Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 18

Una tempesta irruppe nel bar, o pseudobar che dir si voglia, all’interno del centro culturale terrestre. Sbuffò, soffiò, pestò con forza il pavimento, spazzò i tavolini, poi prese la forma di Kemala Kexin e sedette di fronte a Matteo Kori, che al momento stava consumando un pacifico spuntino con alcuni dei suoi compagni di sventura, volontari terrestri che, come lui, lavoricchiavano in quel luogo. Lo spuntino proseguì, il pacifico no.

«Che cos’è questa storia della quarantena, adesso?» chiese la tempesta Kemala in un rombo di tuono, o in un tono che poteva anche essere considerato un rombo, se proprio si voleva continuare con la similitudine.

Matteo, grande osservatore come sempre, notò quasi subito che era di cattivo umore, ma non aveva idea di cosa stesse dicendo, come peraltro accadeva nel settantaquattro per cento dei casi, quando si trattava di Kemala. «Quarantena?»

«La quarantena su Madre, non l’hai sentita?»

«Ehm... no,» rispose Matteo, sospirando mentalmente. Che cosa aveva trovato, stavolta? Poteva solo sperare, contro ogni speranza, che non lo avrebbe coinvolto in ulteriori stupidaggini. Che lei si fosse fatta vedere era positivo, perché avrebbe avuto bisogno di parlarle di quel Baffo, nel caso lo avesse visto pure lei o almeno ne sapesse qualcosa, e invece eccola che si presenta con quella storia di una quarantena. Perché doveva succedere sempre così?

«Probabilmente la tua amica si riferisce all’ordinanza per limitare l’accesso di stranieri a Madre,» disse Steve Dingledine, seduto allo stesso tavolo. «Emessa a causa di una qualche contaminazione ambientale, non ben precisata. Ne hanno parlato un paio di giorni fa al notiziario.»

Kemala si girò verso di lui, come se si fosse accorta solo in quel momento della sua esistenza, il che era vero. Il tizio dai capelli rossicci, che aveva appena parlato, poi un altro tizio dai capelli neri e sudici, attorno a una faccia da sorcio, infine una tizia con una specie di insalata che le cresceva sulla testa. Ecco gli altri occupanti del tavolo. Niente di interessante, ai suoi occhi. «Sì, l’ordinanza per limitare l’accesso degli stranieri,» rispose. «O meglio, per impedire l’accesso degli stranieri. Dei lakshmiti, nello specifico.»

«C’è stata una ordinanza del genere?» chiese Matteo. «Come mai?»

«Sì, c’è stata,» gli rispose Kemala. «E il motivo è una fantomatica contaminazione ambientale, non spiegata e non precisata in alcun modo, come ha detto il tuo amico. Dove eri negli ultimi giorni, per non saperne nulla? Sotto un sasso?» Maelle ridacchiò.

«No, non ero sotto a un sasso. Ero a preoccuparmi, perché uno strano tizio, con baffi che sembrano zanne di tricheco, mi sta pedinando ovunque io vada e me lo trovo dappertutto, e sospetto che abbia qualcosa a che fare con lo stupido progetto in cui mi hai coinvolto e non vorrei finire nei guai, veri guai, grazie tante!» non le rispose Matteo. Invece, respirò a fondo, cercò di rilassarsi e si rifugiò in un più pacato e pacifico «Non seguo molto i notiziari.»

«Questo ha fatto molta notizia,» disse Roger Snyder, l’occupante del tavolo con la faccia da topo, «se mi perdoni un ignobile gioco di parole sui notiziari che fanno notizia. A ogni modo, se ne è discusso anche nelle zone dell’università più interessate a Madre: exologia e architettura, come puoi immaginare.»

«Letteratura non è proprio una zona interessata a Madre, per cui non ne ho sentito nulla. Comunque è una misura temporanea, no? Quindi non è un grosso problema, credo.»

Kemala lo avrebbe potuto friggere con lo sguardo. «Una misura temporanea, certo: indefinitamente temporanea. È specificato l’inizio, ma la fine è lasciata nel vago. Prima o poi finirà.»

«Misure di questo tipo sono inevitabilmente lasciate nel vago,» disse Steve. «Una contaminazione ambientale non si può sapere in anticipo quando rientrerà del tutto: intanto si bloccano le cause, o le cause presunte, poi si agisce per sistemare il problema, infine si riaprono i canali. È una semplice misura cautelare e, proprio per cautela, non si può sapere in anticipo, e con certezza, fino a quando dovrà essere mantenuta.»

«Ah, e tu saresti un esperto di contaminazioni ambientali?» chiese Kemala, in un tono non proprio amichevole.

«Studio exologia e conosco la procedura standard in questi casi.»

«Io invece studio medicina e posso confermare tutto quello che ha detto Steve,» intervenne Maelle, innalzando il tasso di affabilità della conversazione. «Qualche problema, cara?»

«Parecchi, dato che io studio archeologia e progettavo di proseguire le mie ricerche su Madre, dopo la mia imminente laurea. Qualche problema, cara?»

«Vorrà dire che te ne starai seduta ad aspettare il tuo turno, invece di andare in giro a contaminare le colonie altrui,» sorrise Maelle, con l’allegria di un chiodo arrugginito.

Matteo desiderò di trovarsi da qualche altra parte, molto lontana da lì. Un’altra galassia, magari, o un’altra dimensione. Si guardò attorno, in cerca di una via di uscita, e incrociò gli occhi di Steve, in un momento di tacita solidarietà maschile, o almeno studentesca. Chi si sarebbe offerto volontario, per bloccare quelle due? Entrambi si girarono verso Roger, a loro parere la vittima più sacrificabile, in quanto altra persona. Perché rischiare in proprio, quando hai qualcuno da buttare nel fuoco al tuo posto? Peccato solo che Roger non cogliesse i messaggi telepatici, che loro due stavano inviando, e sedeva placido a giocherellare con una tazzina, godendosi probabilmente lo spettacolo.

Steve tentò di riportare la discussione su un piano razionale. «Sono state specificate le cause del blocco? Nelle notizie diffuse qui, si è parlato solo di contaminazione ambientale, senza indicarne gli effetti, o le cause, o altro. Magari tu hai maggiori informazioni.»

«Ovviamente non hanno indicato nulla,» rispose Kemala. «Solo una generica contaminazione, non una parola sul come, il cosa o il quando. Grazie tante.»

«Oh, una causa l’hanno indicata,» intervenne Maelle. «I lakshmiti, che hanno portato una qualche infezione dal loro pianeta. Per questo hanno bloccato i collegamenti con quel pianeta.»

«Ti ricordo che “quel pianeta” è anche quello che hai sotto i piedi, cara mia,» quasi ringhiò Kemala. «O questo dettaglio ti è sfuggito?»

«Non mi è sfuggito e vorrei tanto sapere cosa sia questa contaminazione, già che ci siamo. Proprio perché è venuta da questo pianeta, su cui mi trovo: non vorrei avere brutte sorprese, sai com’è.»

«Hai paura di infettarti?»

«Se è qualcosa che può danneggiare l’ecosistema di un altro pianeta, allora sì. Vorrei proprio sapere qualcosa di più, se non ti dispiace, cara mia.»

«Beh, almeno su questo siamo tutti d’accordo, giusto?» si intromise Matteo, sperando di riportare la calma, o almeno interrompere il battibecco ripetitivo. «Vorremmo saperne di più sulle cause.»

«Oh, ha parlato il genio! E come vorresti fare a saperne di più, scusa?» gli chiese Maelle, carica di simpatia fino quasi al punto di provocare un secondo big bang e creare un universo in cui qualunque forma di vita, senziente e capace di comunicare, non avrebbe mai voluto vivere.

«Beh, siamo in un centro culturale terrestre su Lakshmi, giusto? Quindi magari ci sarà qualcuno con maggiori notizie su questo fatto, no? O almeno credo,» aggiunse Matteo, spinto da un ripensamento improvviso. Considerato il livello culturale del centro, le possibilità non erano poi così elevate.

«Ne sanno quanto noi,» disse Roger, abbandonando la sua posizione di osservatore divertito e non coinvolto della discussione. «Tutte le notizie che hanno sono quelle del comunicato ufficiale, ossia lo stesso diffuso dai notiziari. Puoi chiedere ad altri, se proprio vuoi, ma dubito che ne ricaverai una sola parola in più. A meno che tu non conosca l’ambasciatore terrestre, ovvio.»

«L’ambasciatore?» chiese Matteo.

«Ambasciatore, sì. Hai presente, vero? Quel funzionario, inviato da un paese in un altro paese, o da un pianeta su un altro pianeta, in questo caso, per consolidare le relazioni, fare da tramite tra i due, spiare, e così via,» rispose Maelle Prsic. «Immagino che persino tu ne avrai sentito parlare, almeno una volta, nel corso della tua vita, giusto? È una carica piuttosto antica.»

«Sì, certo che ne ho sentito parlare, ma non sapevo ci fosse un ambasciatore terrestre su Lakshmi.»

Per una volta, Kemala e Maelle sembrarono in perfetto accordo, mentre fissavano una nuova forma di vita, appena scoperta dentro al piatto. «Non sapevi che ci fosse un ambasciatore terrestre qui su Lakshmi,» disse Kemala, con tono piatto. «Non hai mai pensato che potesse essercene uno,» le fece eco Maelle, con identico tono. Si guardarono e sospirarono.

«Certo che il tuo amico è davvero un tizio sorprendente,» disse Maelle. «Mi chiedo proprio come abbia fatto a sopravvivere fino a oggi, su un altro pianeta.»

«A quanto pare, il tuo collega non è una persona che si guarda molto attorno e riflette sul mondo in cui si trova a vivere. Un esemplare alquanto bizzarro, senza dubbio.»

Matteo sospirò. Che avessero provvisoriamente smesso di litigare era un bene; peccato solo che lo avessero fatto per allearsi contro di lui. Era davvero dura la vita di una brava persona, che cercava di aiutare gli altri: tutto ciò che ne ricavava in cambio erano pesci in faccia. Davvero, il mondo era un posto profondamente ingiusto. L’universo, anzi, volendo essere più precisi.

«A ogni modo, se tu vuoi andare a lavorare su Madre, dopo la laurea, immagino che tu avrai già ottenuto i permessi, giusto? Se sei stata autorizzata prima del blocco e della quarantena, allora credo che dovresti ancora possedere qualche appiglio legale, per raggiungere il pianeta. Potrebbe esserci bisogno di una causa in piena regola, ma se sei così determinata, allora un tribunale potrebbe essere la strada migliore, per te,» disse Steve Dingledine, grattandosi il mento.

«Non ho ancora ottenuto un permesso in piena regola,» rispose Kemala, un poco a disagio. «Stavo proprio lavorando a questo, quando è arrivata la notizia della quarantena.»

«Ti laureerai a breve e ancora non hai sistemato il dopo? Beh, voi lakshmiti siete proprio rilassati, a quanto vedo. Una cosa simile sarebbe semplicemente impensabile, sulla Terra. Soltanto un pazzo si laureerebbe così, alla cieca, senza sapere dove andare a sbattere la testa il giorno dopo,» commentò Maelle. «Ma in fondo voi lakshmiti non avete davvero bisogno di lavorare. Essere inutili è un lusso che vi potete permettere, qui...»

La temperatura attorno al tavolo si abbassò nuovamente di alcuni gradi e Matteo considerò con una certa serietà l’ipotesi di cambiare posto e, magari, anche edificio. Cambiare quartiere, già che c’era. In certi casi, non si poteva mai essere sicuri a sufficienza.

«Penso che dovremmo tornare al lavoro, per imballare le opere d Shimon Uris,» Steve si affrettò a cambiare discorso. «Ormai la mostra è conclusa ed è tempo di rispedirle sulla Terra, giusto?»

«Le opere del Maestro Uris devono essere imballate, è corretto,» disse Maelle. «Sarebbe un vero peccato, se dovessero essere danneggiate, per incuria o distrazione nostra.»

«Andate pure avanti, io vi raggiungo tra un attimo,» disse Matteo, mentre i colleghi si alzavano o terminavano le proprie consumazioni, o entrambe le cose assieme.

«Molto simpatica, la tua amica,» commentò Kemala, quando furono rimasti soli al tavolo.

«Fa così con tutti, o almeno fa così anche con me. Non credo che sia qualcosa di personale, ma solo il suo carattere.»

«Posso commentare sul materiale di cui il suo carattere è costituito?»

«Credo che non sia necessario. A ogni modo, cos’è questa storia della quarantena su Madre?»

«Esattamente quello che ho detto. Tutti gli arrivi da Lakshmi su Madre sono stati bloccati, sia che si tratti di merci che di persone. A quanto dicono, da Lakshmi sarebbe arrivato qualcosa, che avrebbe contaminato il pianeta, o almeno danneggiato una parte del suo ecosistema. Nulla di preciso, fino a questo momento, ma si attendono maggiori informazioni nei prossimi giorni. E così via.»

«Ah, capisco. Ma questo come ti danneggerebbe, scusa? Tu hai intenzione di arrivarci facendo finta di essere terrestre, no? Non vedo che differenza faccia, per te.»

«Farà differenza quando sarò arrivata là e dovrò svelare la mia identità, per essere ammessa tra gli archeologi, non capisci? Con la storia della quarantena avranno una scusa ottima, per rispedirmi a casa subito, senza ascoltare le mie ragioni. Non lo capisci?»

Matteo non credeva che avrebbe fatto molta differenza, perché non vedeva come sarebbe riuscita a farsi accettare regolarmente, dopo essere entrata come clandestina su un pianeta, o almeno sotto una falsa identità, per superare i controlli. Un reato era un reato comunque, no? Eppure lei era convinta che, una volta là, tutti l’avrebbero magicamente accettata e accolta a braccia aperte, dopo aver visto la forza della sua determinazione. Pazza, appunto.

«E allora cosa hai intenzione di fare?» le chiese.

«Dovrò per forza tenere un basso profilo e fingermi una colona normale, almeno fino a che questa stupida quarantena non sarà stata tolta. Così poi non avranno più scuse per cacciarmi e mi dovranno tenere come archeologa. E io potrò dimostrare tutto il mio valore.»

Un piano geniale, con più buchi di uno scolapasta. A ogni modo, contenta lei, contenti tutti, no? Era il motto del pianeta, dopotutto: fai quel che vuoi e poi cazzi tuoi, o qualcosa del genere. Almeno, era la versione che Chakra gli aveva dato del principio di responsabilità. Piuttosto, il vero problema era un altro, per lui. Tempo di affrontare l’argomento, invece di continuare con quarantene e complotti planetari di dubbio gusto.

«A proposito,» esordì, anche se non c’era un argomento a cui si potesse ricollegare, «è più o meno dall’inizio dell’autunno che un tizio coi baffi da tricheco mi segue. Non è che tu ne sei qualcosa? Non vorrei che avesse qualcosa a che fare col tuo progetto, in cui mi hai coinvolto.»

Kemala lo guardò perplessa. «Un tricheco? E allora?»

«No, beh, non un tricheco. È un uomo coi baffi che gli scendono ai lati della bocca, molto lunghi, e lo fanno assomigliare un poco a un tricheco. Hai presente, no? L’animale terrestre...»

«Sì, ho capito. È un tricheco. E allora?»

Evidentemente stavano parlando di due cose diverse, oppure due lingue diverse, o anche erano in orbita attorno a due pianeti diversi. Non poteva escludere, però, che quella tipa fosse impazzita del tutto: la strada da fare non era molta, in fondo.

«Ascolta,» cercò nuovamente di spiegare, parlando adagio e scandendo bene ogni fonema, «c’è un uomo con baffi molto lunghi, ai lati della bocca, che mi segue ovunque, e lo sta facendo ormai da un bel po’ di tempo. Sai qualcosa su quella persona? Lo hai visto anche tu, per caso?»

Kemala sospirò. «Te l’ho già detto, è un tricheco. Non farci caso, non è importante. Piuttosto, con la storia della quarantena adesso...»

Matteo si sarebbe strappato volentieri i capelli, se ne avesse avuti a sufficienza. Li avrebbe strappati anche a lei, in alternativa. «Ma cosa è un tricheco?» quasi urlò, spinto dalla disperazione.

«Non li conosci? Mai sentiti nominare? Allora non farci caso, non sono importanti. Ti guardano e basta, non ti faranno niente. Torniamo alle cose importanti, invece. Come dicevo, la quarantena...»

Matteo si arrese. Inutile insistere, non avrebbe ricavato nulla da quella matta. Aveva una sola cosa in testa e tutto il resto le sarebbe solo rimbalzato contro il cranio, per volare chissà dove. Ascoltò i suoi deliri ancora per un poco, poi si alzò con la scusa di dover aiutare gli altri (che non era proprio una scusa, ma la verità, per quanto non ne avesse voglia) e la salutò. Mentre imballava le copie delle più grandi opere del sommo maestro Shimon Uris, e soffocava sbadigli in quantità industriale, pensava a chi altri potesse dirgli qualcosa sui trichechi, che guardavano ma non facevano nulla. Considerate le persone con cui ne aveva già parlato, e i miseri risultati ottenuti, la scelta era limitata.

Fu contro ogni suo più basilare istinto di sopravvivenza che, il giorno seguente, contattò Chakra e gli chiese di incontrarsi, per discutere di qualcosa. Era un giorno senza lezioni, un giorno zero, e il suo quasi amico non ebbe problemi ad accettare. Si presentò anzi con una sguardo incuriosito e un sorriso un poco più largo del solito, pregustando forse quello che avrebbe potuto raccontare a un terrestre sprovveduto, che aveva bisogno di aiuto su un pianeta straniero.

«Trichechi, hai detto? Immagino che tu non ti riferisca all’animale terrestre, vero?»

«Esatto,» rispose Matteo. «Mi riferisco a un uomo di mezza età, più o meno, con baffi lunghi, che gli scendono ai alti della bocca, come se fossero le zanne di un tricheco. Hai presente?»

Chakra sorrise, lisciandosi il pizzetto. «Ho presente, ho presente. Dunque uno di loro ti seguirebbe, giusto? Dall’inizio dell’autunno, dici?»

«Sì, più o meno dall’inizio dell’autunno, non mi ricordo il giorno preciso. Ha importanza?»

Chakra scrollò le spalle. «Non necessariamente. Che cosa hai combinato di male, stavolta? Meglio, che cosa ti stai preparando a combinare di male?»

La colpa si dipinse a larghe pennellate sulla faccia di Matteo. «Che significa? È... sono una specie di polizia, vero? Ce l’hanno con me?»

«Mettiamola così. Sono una specie di polizia, in effetti, ma non quel tipo a cui pensi tu. Per capirlo, dovresti capire e conoscere molto di più della struttura di Lakshmi, perché ne sono parte integrante. Anzi, puoi dire che sono un pilastro del principio di responsabilità, da un certo punto di vista. Non un bel punto di vista, forse, ma è così.»

«Ascolta, potresti smettere di parlare per enigmi, come il personaggio di un film, e dirmi cosa sono i trichechi? Gradirei molto saperlo, prima del prossimo anno, se la cosa non ti disturba.»

Chakra terminò la propria bibita e si alzò. «Vieni, facciamo due passi.»

Varshi sonnecchiava nel primo pomeriggio di un giorno luminoso di autunno. Luminoso e ventoso, in effetti, ma il vento sembrava una caratteristica degli autunni di Varshi e quasi nessuno ormai vi prestava attenzione: era lì, come il cielo, come il suolo, e lo accettavi così, senza lamentarti e senza lodarlo. Inoltre, non era particolarmente freddo, quel giorno, anche se era abbastanza umido. Vento da pioggia, lo aveva definito Indira, e lui si era dimenticato di chiederle il perché. Poteva comunque immaginarlo, senza bisogno di troppa fantasia.

Per le strade passava di tanto in tanto qualche risciò, pigro come il resto della città, e pochi pedoni si vedevano in superficie. L’inverno si avvicinava e i lakshmiti non erano gente da clima freddo, o così gli aveva spiegato Sharma: li avrebbe trovati spenti, in quel periodo, e bisognava attendere la primavera, per vederli uscire dal letargo e ritornare a invadere le strade e i parchi. Matteo non si lamentava: a lui piacevano quasi tutti i climi, almeno in parte. Li sopportava tutti, se non altro, il che era più o meno la stessa cosa, a suo parere. E comunque non avrebbe mai parlato di freddo, non a quelle temperature. Fresco, semmai.

«Guarda quel risciò,» disse Chakra, indicando un veicolo che li superava proprio in quel momento. «Come sai, si guidano da soli: tu dici il posto che vuoi visitare, o la persona che vuoi raggiungere, e loro ti ci portano, senza problemi, senza sbagliare mai strada.»

«Sì, lo so, li abbiamo anche sulla Terra i veicoli automatici.»

«E non ci trovi nulla di strano?» chiese Chakra, fissandolo con attenzione e forse anche un pizzico di divertimento.

Matteo alzò le spalle. «No, perché? Cosa ci dovrebbe essere di strano? Conoscono la destinazione e seguono le mappe che hanno in memoria, per raggiungerla. Giusto?»

«Non del tutto, ma può bastare. Come dici tu, conoscono la destinazione e la raggiungono. Sanno dove sia il posto che stai cercando e sanno dove sia la persona che stai cercando. Ancora niente?»

«Ma no, niente! È normale, no?»

«È normale conoscere il posto in cui si trova, adesso qualsiasi persona su questo pianeta? Perché è quello che fanno i risciò: conoscono la collocazione di ogni singola persona, o più precisamente la chiedono ai satelliti, insieme alle mappe per raggiungerla, e costruiscono il proprio percorso sulla base di queste informazioni. Ripeto: la collocazione di ogni singola persona su questo pianeta.»

Matteo stava per rispondere, ma si fermò. Si fermò a pensare. Almeno in teoria, perché alla fine si rifugiò nella più comoda delle risposte, segno che non aveva poi pensato così tanto o così a fondo. «Cosa intendi, scusa?»

«Esattamente quello che ho detto: la posizione di ogni persona su questo pianeta, in ogni momento, è nota ed è accessibile al sistema di trasporti. E ad altre cose.»

«Che tipo di altre cose?»

«Pensaci e dammi una risposta.» Il sorriso di Chakra andava ben oltre la semplice derisione, ormai: di qualunque cosa stesero parlando, era chiaro che il suo “amico” si divertiva parecchio. Il problema di Matteo era decidere se si stesse divertendo a spese sue, eventualità che non poteva escludere.

«È una specie di sistema di sorveglianza? Ci seguono tutti e registrano quello che facciamo? Vuoi dire che il governo di Lakshmi ci sorveglia tutti in continuazione e conosce ogni cosa su di noi?»

Chakra alzò una mano. «Per carità, no, non voglio certo dire questo. Sei fuori strada, amico mio. Il nostro governo è a malapena un gruppetto di figuranti, che servono giusto a scaldare poltrone e dare la sensazione di fare qualcosa di importante. No, non è il governo a spiarci. Siamo noi.»

«...che cosa significa, scusa?»

«Significa che Lakshmi spia Lakshmi, i lakshmiti spiano i lakshmiti, i tuoi amici spiano te e tu spii i tuoi amici. Almeno potenzialmente, è ovvio. Tutti sorvegliano tutti, se così ti è più chiaro.»

«No, non credo che mi sia chiaro. Scusa se te lo dico, ma non ci sto capendo niente.»

«La cosa non mi sorprende. Proverò a spiegartelo con una immagine, che magari ti aiuterà. Hai mai visto una boccia di vetro, per i pesci rossi? Sono oggetti decisamente arretrati, ma molti li usano ancora, per il fascino che, secondo loro, possiederebbero. Scemenze, dico io, ma ognuno è libero di fare le scemenze che preferisce, no?»

Matteo aggrottò la fronte. «Sì, credo di aver presente quegli affari, ma cosa c’entrano adesso?»

«Le bocce di vetro sono, per l’appunto, di vetro. Sono trasparenti, capisci? Puoi vedere il tuo pesce rosso in ogni momento, qualunque cosa faccia, dovunque stia nuotando. Non ci sono punti in cui il pesce possa nascondersi e sottrarsi alla tua vista.»

«Ok, e quindi?»

«E quindi la vita su Lakshmi funziona esattamente così. Sei un pesce rosso in una boccia di vetro, e il resto del pianeta può osservarti in ogni momento, sapere tutto ciò che fai, che dici, eccetera. Hai capito adesso? O la cosa non ti è ancora chiara?»

Matteo si fermò nel mezzo della passeggiata. «Vuoi dire che davvero mi sorvegliano ovunque e in ogni momento? E guardano tutto ciò che faccio?»

Chakra scrollò le spalle. «Probabilmente no. Non tutti, di sicuro. Al massimo, lo faranno solo i tuoi conoscenti, che sono più interessati al tuo benessere. O a ciò che loro considerano il tuo benessere. Teoricamente è possibile essere guardati da tutti, certo, ma in pratica non succede quasi mai. È una questione di numeri e di tempo, vedi.»

«Potresti spiegarmelo meglio, grazie?»

«I dati sulla tua posizione, sulle tue attività, sui tuoi comportamenti, e così via, sono raccolti in ogni momento da un sistema automatico. Di volta in volta, sono incrociati coi dati relativi a tutte le altre persone, o almeno a quelle che possono fisicamente trovarsi nelle condizioni di interagire con te. In questo modo, si forma una rete completa di relazioni, al cui centro sei tu, e questo rende possibile ricostruire, con estrema precisione, la tua vita, almeno nella parte che si svolge qui su Lakshmi. Il sistema è interamente automatizzato e si aggiorna di continuo. Inoltre, e questo è un punto che devi capire, tutti questi dati non sono riservati, ma accessibili a tutti. Chiunque lo voglia, insomma, può ficcanasare nella vita di chiunque altro sul pianeta, in ogni momento.»

Matteo lo fissava con la bocca leggermente aperta, come a dare più aria al cervello. «Ma è orribile! Che senso ha tutto questo? Perché tutti dovrebbero spiare tutti? È il mondo dei guardoni?»

Chakra rise. «Prospettiva interessante, ma le ragioni non sono queste, non interamente. Questa rete di guardoni, come dici tu, è nata assieme all’etica della responsabilità ed è alla base della sua così profonda diffusione nella mente di ogni lakshmita. Noi lakshmiti non siamo certo responsabili per nascita, ma lo siamo per educazione. Una educazione molto rigida, se vuoi. Una educazione che, a ogni generazione, diventa meno necessaria, perché la società stessa vi si adatta e la rende parte del proprio tessuto. Alla fine, ci viviamo in mezzo senza neppure notarlo. O almeno, questo vale per la maggior parte di noi, ma ci sono eccezioni,» aggiunse, strizzando l’occhio a Matteo.

«Fammi capire. Siete responsabili, perché sapete che, in ogni momento, chiunque vi potrebbe stare guardando e vedere così la vostra irresponsabilità? È una specie di... pressione sociale, insomma?»

«In origine sì, qualcosa di simile. Quando Lakshmi è stata fondata, la responsabilità è stata imposta proprio in questo modo, ossia con la paura di avere delatori ovunque, pronti a raccontare le cattive azioni degli altri, in cambio di vantaggi personali. Se tu agisci in modo irresponsabile, ossia se eviti di assumerti la responsabilità di ciò che hai fatto, chiunque potrebbe teoricamente aver visto il tuo gesto e denunciarlo, procurandoti così una bella punizione. Molto più pratico che istituire forze di polizia e roba simile, no? Ognuno è sorvegliante, ognuno è poliziotto. Ognuno, in fondo, è anche il giudice e il boia, e spesso sogghigna felice, mentre ti condanna. Ma adesso, prima di continuare, è meglio se ci mettiamo in un posto che dia meno nell’occhio.» E lo prese per un braccio, tirandolo verso i margini della strada. Matteo lo seguì, senza opporsi.

«Scusa, ma a che serve non dare nell’occhio?» chiese, mentre svoltavano in una zona dove le luci erano più fioche e le vie ancora più vuote. «Se ci sorvegliano in ogni momento, che differenza fa?»

«Fa differenza, credimi. Il fatto che qualcuno potrebbe guardarti in ogni istante, dovunque tu sia, non implica necessariamente che qualcuno ti stia guardando, in quel momento. Se non fai nulla di curioso o interessante, o se quella persona non ha un valido motivo per volerti sorvegliare, è poco probabile che qualcuno decida di guardarti. Più sei banale, più sei piano, più sei noioso, e meno la tua persona attirerà l’interesse degli estranei. Per gli amici è un altro discorso, ma per il momento lo possiamo anche ignorare.»

«Ma quindi anche adesso possono denunciarmi, se vedono che sto facendo qualcosa di sbagliato?»

«Oh, quel sistema è tramontato, ormai. È quasi un secolo che non serve più. La responsabilità è stata assimilata ed è parte integrante di ogni buon lakshmita. La sorveglianza rimane per raccogliere prove, in caso di bisogno, ma anche perché ormai è parte del pianeta, proprio come l’etica stessa. E poi è sempre utile, per tenere d’occhio gli stranieri più fessi. Quelli come te, insomma.»

«Io non sono fesso, grazie!»

Chakra lo liquidò con un gesto della mano. «Oh, lo sei, invece. Non hai un tricheco che ti segue?»

«Ecco, questo! Cosa sono i trichechi? Ti avevo chiesto di loro, ma tu mi hai raccontato tutta una storia sulla sorveglianza di massa e sul paradiso dei guardoni che, ok, è interessante e istruttiva, ma non ha molto a che fare coi trichechi, o i Baffi, o quello che sono. Cosa c’entrano loro con questa storia?»

«C’entrano, perché i cosiddetti trichechi ne fanno parte. Un tempo, quando ancora si usava questa sorveglianza per inculcare la responsabilità in noi lakshmiti, i trichechi erano un corpo scelto, che si occupava dei crimini contro la responsabilità. Quando ne vedevi uno, qualcosa di brutto ti stava per accadere, ed era solo per colpa tua. Responsabilità tua, anzi. Anche se, in effetti, pare che fossero parecchio difficili da vedere.»

«Non direi proprio! Sono parecchio facili da notare, con quei baffi, e poi non sanno nascondersi molto bene, quando pedinano qualcuno.»

«Tu parli dei trichechi di oggi, che hanno un compito differente. Quelli di prima inseguivano ogni irresponsabile, per colpirlo. Quelli di oggi, invece, sono un avvertimento: se ne vedi uno, sai che nel tuo comportamento c’è qualcosa di sbagliato, qualcosa che rischia di trasformarsi in una violazione del principio di responsabilità. Ti avvertono che devi correggere la tua rotta, se non vuoi finire fuori strada o contro uno scoglio. Tu li devi vedere, per essere avvisato.»

Matteo non rispose. Attorno a loro due, c’era soltanto il silenzio della sera e il fresco del vento, che si infiltrava più o meno in ogni fessura dei vestiti. C’erano anche, probabilmente, milioni di occhi che li fissavano e spiavano, se la storia di Chakra era vera, ma per adesso era meglio non pensarci: l’idea lo avrebbe già tormentato alla prossima doccia, o al prossimo uso del gabinetto, e non era il caso di anticipare le paranoie da sorvegliato speciale.

Che razza di mondo era, quello? In che razza di posto si era andato a infilare? Gli era sembrato un paradiso, almeno all’inizio, ma adesso gli sembrava una storia dell’orrore, o peggio, una storia della follia. Che razza di gente viveva in quel posto? Sharma, Indira, gli altri dell’alloggio o dei corsi: era possibile che tutti lo spiassero? E anche Kemala lo spiava? E Bogdan, pure lui spiava?

«Hai detto che tutti possono accedere a questi dati,» disse Matteo, quasi sottovoce. «Quindi anche gli stranieri possono? Anche io potrei accedere e spiare chi voglio?»

Chakra sorrise a metà. «Non ancora, sei troppo verde per farlo. Quando la tua balia, ossia il nostro caro Sharma, ti avrà riconosciuto come un cittadino pienamente integrato, allora potrai presentare la tua richiesta di accesso all’archivio. Fino ad allora, niente da fare.»

«Quindi un terrestre che vive qui già da parecchio tempo potrebbe accedere, giusto?»

«Se vuole, sì. Stai pensando al tuo amico Stratos, vero? Tranquillo, lui non lo ha richiesto. Non ti so dire il perché, ma è così. Ho controllato. Probabilmente non apprezza l’idea, oppure non ne sa nulla, anche se trovo che questa seconda opzione sia parecchio improbabile.»

«Tu invece accedi. E spii.»

«Non te e non altra gente che conosci. Lo faccio solo a scopo puramente difensivo, per evitare che qualcuno possa mettermi in qualche tipo di guaio. Non è certo la parte che preferisco del nostro mondo, ammesso che ci sia una parte che preferisco. Lo devo ancora scoprire, in effetti, ma il non dover lavorare è un possibile candidato come parte preferita, non ho problemi ad ammetterlo.»

Matteo chiuse gli occhi, cercando di rimettere ordine nelle idee e cercando soprattutto di impedire al proprio cranio di esplodere. La sera attorno a lui era tranquilla, ancora di più adesso che Chakra lo aveva condotto in un luogo appartato, dove praticamente non passava nessuno. Tranquilla, fresca, e con un vago profumo, come tutte le sere che lui poteva ricordare, li a Varshi. Era un bel posto. Un bel mondo. Un pianeta ideale, sotto molti aspetti. Perché allora quella assurdità di tutti che spiano tutti, per diventare delatori di tutti, se tutti non si comportano come tutti vogliono e pretendono? La storia di Chakra era troppo folle per essere credibile, eppure...

«Quindi qualcuno potrebbe avere ascoltato tutto ciò che ho detto e osservato tutto ciò che ho fatto, se ho capito bene, giusto?» chiese, sena aprire gli occhi.

«Sbagliato,» rispose Chakra. «Se c’è un tricheco che ti pedina da giorni, significa che qualcuno ha sentito tutto ciò che hai detto e visto tutto ciò che hai fatto. O anche più qualcuno, se è per questo. Il semplice fatto che attorno a te ci sia uno di quei Baffi, come li chiami tu, lo dimostra: è lì attorno a te, per ricordarti che stai uscendo dalla strada della responsabilità. Qualunque cosa tu stia facendo, e ti ripeto che io non ti spio e non me ne può fregare di meno, è percepita come contraria all’etica del nostro mondo: se smetterai di farla, il Baffo sparirà; se continuerai a farla, invece...»

«Invece cosa? Cosa mi accadrà, se continuerò a farla?»

«Non ne ho la più pallida idea, seriamente. Un secolo fa ti avrebbero processato e condannato, ok, ma adesso non ne ho idea. Non ricordo casi di questo tipo, almeno non negli ultimi decenni, non in una società conformista come la nostra. La semplice pressione di un tricheco attorno è sufficiente a riportare chiunque dentro i confini della tradizione, almeno se il chiunque è un lakshmita. Dovresti dunque perseverare e fregartene degli avvisi: in questo modo, potrò scoprire cosa preveda adesso la tacita legge della responsabilità. Sarà molto istruttivo, per me.»

«Ah, grazie tante!» commentò Matteo, riaprendo gli occhi. «Vuoi usarmi come cavia?»

«Certo che no! Non sono stato io a spingerti in questa direzione: hai fatto tutto da solo. E, dato che tu hai fatto tutto da solo, immagino che proseguirai a fare tutto da solo, qualunque cosa io ti possa dire. Non c’è nulla di male, dunque, nel darti il consiglio che tornerà più comodo a me, sapendo che tu lo seguirai perché è ciò che tu hai deciso di fare, non perché torna comodo a me.»

«Questo è un discorso molto contorto, lo sai?»

«Sono uno studente di diritto, lo sai? Un aspirante avvocato, almeno in potenza, anche se in atto devo confessare di essere soprattutto un aspirante fannullone.»

Matteo sospirò. Aveva troppe cose da digerire, al momento, e la sua mente non riusciva a seguire le sterzate e i salti di Chakra, dei suoi discorsi. Meglio staccare, meglio fermarsi,meglio prendersi una pausa e tirare un poco il fiato. Riflettere, con calma, e prendere una decisione, una qualunque.

«Puoi comunque confermare che questo Baffo non è un problema immediato?» chiese infine.

Chakra scrollò le spalle, di nuovo. «Il baffo, come lo chiami tu, non è un problema, di per sé. Puoi immaginarlo come un cartello di avviso vivente e semovente. È lì per avvisarti. Se vuoi seguire il suo avviso, fai pure. Se non lo vuoi seguire, fai pure. La nostra filosofia di base è sempre quella, lo sai. Fai quello che vuoi...»

«...e poi cazzi tuoi,» concluse Matteo, con voce sfinita. «Sì, lo so, ma non è molto rassicurante.»

«Né lo vuole essere: è soltanto una descrizione di come stiano le cose, qui da noi. Che ti piaccia o meno, così va la vita lakshmita. A ogni modo, se la cosa non ti soddisfa, puoi sempre discuterne con Sharma,» aggiunse Chakra, con più di una punta di bastardaggine. «È la tua balia, è qui per aiutarti e controllare i tuoi passi, per accertarsi che tu non finisca sulla cattiva strada.»

«Sharma è uno di quelli che mi spia, giusto?»

«Probabile. È il suo ruolo che glielo impone e, se ti può consolare, non credo che lui ne sia molto contento. Ma lo fa, perché è una persona coscienziosa, che rispetta alla lettera le regole del pianeta su cui vive e a cui appartiene.»

«Ma non mi ha ancora detto niente.»

«Forse aspetta, forse guarda e basta, forse è ligio all’intera etica lakshmita: responsabilità e libertà sono sempre assieme, assieme vivono e assieme muoiono, se e quando muoiono. Perché tu possa essere il solo responsabile delle tue azioni, devi essere libero di scegliere e libero di agire secondo la tua volontà. Se intervenisse, senza che il suo intervento sia richiesto, violerebbe la tua libertà. Così la pensa un lakshmita ortodosso, se non altro, anche se io le ritengo solenni stronzate.»

«Tu non sei un lakshmita ortodosso, vero? È per questo che Sharma mi aveva sconsigliato di avere troppo a che fare con te, giusto?»

«E tu sei davvero un ragazzo obbediente, vedo,»sorrise Chakra. «A ogni modo no, non sono certo un lakshmita ortodosso. Io sono chi sono e questo è quanto. Non resterò per sempre ad ammuffire su questo pianeta, poco ma sicuro. Lakshmi è un cul-de-sac evolutivo, come si dice dalle tue parti, il che non lo rende certo il mio posto ideale. Esplorerò altri mondi, per studiare il loro funzionamento, o per scoperchiare il vermicaio su cui le società poggiano, a seconda dei casi. È così che mi diverto, sai? Ma adesso è tempo di tornare a casa e riposarsi, e pensare al futuro, giusto? Buon divertimento col tuo tricheco, o Baffo che sia, e tienimi aggiornato sugli sviluppi.»

Agitando una mano, Chakra lo salutò e si allontanò lungo una stradina più buia della media e molto più deserta della media, persino in una stagione in cui Varshi sembrava assopita al riparo delle mura domestiche, se di mura domestiche si poteva parlare, su un pianeta dove nessuno possedeva e tutti occupavano solo temporaneamente, finché il posto serviva loro, per poi cambiarlo come un paio di mutande (se mantieni un livello minimo di igiene personale). Matteo rimase solo, almeno sul piano strettamente fisico, ma si sentiva addosso gli occhi e le orecchie di chissà quanti lakshmiti, che lo potevano spiare da ogni luogo.

Lo spiavano davvero? E chi lo spiava? Lo stesso che gli aveva messo il Baffo alle calcagna? Quel Baffo che, a giudizio di Chakra, era innocuo, solo uno spauracchio, e pure Kemala l’aveva liquidato con un gesto, come se non avesse importanza. Forse non l’aveva davvero? Ma allora cosa avrebbe dovuto fare, lui? Non lo sapeva, e più ci pensava, più non lo sapeva.

Dormiamoci sopra, si disse alla fine, incamminandosi verso il proprio alloggio. Quell’alloggio dove il suo compagno di stanza lo spiava anche quando non erano assieme, per assicurarsi che il bambino si comportasse bene. E forse non era solo Sharma. Forse non era stato lui ad affibbiargli il Baffo. E chi, allora? Chi? Ma aveva poi importanza?

Queste e molte altre domande inutili lo cullarono verso casa, e poi nel sonno, mentre rifletteva su come condurre la propria vita, di lì in poi. Mentre sentiva, più ancora di quanto gli fosse accaduto in tutto quel tempo, la nostalgia di casa. Come stava la mamma? Cosa combinava Davide? Perché era finito proprio su quel mondo, un paradiso che galleggiava su un incubo? Ne avrebbe dovuto parlare con qualcuno, ma con chi, a parte Chakra?

E su quell’ultima domanda, Matteo si addormentò, salutando per un poco i Baffi, le spie, i delatori e ogni altro spettro della sua veglia recente. Tempo di riposare.