedere interventi urgenti di riparazione era stata una porzione differente del suo organismo. L’ultima volta che si era voluto concedere un periodo di permanenza a letto superiore al minimo indispensabile, invece, era forse stata raffigurata nelle pitture rupestri di qualche uomo di Cro-Magnon, come dicevano alcuni dei suoi dipendenti più spiritosi, ma solo dopo essersi assicurati che il dottore non fosse in condizioni fisiche o tecnologiche per poterli sentire.

Fosse come fosse, adesso Leonardi era ricoverato, fresco di operazione e fuori dai giochi almeno a breve termine, con una opzione per rimanerlo anche a lungo termine, nel caso che. Cosa ci potesse essere dopo il “che” era solitamente lasciato nel vago, magari accompagnandolo con una generosa manciata di puntini di sospensione e pause significative nel discorso, ma era più o meno nella mente di tutti e nei sogni di alcuni. In fondo era vecchio, Leonardi. Quasi centodieci anni. Era rattoppato fino ai limiti del buonsenso, oltre che del buongusto. Gli avevano appena sostituito quattro metri di intestino, questa volta. Cosa gli restava ancora di originale? Il cervello? La bastardaggine? Se mai gli fosse dovuto succedere qualcosa (badando bene a non specificare il cosa, ma lasciandolo intuire con un gioco di trasparenze da concorso di miss maglietta bagnata), sarebbe stata una gran tragedia, certo, un grave danno per il pianeta, un questo e quello, ma sarebbe stata anche ora, che diamine!

Pure, non succedeva. Leonardi si era avvinghiato alla vita con tutta la pervicace ostinazione di una cozza e niente pareva poterlo staccare dal suo scoglio preferito, nel palazzo dell’Ufficio. O se anche lo potevi staccare, era solo in via del tutto temporanea e su un piano puramente fisico: l’essenza di Leonardi, qualunque potesse essere, non avrebbe mollato mai la poltrona reale e alcuni accettavano già scommesse sulle probabilità che il suo spettro avrebbe infestato il palazzo, se mai il vecchiaccio malefico fosse morto davvero. Ipotesi che nessuno aveva mai preso sul serio, almeno negli ultimi trent’anni, anche se la natura sembrava voler ricordare di continuo che nessun umano era eterno e di certo non lo era chi aveva ormai passato il secolo di vita. Ma Leonardi resisteva.

Come si fosse giunti all’ultimo ricovero era un esempio dell’approccio del dottore al problema della fragilità dell’esistenza e della impermanenza di tutte le cose, un approccio che si poteva riassumere in un motto: “tutto questo non esiste”. Per mesi aveva sofferto di dolori addominali, prima leggeri, poi sempre più acuti, ma Leonardi li aveva ignorati con tutta l’ostinazione di un blocco di marmo in caduta libera e in parte la stessa intelligenza. Li aveva soffocati con antidolorifici, azzittiti con altri medicinali, si era girato dalla parte opposta quando non volevano tacere, aveva continuato a essere in ufficio ogni giorno alla stessa ora, ossia poco dopo l’alba, e in generale si era comportato come se i mali del suo corpo non fossero un problema suo. Il che, da un certo punto di vista, poteva almeno in parte essere vero, dato che nel suo corpo le parti soggette a dolore fisico diminuivano sempre più col passare del tempo e la frequenza dei rattoppi. Ciò che ancora rimaneva composto da carne, e da carne umana e naturale, manteneva però tutte le necessità e i difetti propri degli organismi biologici, inclusa una fastidiosa tendenza a danneggiarsi e ammalarsi. Leonardi si era rifiutato di accettarlo.

Non c’era tempo per essere malato. Grandi cose si preparavano. Pessime cose. Svarga aveva ripreso a fare il furbo. I mondi coloniali stavano di nuovo cambiando atteggiamento verso la Terra. C’era ostilità nell’aria, ma soprattutto nelle immense distese prive di aria che costituivano il nulla dello spazio nell’immaginario comune. C’era questo e c’era quello. E lui, Leonardi, era l’unico uomo che potesse affrontare tutti i problemi e superarli, testa alta e prora che dominava le onde più impervie. Nessuno avrebbe mai potuto prendere il suo posto, o così amava pensare. Così doveva pensare, forse, per giustificare al cospetto di se stesso tutto ciò che faceva. Dettagli. Ma era in ufficio e lavorava al casino che aveva combinato quel cucciolo di planetologo, che credeva di avere scoperto strutture organiche al centro di due giganti gassosi nel sistema solare di Madre.

Strutture organiche! Quel ragazzino non aveva la minima idea di cosa avesse trovato ed era meglio che continuasse a non averla. Meglio per lui e per altri. Non era del tutto stupido, però: Leonardi aveva appena ricevuto un messaggio da Svarga, un comunicato in cui quel bambinotto annunciava di accettare la richiesta dell’Ufficio e dichiarava che non avrebbe pubblicato la sua scoperta. Buon per lui. La gioventù era un male, ma forse era un male da cui si poteva guarire, con impegno e un poco di buona volontà. Quel planetologo alludeva anche a un possibile scambio, una trattativa, io ti nascondo la scoperta come vuoi e in cambio tu mi permetti di continuare le ricerche sul campo, ed era giusto, era legittimo: essere ambiziosi e cercare di arraffare il più possibile erano approcci alla vita che Leonardi non avrebbe mai biasimato. Dimostravano una certa dose di spina dorsale, pur se accompagnata a una grande dose di incoscienza. Ma c’era materiale grezzo su cui lavorare e chissà, magari anche qualcosa di utile da ricavarne.

Aveva avuto solo il tempo per cominciare la risposta, quando la fitta di dolore addominale lo aveva spedito in tribuna, ad assistere alla vita da una prospettiva privilegiata, certo, ma anche fuori campo. Il male era la sola cosa che avrebbe ricordato, in seguito: il crampo, lo spasmo, come se qualcuno lo avesse infilzato con un martello pneumatico rovente, nonché in funzione. Poi, il nulla.

Lo aveva trovato il direttore George Gemelos, entrando come ogni mattina per ricevere da Leonardi il copione da recitare per quel giorno. Lo aveva trovato collassato sulla scrivania, privo di sensi, per lo meno, ma forse anche. Forse anche. Neppure nel segreto della propria mente Gemelos avrebbe osato un passo in più, per avvicinare il pensiero che. Ma no, troppo pericoloso, troppo bello. Erano arrivati i soccorsi, poi il ricovero nella clinica privata dell’Ufficio, l’operazione, la sostituzione di una bella fetta di intestino, o un bel rotolo di intestino, se l’immagine risulta più gradita, e adesso il nostro dottor Leonardi dormiva, imbottito di farmaci e lontano da tutto. Vivo, ma incosciente. Con quel behemot di lavoro che si accumulava, in attesa della sola e unica persona nella galassia che lo sapesse svolgere come si doveva.

La porta si aprì in silenzio ed entrò il ministro Andrea Hass, passo leggero e piedi racchiusi nelle calzature bianche e ridicole da personale ospedaliero. Ridicole dal suo punto di vista, almeno: gli ricordavano sempre le ciabatte che sua nonna amava indossare in casa, soprattutto negli ultimi anni di vita, ed era convinto che non sarebbe mai riuscito ad associarle ad alcuna attività lavorativa, se non a letti da rifare e bagni da pulire. Attività lavorative che riguardavano ben poco un ministro, ex militare e comandante di nave. Ma le regole erano regole e lui le osservava sempre, quando poteva. Lo avevano educato così e il servizio militare aveva provveduto a martellare e rinforzare eventuali punti deboli nella sua educazione. Calzature speciali erano richieste e calzature speciali lui avrebbe indossato. Ma non era lì per pensare alle scarpe. Era lì per pensare alla vecchia ciabatta.

La vecchia ciabatta dormiva, come si diceva. Magro, consumato e incartapecorito, nel bianco delle lenzuola da ospedale il suo volto sprigionava tutta la salute di Tutankhamon, dopo che archeologi tombaroli ne avevano disseppellito i resti. «Perché non crepa?» si chiese Hass, come sempre non si poteva trattenere dal pensare, quando vedeva Leonardi, soprattutto se era in un ospedale. Ma lui non crepava, fedele nei secoli all’antico motto sull’erba grama.

Oltre a non crepare, non si sarebbe neppure svegliato ancora per qualche giorno. Il medico con cui aveva parlato appena prima di entrare nella stanza gli aveva spiegato che lo avrebbero mantenuto in stato di coma farmacologico per tutta la prima fase post-operatoria, così da risparmiagli almeno la parte peggiore e più dolorosa del percorso di guarigione. Proprio così lo aveva chiamato: percorso di guarigione. Hass avrebbe avuto parecchio da commentare in proposito, ma si era astenuto. Non ne valeva la pena e poi non gli importava granché. Avrebbe preferito un Leonardi pronto e reattivo, per chiudere in fretta la questione di Svarga e dell’eventuale causa alla fondazione, ma anche avere un Leonardi fuori combattimento e incapace di agire sarebbe tornato comodo. Molto comodo.

Ripensando poi all’ultima discussione che avevano avuto, poco prima del collasso del vecchio, non sarebbe bastato tenerlo fuori combattimento per un poco: l’unica mossa sicura sarebbe stata quella di metterlo fuori combattimento in via definitiva e irreversibile. E forse non sarebbe stato ancora sufficiente, se era già passato dal pensiero all’azione. Sì, probabilmente era successo. Stupido anche solo pensarlo, ma se qualcuno poteva pensarlo, quel qualcuno ce l’aveva proprio davanti. Era anche la stessa persona che poteva farlo. Che lo avrebbe fatto, di corsa e senza esitazioni.

Con un sospiro, Hass sedette accanto al letto, fissando il vecchione. Era esistita forse un’epoca in cui anche Leonardi era stato giovane e pieno di speranze, ma ormai nessuna persona ancora in vita la poteva ricordare. Ormai Leonardi era solo il vecchio dietro la scrivania, che ordina, che impone, che decide, che accoglie su di sé tutto l’odio di chiunque sia mai stato costretto a lavorare per lui, o più precisamente sotto di lui. Chissà che cosa aveva sognato, da bambino. E chissà se lo aveva mai ottenuto, in un qualche modo. Forse sì, forse no. Aveva però ottenuto molto, anche se forse non ciò che desiderava, e quel molto ancora non gli bastava. Perché aveva puntato più in alto, durante il loro ultimo colloquio, nell’ufficio con vista sulla città, dove Leonardi si annidava.

Era stata una delle poche, pochissime occasioni in cui avevano parlato senza giri di parole di quello che era successo negli abissi di Madre, durante la seconda spedizione. Non che lo nascondessero, di solito. Il pensiero della esperienza che avevano condiviso aleggiava sempre davanti a loro, in ogni scelta che facevano, nel modo in cui si comportavano. Ma parlarne? Ricordare quelle ore? No, non era necessario, come non è necessario ricordare il naso che è sempre al centro del tuo campo visivo e da lì non si schioda, a meno che tu non usi le maniere forti. Ma quel giorno ne avevano parlato ed era stato proprio Leonardi a cominciare.

Un Leonardi dal corpo ormai vicino al collasso.

«Dovresti farti ricoverare,» aveva osservato Hass, quando il vecchio davanti a lui aveva inghiottito un altro antidolorifico, accompagnandolo con una smorfia che non parlava di buona salute e futuri luminosi. «Prima ti togli il pensiero e meglio è.» Prima ti togli dalle palle e meglio è, era quello che gli avrebbe voluto dire realmente, ma non poteva: diplomazia, pazienza, qualcosa del genere. Certe cose sono anche giuste da pensare, ma esprimerle a voce può causare gravi problemi.

«Operarmi non è l’unica strada,» aveva risposto Leonardi, senza fissarlo negli occhi.

«Non capisco a cosa ti riferisci,» aveva mentito Hass, che in realtà capiva benissimo, ma preferiva non farlo. C’erano brutte idee nelle ombre di quella comprensione, figure che aveva già visto e che non aveva fretta di rivedere, grazie. Anche perché le aveva di fronte tutti i giorni, da un certo punto di vista. Un punto di vista che era stata una pessima idea.

«Madre. Il cuore di Madre.»

Hass non aveva risposto.

«Potrei tornarci, stavolta di persona,» aveva continuato Leonardi, una voce piatta e non proprio la sua, anche se da un altro punto di vista lo era, ovviamente. Di chi mai sarebbe dovuta essere la voce che gli usciva dalla bocca? Lui era burattinaio, non burattino. «Contattare il nostro ambasciatore, là sotto, e farmi guidare nelle gallerie. Come hai fatto tu, con tua moglie.»

A quel punto Hass aveva risposto, anche se non proprio in modo amichevole, comprensivo o anche solo accomodante. «Sei pazzo se lo stai pensando. Ho fatto una cretinata e non c’è giorno che non me lo ricordi, quando torno a casa. Ma ero fuori di me. Se stai pensando di andarci deliberatamente, sapendo i risultati, allora...»

Leonardi aveva alzato una mano, rugosa e secca, cigolante di tendini artificiali. «Penso sempre alle possibilità che ho davanti. A tutte le possibilità, buone o meno buone. Questa è una possibilità ed è giusto considerarla, anche se non sono ancora del tutto convinto che sia una buona possibilità.»

«Se stai anche solo ipotizzando che possa essere una buona possibilità, allora sei pazzo.»

«Ma non mi pare che tu abbia eliminato i risultati, no? O sbaglio?»

Il ministro Andrea Hass era rimasto in silenzio, le mani strette sotto il bordo della scrivania, dove Leonardi non le poteva vedere. Doveva esercitare una notevole dose del proprio autocontrollo, per trattenere l’impulso di spegnere a colpi di nocche il sorriso da rettile che il vecchiaccio malefico gli rivolgeva. E forse ci sperava. Forse quella mummia marcia ci contava davvero.

«Comunque penso che mi sottoporrò all’operazione,» disse infine Leonardi. «Le altre possibilità mi devono ancora convincere del tutto e ritengo che sia preferibile la strada sicura e collaudata, almeno per adesso. Gradirei prima risolvere questa storia dei giganti gassosi di Madre e assicurarmi che il ragazzino tenga il becco chiuso, prima di passare da un ospedale: non mi fido di come la potrebbero gestire Gemelos e Vihersalo, quei due inetti. Non mi fido soprattutto di te.»

«Ne sono lusingato. D’altra parte, neppure io mi fido di te.»

«Giusto. Ma Madre non si tocca e qui vincerò io. Puoi starne sicuro. Anche se tu hai cambiato idea, perché ti sei comportato da stupido, Madre non si tocca. E il programma andrà avanti.»

Hass non aveva replicato allora e non avrebbe replicato adesso. Non ne aveva bisogno. Leonardi si era messo fuori gioco da solo, almeno temporaneamente, ma temporaneamente poteva essere tutto ciò che gli serviva. La questione dei giganti gassosi aveva trovato una propria soluzione, una che il vecchione non avrebbe certo apprezzato, ma una con cui avrebbe dovuto convivere, che gli piacesse o meno. Il segreto era fuori e presto tutti i modi coloniali avrebbero chiesto maggiori informazioni, avrebbero insistito per saperne di più, per analizzare e investigare l’anomalia di Madre. Come era giusto che fosse, dopotutto. Leonardi avrebbe cercato di insabbiare, coprire, deviare, ma sarebbe stato inutile, a quel punto. Ci era riuscito col campo magnetico di Madre, finora, ma non ci sarebbe riuscito coi giganti gassosi. Sì, operazione e ricovero erano arrivati proprio al momento giusto.

Il che era ottimo, per lui. L’accesso diretto ai pozzi gli era precluso, adesso che il governatore Rossi ne aveva assegnato la giurisdizione al generale Petkovic, che apparteneva come lei al “partito” di Leonardi, togliendola a Staplewood, che era invece fedele a lui, il suo vecchio comandante. Cambio di guardia che era avvenuto dopo il suo ultimo viaggio su Madre, quello da cui era tornato con una figlia al posto di una moglie. Cambio che soprattutto era avvenuto dopo che Hass aveva cominciato a esprimere dubbi sulla bontà del progetto e aveva parlato a Leonardi della necessità di coinvolgere gli altri pianeti, finché la situazione era ancora sotto controllo.

Perché la situazione era ancora sotto controllo, giusto?

Hass non lo sapeva, ma lo sperava, anche se i giganti gassosi non erano una buona notizia. Ma forse non c’entravano nulla, forse erano storia vecchia, già in corso molto prima che i terrestri avessero raggiunto Madre. Qualcosa stantio da millenni, magari milioni di anni. Forse. O forse no.

Guardò Leonardi, grigio e secco in un letto stretto e bianco. Era potente, potente come una tenia, o come un batterio che non riesci a debellare, un virus che muta in continuazione, attaccando sempre nuovi soggetti, sfidando ogni cura, ogni terapia. Ma era debole, adesso: debole e indifeso. Oh, certo, aveva guardie davanti alla porta, ne aveva altre sparse più o meno ovunque nell’edificio, perché era una clinica privata dell’Ufficio e solo membri dell’Ufficio o personale autorizzato potevano entrare.

Ma adesso lui era lì, da solo col vecchio. Da solo con un corpo mezzo artificiale e mezzo avariato, immerso in un sonno di farmaci, incosciente, impotente, inerte. Ed era forte, Hass. Non forte come quando aveva trent’anni e serviva sulle navi militari, vero, ma più che a sufficienza per sistemare un ultracentenario ospedalizzato. Quanto sarebbe stato difficile fare un favore al mondo, all’umanità e forse alla galassia? Quanto sarebbe stato difficile liberarsi per sempre di Leonardi? Difficile quanto soffiarsi il naso, almeno se si parlava del corpo fisico che aveva davanti. Assicurarsi che rimanesse morto, però, era tutto un altro discorso.

Conservava diverse copie della propria personalità, Leonardi, e le aggiornava regolarmente. Quasi ogni giorno, adesso che il suo corpo peggiorava sempre più in fretta, forse in caduta libera verso la dissoluzione finale. In teoria avrebbe potuto continuare a controllare l’Ufficio usando quelle copie, morto il corpo; in pratica ci sarebbe stato un lungo strascico legale, ma le probabilità che avrebbe vinto il vecchiaccio erano alte, molto alte. Senza contare poi l’eventualità che Leonardi avesse già cominciato a lavorare anche all’altro progetto per mantenersi in vita, quello che passava per Madre. Era un’idra della leggenda: tagliare una sola testa non sarebbe bastato. Bisognava troncarle tutte in un colpo solo. O qualcosa del genere: non ricordava bene le leggende.

Hass si alzò e risistemò con cura la sedia. Schiacciare il vecchio era una tentazione, dolce, ma era anche un pensiero inutile. Dannoso, forse. Non era così che lo avrebbe fermato. In parte perché non sarebbe bastato, ma in parte anche perché lo voleva battere sul campo, non pugnalare in imboscate. Forse stava buttando via una opportunità più unica che rara, ma pazienza. Avrebbe vinto giocando pulito. Moderatamente pulito, almeno. Non così sporco da doversene vergognare allo specchio. Che poi non fosse sua abitudine passare molto tempo davanti allo specchio era un altro paio di maniche e non aveva alcuna rilevanza, giusto? Sul lungo termine, dico.

Uscì, lasciando la camera come l’aveva trovata. Ricordò al personale della clinica di avvisarlo, se ci dovessero essere cambiamenti, poi recuperò la sua scorta e ripartì verso la sede del ministero. Una giornata di lavoro lo attendeva e Hass l’affrontò con lo spirito e l’entusiasmo di una medusa lasciata ad asciugarsi del centro della spiaggia. Tutto tranquillo sul fronte interno, tutto tranqullo sul fronte esterno, pianeti pacifici tra di loro anche se a volte un poco burrascosi dentro casa, specie i posti con molte teste calde e poche teste piene, come Varuna, ma la galassia sembrava in pace, nonché più che disposta a rimanerlo, almeno a breve termine.

E a lungo termine? Molto dipendeva da come si sarebbe risolta la questione di Madre. E da cosa il caro dottor Leonardi avrebbe deciso di fare. Un pianeta chiave sarebbe stato sicuramente Agni, il mondo più vicino a Madre, il mondo che forse aveva già avuto contatti con Madre, in un passato sì lontano, forse non a sufficienza. Se l’idea che Hass si era fatto era giustificata, se il proseguimento degli studi sui giganti gassosi (e non solo) avrebbe dato i risultati che pensava lui, allora la pace non sarebbe durata a lungo. Meglio godersela finché si poteva, dunque.

Peccato che a fine giornata dovesse sempre tornare a casa.

Era stato un posto piacevole, un tempo: un piccolo appartamento in città, abbastanza vicino al posto di lavoro, in una zona dove erano molti i militari e i navigatori affiliati all’esercito. Colleghi, in gran parte, quasi tutti conoscenti con cui scambiare due parole quando li incrociavi per strada, magari un paio di amici con cui bere alla fine del turno, o al ritorno da un viaggio. Niente di esagerato, niente di speciale, ma tranquillo. Normale.

Era normale e tranquillo anche lui, ai tempi. Militare in carriera, che aveva raggiunto presto il grado di comandante grazie a un incrocio di fortuna, bravura e abilità di leccare, doti che quasi sempre si collocano alla base del successo in ogni tempo e in ogni campo. Aveva una moglie, navigatrice, che come da tradizione lo accompagnava in ogni missione in cui il comando era assegnato a lui. Coppie composte da navigatore e comandante erano comuni, quasi la norma, e si erano dimostrate valide in ogni possibile combinazione di generi. Si era dimostrata valida anche nel loro caso, per questo li avevano scelti per la seconda spedizione su Madre: il comandante Andrea Hass e il navigatore Paula Khavronina, sua moglie. Una spedizione a cui aveva partecipato anche l’allora Direttore Leonardi, per l’occasione sotto forma di coscienza in scatola.

Tutto bene all’andata, tutto bene al ritorno. Nel mezzo, la permanenza sul pianeta. Paula non aveva mai lasciato la nave, in orbita geostazionaria attorno a Madre, come era regola per ogni navigatore. Andrea Hass era sceso sulla superficie, era sceso sotto la superficie, aveva accompagnato Leonardi fino alla fine. Aveva visto. Sentito. Collaborato alla decisione. Quando il Direttore aveva proposto l’avvio del progetto di colonizzazione, Hass aveva dato il proprio assenso. Pur sapendo.

Era stata una scelta facile, al momento. Quarantenne ambizioso, una carriera già buona e che voleva vedere crescere e fiorire il più possibile, Hass aveva fiutato che una saggia obbedienza al Direttore dell’Ufficio per la Colonizzazione lo avrebbe spedito verso le stelle, anche metaforicamente. Aveva avuto ragione. I dubbi erano arrivati poi, al ritorno sulla Terra e nel corso delle missioni successive, ma a quel punto non contavano più, era tardi ed era nel complesso molto più semplice fare finta di niente e pensare che comunque tutto si sarebbe concluso bene. Un uomo come Leonardi aveva una esperienza che si misurava in decenni e nel proprio curriculum poteva vantare anche i Trattati coi mondi coloniali, alla cui stesura e firma aveva collaborato dal primo minuto. Un tizio del genere ne sapeva certo più di un semplice militare, giusto?

Non era sembrato più così giusto quando lui e Paula erano partiti per quella che sarebbe stata la loro ultima missione su Madre. Hass aveva già deciso di lasciare l’esercito e passare alla scrivania, dove lo attendeva un comodo ufficio con vista sul governo planetario e una rete di amicizie che Leonardi lo aveva aiutato a costruire nel corso degli anni. La politica non gli era mai interessata molto, da giovane, ma adesso ne cominciava a vedere i possibili vantaggi e l’idea di aprirsi uno spazio anche in quel nuovo mondo lo attirava. Il governo era solo un pro forma, secondo Leonardi, e non serviva una reale competenza in un certo campo per essere eletti: bastava saper piacere al pubblico votante, parlare bene, farsi ascoltare meglio e insomma occuparsi dei rapporti interpersonali, che a gestire il funzionamento vero e proprio del pianeta avrebbero pensato soggetti più seri e affidabili, come le reti neurali artificiali, che potevano valutare e calcolare in un modo più serio, accurato e imparziale di qualsiasi altro essere umano mai esistito, e non soffrivano neppure di tutti quei fastidiosi squilibri ormonali, meglio noti col termine colloquiale di “emozioni”.

L’ultimo viaggio su Madre doveva essere una sorta di luna di miele tardiva, con Paula che si era sempre lamentata perché a lei toccava restare in orbita e non aveva mai potuto vedere il pianeta. Se era l’ultima volta, si poteva anche fare uno strappo alla regola, no? Tanto più che avevano portato un navigatore di riserva in più, rispetto al solito. Poi Andrea Hass avrebbe appeso la divisa al chiodo e si sarebbero comprati una villetta fuori città, come Paula chiedeva da tempo. Avrebbero pensato anche ad allargare la famiglia, se possibile, una volta chiuso coi viaggi tra le stelle.

Tutto questo era successo, da un certo punto di vista. Peccato che fosse un pessimo punto di vista.

Perché dall’ultimo viaggio l’ormai ex comandante Hass non era tornato assieme a Paula sua moglie, ma assieme a Paula sua figlia, una neonata senza madre. Paula sua moglie, Paula Khavronina, era ufficialmente morta per complicazioni poco dopo il parto. Che nessuno avesse notato prima lo stato di gravidanza del navigatore era curioso, vero, ma in fondo poteva succedere, no? Non era il primo caso nella storia dell’umanità. Altre donne avevano saputo nascondere una gravidanza, per scelta o per conformazione fisica. E poi i tempi tornavano: la missione era durata più del previsto, Paula non si era sentita bene in alcune occasioni, aveva anche contattato il medico di bordo e insomma sì, ok, era un poco strano, ma nel complesso tutto si poteva spiegare, no? Dico, se ci pensi bene.

Hass non era mai sceso nei dettagli, né durante il viaggio né al ritorno. Aveva risposto, annuito, non spiegato, alzato le spalle. E se aveva trascorso molto tempo nella base militare presso l’ascensore vecchio, quello installato durante la seconda spedizione, non era poi così anomalo. Lo conoscevano tutti, lì. Aveva amici, lì. Aveva ex sottoposti che gli erano ancora molto fedeli, come Staplewood. E se al ritorno sulla Terra era sembrato una persona cambiata, quasi invecchiata, beh, era normale, no? Sua moglie era appena morta e avevano vissuto e lavorato assieme per quasi trent’anni: chi poteva biasimarlo se adesso era depresso e non ne voleva parlare? Era solo umano.

Ma con qualcuno ne aveva parlato. Con Leonardi, che allora non era più Direttore dell’Ufficio, ma di fatto lo controllava ancora, come probabilmente avrebbe continuato a fare fino alla morte o al forzato spegnimento di tutte le sue copie virtuali. Si erano incontrati due giorni dopo l’arrivo sulla Terra e Hass aveva parlato. Aveva anche manifestato per la prima volta i dubbi sulla bontà della loro decisione di abitare Madre. Leonardi aveva spazzato i dubbi e dimostrato un grande interesse per la neonata, la piccola Paula Hass, della quale aveva insistito per essere padrino. Un gesto molto nobile secondo la pubblica opinione; un gesto da sciacallo secondo Hass, che però aveva accettato.

Erano passati quasi dodici anni, da allora. Hass viveva in una villetta fuori città, assieme alla figlia se non proprio assieme alla moglie, e la sua nuova carriera politica era andata benissimo, tanto da garantirgli un posto da Ministro della Difesa dopo le ultime elezioni. I dubbi su Madre erano rimasti e il tempo li aveva solo rafforzati, ma adesso aveva imparato anche un poco di diplomazia e non li avrebbe più presentati a Leonardi in termini così crudi e brutali, come aveva fatto al ritorno dal suo ultimo viaggio. Adesso parlava meno, ma agiva di più e tesseva di più.

Poi tornava a casa e la realtà lo colpiva con la delicatezza di una palla di granito nei denti.

Paula Hass era una brava bambina. Brava ragazzina, ormai: si sarebbe offesa a sentirsi chiamare una bambina, ora che andava per i dodici anni. O almeno si sarebbe dovuta offendere. Non si offendeva. Non reagiva mai molto, qualunque cosa succedesse. Non parlava neanche molto. Spendeva tutto il suo tempo a studiare, leggere, trafficare con mappe e testi di ogni tipo. La sola cosa che la sembrava entusiasmare erano i viaggi, esplorare la Terra, vedere nuovi posti, andare. Andare, sì. In casa era un soprammobile o quasi, ma bastava invitarla ad andare da qualche parte, magari per accompagnare il papà in una missione in un’altra zona della Terra, ed ecco che si accendeva, diventava viva.

«Tutta sua madre,» dicevano alcuni. «Diventerà un navigatore come lei.»

Hass si rattrappiva, come per un calcio nel basso ventre, poi abbozzava un sorriso e rispondeva nel modo più evasivo possibile. «Vedremo, chissà, cambiano tanto in fretta, sono piccoli.» Si sarebbe tranciato volentieri un braccio a morsi, piuttosto che vedere Paula Hass in cabina come navigatore, ma questo non lo poteva mica andare a dire a una manica di idioti over cinquanta che credevano di fare un complimento o essere spiritosi, no? Non era politico, né diplomatico. Quindi taceva.

Quella sera, dopo la visita a Leonardi e la giornata di lavoro, la trovò seduta a leggere, gli occhi fissi e smarriti nello schermo. La trovava quasi sempre così. Aveva la vivacità di un pesce morto da tre settimane ed era loquace più o meno allo stesso modo. Ma era normale. Clinicamente, almeno. Non una visita aveva mai riscontrato anomalie e Hass era ormai convinto che le anomalie della figlia non fossero del tipo che si poteva individuare con una visita, per quanto accurata e approfondita. Cosa si nascondeva dietro al caschetto di capelli color castano chiaro, quasi identici a sua madre? Forse lo poteva sapere soltanto un’altra madre. Non lui. E forse era meglio così.

«Sono tornato,» annunciò, nel caso qualcuno non se ne fosse accorto. Paula Hass continuò a leggere come se nulla fosse. Come sempre, del resto. D’altra parte, attirare il suo interesse era semplice: se le avesse annunciato un viaggio in una qualche città terrestre, per una inaugurazione, un congresso, un incontro con diplomatici o altro, Paula sarebbe balzata in piedi abbandonando qualunque lettura e si sarebbe comportata come una bambina normale. Più o meno normale. Come una bambina a cui è stato appena promesso un regalo fantastico, quantomeno. Perché era un regalo fantastico, per lei, farla viaggiare e mostrarle nuovi posti.

Hass aveva cominciato a pensare che fosse un buon motivo per portarla in giro il meno possibile, se si consideravano bene bene, ma proprio bene, il come, il dove e il quando fosse nata. Pure, restava sua figlia e non aveva cuore di sigillarla in casa, anche se forse ne avrebbe avuto cervello. E adesso Leonardi pensava di tentare anche lui la stessa strada, pur sapendo dove avrebbe portato.

Pazzo. Peggio che pazzo: pericoloso. E da fermare. Sempre che ci fosse ancora qualcosa che poteva essere fermato. La soluzione migliore sarebbe stata probabilmente accelerare la scoperta di tutto ciò che si poteva scoprire su Madre e il suo sistema solare: non sarebbe cambiato molto, ma avrebbe almeno dissipato la cortina fumogena che lui aveva contribuito a creare. Einarsson da Svarga aveva annunciato la partenza del planetologo, quello Stratos, e in un paio di settimane al massimo sarebbe stato di nuovo all’Ufficio, pronto e carico per insistere che organizzassero uno studio diretto dei due giganti gassosi, usando tutte le tecnologie disponibili e forse anche molte che non erano disponibili, ma che lui immaginava esistessero già. Leonardi avrebbe preso tempo, rinviato, lasciato che fosse il molle Vihersalo a sopportare l’impazienza del giovane. Avrebbe ceduto? Probabilmente sì, alla fine. Lo studio diretto ci sarebbe stato, ma nessun risultato sarebbe uscito dall’Ufficio.

Si era perso nel magico mondo incantato della sua mente, Hass, e lo aveva fatto proprio all’ingresso del salotto, dove la figlia leggeva e taceva. Pensava a cosa fare, dove andare, come incentivare di là e rallentare qui, come far salire quello trattenendo questo, eccetera eccetera, e non si era accorto che Paula aveva smesso di leggere e cominciato a guardare, guardare quel padre che non chiamava mai papà, ma sempre Andrea. Quando lo chiamava, beninteso.

«Andrea, è ora di mangiare.»

Hass precipitò di nuovo sulla terra, in caduta libera dal suo universo di elucubrazioni intracraniali. Paula era in piedi e lo fissava, con quel suo volto che era sì perfettamente normale, ma spesso anche perfettamente inespressivo. No, non proprio: indifferente era un termine migliore. Come somigliava alla madre! Il che era ridicolo da pensare, ovvio, ma Hass lo pensava lo stesso. Non poteva evitare.

«Hai ragione, papà deve essersi addormentato. Andiamo, è ora.»

Andarono e mangiarono. Andrea Hass chiese alla figlia come era andata a scuola. Paula rispose che era andato tutto bene. Hass chiese fosse stata la giornata in generale. Paula rispose tutto bene. Hass chiese se avesse bisogno di qualcosa. Paula rispose di no, tutto bene. Hass smise di chiedere e pensò a come erano i pasti quando la Paula davanti a lui non era la figlia, ma la moglie. C’era da piangere nel piatto. Perché era stato così stupido da accettare quell’ultima missione su Madre? Perché aveva permesso al navigatore di scendere sul pianeta? Perché alla fine aveva insistito con Staplewood per entrare di nuovo nei pozzi? Perché. Era l’unica risposta sensata, in fondo. Perché.

Più o meno nello stesso momento, ma in un ambiente parecchio diverso, il direttore Gemelos stava contemplando il futuro che lo attendeva. Come spesso aveva la tendenza a fare, quando si sentiva nervoso e nessuno era attorno, si accarezzava il ciuffo di barbetta incollato sul labbro inferiore, che gli conferiva tutta la gravitas e l’autorità di un clown con un grave attacco di dissenteria. Che poi il ciuffo di barbetta non fosse incollato, come poteva apparire a prima vista, ma cresciuto in un modo naturale, serviva solo a peggiorarne l’effetto generale. Nonostante la faccia, però, Gemelos era serio e preoccupato. Preoccupato per sé, ma anche per l’Ufficio in generale.

George Gemelos sarebbe stato il primo ad ammettere di non essere un buon direttore, ma non c’era bisogno di ammetterlo, perché glielo ricordavano già tutti quotidianamente, anche se di solito con lo sguardo e non con le parole. Il fatto era che non aveva bisogno di essere bravo, o anche solo decente nel suo incarico, perché il suo reale incarico era sorridere e annuire. Leonardi decideva tutto, poi lo convocava e gli riferiva le proprie decisioni. Gemelos sorrideva e annuiva, quindi eseguiva. Lavori di questo tipo non richiedono una particolare dotazione di cervello, no? Meglio ancora, richiedono una totale assenza di spirito di iniziativa. Esegui e non pensare. E non domandare.

Gemelos il cervello lo aveva, ma a latitare era lo spirito di iniziativa. Anni di servitù sotto Leonardi avevano aggravato una natura che, in origine, era solo blanda passività, contorcendola in una apatia quasi totale. In altre circostanze sarebbe forse potuto fiorire, diventando un normale essere umano, di spirito solido e decisione pronta; sotto Leonardi, Gemelos si era mitilizzato ed era svanito come persona autonoma, perdendosi negli ordini del superiore.

Che adesso non c’era più. Ricoverato in ospedale, in coma farmacologico, fuori uso, forse solo per un poco o forse addirittura per sempre (sempre! Avverbio orribile, incarnazione delle menzogne più abiette che l’uomo può concepire), ma l’Ufficio continuava a esistere e lui ne era il Direttore, il responsabile, colui che avrebbe dovuto prendere decisioni, dare ordini, gestire, dirigere, fare. Uomo del fare, che non faceva. E le notizie arrivate da Svarga peggioravano le cose. Una ricerca rubata da uno scienziato svarghiano, che aveva pubblicato a nome proprio il lavoro di un loro ricercatore, uno dell’Ufficio. Cosa fare? Fare causa, diceva Vihersalo. Ma come? Vihersalo non diceva più.

Toccava a lui, dunque. Potendo scegliere, Gemelos non avrebbe mai scelto di diventare il direttore dell’Ufficio per la Colonizzazione. O anche solo il direttore di qualche altra cosa. La sua idea di vita ideale non presupponeva il raggiungimento di alte cariche, posizioni visibili e bersagliabili. La sua idea di vita ideale presupponeva un sano vivere nascosto, nella pancia della società, dove nessuno ti nota e nessuno ti prende di mira. La sua vita reale era diventata più o meno il contrario dell’ideale, come spesso tende ad accadere e quasi sempre con una correzione in peggio.

Pure, direttore era il suo titolo e da direttore si sarebbe dovuto comportare, in assenza di Leonardi. E sperando di non causare troppi disastri al mondo o alla galassia. Con una mano che aveva assunto d’improvviso tutta la sensibilità di un casco di banane, Gemelos aprì la sezione del suo schedario in cui erano raccolti tutti i moduli per le pratiche legali. Setacciò la sezione relativa a reati e incidenti accademici, meditò per un poco se fosse più appropriato utilizzare come base la pratica per i casi di plagio o quella per i casi di furto, decise che nessuna delle due era proprio adatta e si rassegnò alla peggiore delle ipotesi, ossia dover compilare l’intero modulo da zero, con solo qualche traccia qui e là per guidarlo nell’impervio mare della burocrazia interplanetaria. Fortuna che il computer se ne intendeva più di lui e avrebbe integrato la maggior parte del documento, pescando nel formulario le frasi in burocratese più appropriate al testo.

Passandosi la mano sulla faccia e trattenendola un tempo sufficiente a nascondere alla sua vista la bruttezza del mondo circostante, il Direttore Gemelos si sistemò meglio nella poltrona dello studio, lo schermo che lo illuminava col profilo del documento da riempire. Respirò a fondo. Respirò un poco più a fondo. Sperando con forza di non commettere errori, ma sapendo che li avrebbe in ogni caso commessi, si schiarì la voce e cominciò a dettare, scandendo bene le parole, la denuncia che avrebbe aperto una faida tra l’Ufficio e la fondazione Chen-Cohimbra, per estendersi poi al governo dei due pianeti e ancora più in là, dove nessuna denuncia era mai giunta prima.

Il che poteva essere anche solo l’altro lato della strada, per quello che ne sapeva il povero Gemelos.