Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 19

Larisa Elfridi morì il tre luglio. Fuori, le ultime cicale intonavano inni immutabili all’estate, al sole, al caldo del pomeriggio e in generale facevano un discreto baccano, sotto una luce che disegnava i contorni di ogni superficie con un martello pneumatico, come a voler lasciare una firma duratura sui pannelli dei tetti, sui muri scrostati, sulle crepe delle strade, sui profili degli alberi, sulla polvere che volteggiava nell’aria, sui crani dei pochi passanti. Dentro, il sussurro del climatizzatore coccolava la stanza di ospedale e il letto su cui posava il corpo della donna, in attesa. Attorno, guardie d’onore di un cadavere con pochi amici, stavano due sedie: su una si ammassava un gomitolo di abiti, sull’altra si accartocciava Davide Kori. Davide piangeva, gli abiti no, ma le loro condizioni suggerivano che avrebbero avuto buone ragioni per farlo, potendo.

La mamma era morta. Ed era colpa sua. Sua di Davide, non degli abiti.

Quasi sei mesi prima, in un inverno che sembrava appartenere a una galassia diversa, magari alla nebulosa di Andromeda, un medico gli aveva assegnato un incarico. Davide non lo aveva rispettato. Adesso, quando il freddo era un ricordo e il sudore riempiva il mondo, lo stesso medico gli aveva presentato le conseguenze del suo fallimento. Ma non lo aveva detto, no, nessuno lo aveva accusato, nessuno avrebbe incolpato un ragazzo di diciassette anni. Non in quel momento, almeno, non a voce alta. Eppure era lì, davanti a lui, sotto il sottile lenzuolo bianco. Sua madre, Larisa Elfridi. Era.

«Purtroppo non ha rispettato le mie indicazioni, dopo lo scorso ricovero. Non si è curata a dovere e non ha neppure considerato l’ipotesi di una operazione. Il resto lo ha fatto il caldo. Purtroppo, non è il primo caso che abbiamo avuto, con questa ondata anomala. E non sarà l’ultimo, temo.»

Ecco cosa aveva detto, il medico. Non una parola su Davide, non un accenno alle sue responsabilità. Colpa del cuore, colpa del caldo, colpa delle medicine che non ha assunto. Ma la mamma era morta e Davide sapeva chi l’aveva uccisa. Un infarto? Sì, certo, l’arma era quella. Ma la mano era la sua, perché non aveva ascoltato il medico, non aveva controllato e verificato che la mamma prendesse ogni giorno le pastiglie, che si curasse a dovere. Non aveva fatto nulla, lui, per alleggerirle il lavoro, impegnato com’era con le riunioni e gli Isolazionisti. Erano cose molto più importanti, certo. C’era un mondo da salvare, che il mondo lo volesse o meno.

E adesso sua madre era morta, suo padre chissà dove, suo fratello su un altro pianeta e lui era solo, lì sulla Terra. Solo e senza un futuro. Ma con le riunioni, già, e il grande piano a cui lavoravano. Lo avrebbe aiutato di sicuro a magiare, come no. Bella roba.

Pensò a Matteo, da qualche parte lassù nel cielo, a studiare tranquillo sul suo pianeta. I problemi per il futuro non lo toccavano, non adesso, ma cosa avrebbe dovuto fare lui? Lui che non era su un altro pianeta, ma lì sulla Terra, e non sapeva come si sarebbe potuto mantenere, da domani in poi? Cosa faccio io?, si chiese di nuovo, fissando il vuoto. Come campo, adesso?

Forse poteva andare da Amir, per qualche giorno, il tempo di pensare a qualcosa di meglio. Non erano messi molto bene neppure loro, ma un pasto e un letto glielo potevano offrire, o almeno prestare. Tempo due giorni, però, e sarebbe stato di nuovo in strada. In senso figurato, almeno, perché l’affitto della casa era pagato fino alla fine del mese, ma di soldi per il cibo ne aveva? Ecco un bel problema, ecco un problema concreto, tangibile, lontano da mondi e governi; un problema che aveva forma e odore, che potevi tastare e rigirare. Non risolvere, però. Non risolvere. E neppure mangiare, in effetti.

Perché non me ne sono accorto prima? Ma perché priva aveva altro per la testa, molto semplice. A ripensarci adesso, era dalla metà di giugno che sua madre sembrava strana: parlava poco, brontolava poco, non aveva neppure commentato la sua pagella, che faceva alquanto schifo. Ok, molto schifo: come mezzo scarafaggio nel panino che stai mangiando. Era passato, ma con una sufficienza tanto regalata da avere ancora i fiocchi e il biglietto di auguri. Lo avevano praticamente spinto avanti a calci in culo, per non averlo tra i piedi un anno in più.

E la mamma, cosa aveva fatto? Una volta lo avrebbe messo in castigo, o almeno sgridato, o anche solo brontolato contro il cielo. Ok, a diciassette anni non è che ti potessero mettere in castigo come un bambino, d’accordo, ma sgridare? Rimproverare? Insultare, se proprio era il caso? Certo che poteva e in passato non si era fatta molti problemi a riguardo. Quest’anno niente: non aveva parlato, forse non se n’era nemmeno accorta. Perché aveva altro a cui pensare, pure lei, ma non si trattava di riunioni, o degli Isolazionisti, o di ciò che preparavano contro il governo. La cosa a cui pensava Larisa, sua madre, era il proprio cuore.

Si era mai portata la mano al petto? Sì, certo che sì. Molte volte, anzi, tanto da sembrare una nuova mania: seduta a tavola, con la mano destra sulla spalla sinistra, o appena più in basso. Aveva quasi riso, Davide, a vederla così. Perché a giugno non ci pensava più, non pensava più a quando l’aveva trovata in cucina, sul pavimento, con la tazza frantumata accanto al braccio. Gli era scappato fuori dal cervello, oops, cose che succedono. La mamma in cucina apparteneva al prima, prima delle riunioni. E adesso sua madre era lì, sotto il lenzuolo, in attesa di essere spostata altrove e preparata.

Qualcuno aprì la porta, dietro di lui. Davide continuò a piangere, ignorandolo. Un’infermiera, di sicuro, o un medico, o anche un becchino, che voleva prendere le misure, per quanto ne sapeva lui. Come ci si regolava, con le morti in ospedale? Come funzionava la macchina per lo smaltimento di rifiuti umani? Non ne aveva idea, ma di certo qualcosa sarebbe successo, prima o poi. Qualcuno si sarebbe occupato della mamma, o meglio del suo cadavere, perché non poteva spendere il resto del tempo su un letto di ospedale, ma per Davide erano pensieri lontani, remoti, astrusi. Pensieri da una galassia diversa, appunto, dove certe cose non succedevano, o succedevano in modo diverso.

Qualcuno stava entrando, dietro di lui. E dunque? Non faceva differenza: era una persona inutile, almeno per lui, e poteva ignorarla. Ignorò anche i passi delicati, sul pavimento liscio della stanza. Che andasse dove voleva! Poteva anche urlare, saltare, o suonare la tromba, per quel che valeva. Nessuno si sarebbe svegliato, né lamentato. Davide si coprì il viso con le mani. Aveva fantasticato tanto sul suo essere un sopravvivente, uno che trova sempre uno spiraglio per cavarsela, ma adesso che la fantasia doveva farsi realtà, adesso che doveva davvero dimostrare di poterlo trovare, quello spiraglio dove sopravvivere, non sapeva neppure da dove cominciare. Non sapeva neppure come fosse fatto uno spiraglio dove sopravvivere.

Una mano gli batté sulla spalla. Una mano piccola, grassoccia. Una mano che poteva appartenere ad almeno mille tipologie diverse di persone, ma di certo non a una infermiera. Un medico, dunque? Sì girò, più per forza che per voglia, e no, non era un medico, aveva sbagliato di nuovo. Non era la sua giornata, decisamente: non ne azzeccava una.

Perché in piedi dietro di lui c’era Zeke Boodie.

«Mi spiace per Larisa,» disse.

Davide si asciugò gli occhi, confuso, ma Zeke era sempre lì. Dunque lo vedeva davvero, non stava sognando tutto. Poteva essere consolante, o poteva essere preoccupante: lo avrebbe deciso poi. Un quantitativo n di domande bussava dietro la sua fronte. Come mai era lì? Come faceva a essere lì? Come faceva a sapere cosa fosse successo? Come mai conosceva il nome di sua madre? Chi o cosa era Zeke Boodie? Eccetera eccetera. Nessuna di queste trovò la via della bocca. Nel marasma dei suoi pensieri, che sgomitavano per passare avanti, nessuno riuscì a vincere, non allora.

«La conoscevo,» riprese Zeke, «e mi spiace davvero tanto che sia andata così. Se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti, chiedi pure. Lo sai che sono dalla tua parte.»

Davide chiuse gli occhi, li riaprì e l’uomo non si era mosso. Né si era mossa sua madre. Si sentì le gambe di ricotta e sarebbe di certo finito a terra, se fosse stato in piedi; siccome era seduto, però, si sedette soltanto un poco più a fondo, quasi saldandosi col materiale che lo supportava, e in parte lo sopportava. Plastica? Metallo? Quello che era. Dettagli. Non riusciva ad articolare una frase, una risposta, una qualsiasi. Provò e provò, la bocca come un pesce gettato sul pontile dal pescatore, fino a che qualcosa ne uscì. «Perché?» sentì chiedere alla propria voce. Che non era proprio una risposta, ma doveva bastare, al momento.

Zeke lo guardò serio, forse anche triste, e annuì. «Vieni con me, appena riesci ad alzarti. Ci sono cose di cui dobbiamo parlare, cose che ti devo dire, e non mi sembra riguardoso discuterne davanti a lei. Ha faticato tanto nella vita, è giusto che la lasciamo riposare, ora. Vieni.» Chiamò Davide a sé, con la mano, mentre con la testa accennava alla porta. «Usciamo,» aggiunse.

Davide non voleva uscire, ma non voleva neppure rimanere lì da solo. Anzi, voleva qualcosa, ma non sapeva cosa. Forse solo svegliarsi, scoprire che era stato un sogno, un orribile sogno, un sogno che era cominciato quasi un anno fa, con la partenza di Matteo, e che adesso si era trasformato in un incubo, con la morte della madre. Un sogno, un sogno.

Ma non era un sogno e Davide lo sapeva. E sapeva anche un’altra cosa. Anche se solo pochi minuti prima aveva odiato riunioni e Isolazionisti, perché lo avevano distratto dai problemi della madre, in questo momento rimanevano l’unico aggancio che avesse, l’unica via verso una nuova vita. La vita da sopravvivente, che aveva spesso fantasticato. Per questo si alzò e si lasciò accompagnare fuori, in un ottundimento da novocaina.

Non era del tutto sicuro che seguirlo fosse una buona idea, doveva ammetterlo. Per qualche motivo, sentiva che Zeke era venuto lì per rimproverarlo, perché era in ritardo, perché la sua parte del grande piano, la parte che gli era stata assegnata, non era ancora stata conclusa e questo avrebbe di certo causato problemi agli altri. Voleva rimproverarlo, perché nella catena degli Isolazionisti lui si era dimostrato l’anello che non tiene. Davvero? Era di quello che voleva parlare, Zeke?

No, impossibile. Il capo era una brava persona, anche se a volte un poco strana, e non si sarebbe mai presentato lì, in ospedale, per sgridarlo davanti al corpo ancora tiepido della madre. Un’azione del genere sarebbe stata troppo brutale, troppo barbarica. Che cosa voleva, dunque? Comunicargli un qualche cambiamento, forse: dato che lui non aveva potuto completare la propria parte, era stata assegnata a un altro. Già, doveva essere così. Comunicazioni ufficiali, un riassetto nella struttura del gruppo. Davide non ne sarebbe stato felice, ma in fondo era il momento giusto: si sarebbe perso in mille altre infelicità. Nessuno sputo avrebbe mai innalzato il livello del mare.

Abbandonarono il corridoio bianco e silenzioso, entrarono in quella che sembrava una specie di sala d’attesa, con una decina di posti vuoti e un tavolino al centro, e si fermarono accanto a una vetrata, un’ampia vetrata che dava su un giardino interno. Un triangolo di verde, di piante e di fiori, chiuso su ogni lato dalle pareti bianche dell’ospedale; un angolo era illuminato, l’angolo più lontano, e il resto riposava nell’ombra dell’edificio. Sembrava fresco, anche se non sarebbe mai stato più fresco dell’ospedale stesso, coi suoi climatizzatori. Sembrava anche vivo, a differenza dell’ospedale.

«Possiamo fermarci qui,» disse Zeke. «C’è un bel panorama e soprattutto non c’è nessuno che possa disturbare. Un posto adatto a noi.»

Davide guardava dalla vetrata, ancora stordito dagli eventi del giorno. Zeke gli sembrava solo una nuova forma assunta dalle sue allucinazioni, forse un prodotto dei sensi di colpa. Gli andava bene anche così; per adesso, si accontentava di occupare spazio e consumare ossigeno, respirando. Era un modo per non dover pensare al dopo.

«Mi spiace per Larisa,» ripeté Zeke. «Non hai più nessuno adesso, giusto? Non sei proprio in una bella situazione, ragazzo mio.»

«Ho mio fratello,» rispose Davide, assente. «Ma è...»

«Su un altro pianeta, già. Un pianeta degli Altri.»

Davide alzò le spalle. Nell’angolo di giardino là fuori, qualcuno sfidava l’afa del pomeriggio, quella bolla di caldo che, secondo il medico, era responsabile della morte della madre. Ma non lo era. Era lui il responsabile, lui che non era stato attento. Un uomo vestito di bianco, un uomo giovane, forse un infermiere, oppure un medico. O anche un pizzaiolo, volendo. Che ci faceva là fuori?

Zeke lo afferrò per le braccia. «Ascoltami. Guardami!»

Stringeva. Faceva male. Era incredibile che ci fosse tanta forza, in quelle manine grassocce, eppure c’era, la sentiva premere in fondo alle dita, premere nei muscoli delle sue braccia. Davide contrasse la bocca, girandosi a guardarlo in faccia. E la faccia che gli rispose era la solita, che conosceva già da mesi di incontri, mesi di viaggi di ritorno dagli incontri. La faccia che una notte di primavera lo aveva accompagnato a casa, a piedi, parlandogli degli Altri e di cosa si stessero preparando a fare: una faccia rigonfia, dove galleggiavano due occhi da pesce, inespressivi. Soltanto che adesso non sembravano così inespressivi, forse per quel ciuffo di capelli grigi che sfiorava un sopracciglio.

«È importante, per cui vedi di ascoltarmi. Di esserci. Hai capito?»

Davide annuì. «Ti ascolto. Ci sono.»

«Bene. Tuo fratello lo sa? Lo hanno già avvisato? No?» Davide scuoteva la testa. «No, vedo di no. È ovvio, è appena accaduto. Lo avvertirò io, va bene? Lasciami il suo recapito e un messaggio, e al resto ci penserò io. Bisogna avvertirlo, capisci?»

«Tanto non verrà. Non gliene frega più niente di noi. Di me.»

«Forse sì, forse no, ma lo vedremo. Ricorda comunque che non è colpa sua. Te l’ho spiegato, no? Ti ho spiegato cosa succede a chi finisce nella loro rete, giusto? È partito per studiare, partono sempre tutti per studiare, ma alla fine restano presi, come mosche. È questo il vero pericolo dei pianeti degli Altri: sono viscosi, appiccicosi. Ti prendono, ti entrano sotto la pelle e non te ne accorgi, non pensi più a quello che c’è fuori di loro, a quello che hai lasciato indietro. È così che ci assimilano, è così che l’Ufficio vuole farci assimilare.»

«Ma lui non ha risposto. Non si è più fatto sentire.»

«Matteo è ipnotizzato. Forse potremo ancora salvarlo, più avanti, ma adesso è perso.» Era triste la sua voce, triste e rassegnata. Non sembrava lo Zeke Boodie che Davide aveva conosciuto. «Ma noi lo dobbiamo avvertire lo stesso. Forse servirà, o forse no, ma lo dobbiamo avvertire. Lui è tutto ciò che ti rimane della famiglia, giusto?»

«Sì.»

«Già, ed è un bel guaio per te. Ma non ti preoccupare, vedrai che una soluzione la troviamo. Anzi, una soluzione ce l’ho già, se ti va bene. Ci penserò io a te, fino a quando non partirai per Madre.»

Davide lo guardò, tentando di ricombinare i pezzi nella testa, anche se sembrava che troppi ancora ne mancassero. Da qualche parte c’era stato un salto logico, ma nessuno gli aveva detto di saltare anche lui e così era rimasto indietro. «Madre? Io partirò per Madre? Cosa...»

«Ne abbiamo parlato, non ricordi? No, adesso forse no, è chiaro. Lo shock, la confusione... ma te lo ricorderai, non temere. Dopo aver finito qui, tu partirai per Madre, perché là è il nostro futuro ed è là che ci servi. Partirai con quella pagliacciata che si sono inventati loro, quel Teatro di Oklahoma. Poi non ti dovrai più preoccupare, perché là sarai un colono in un mondo nuovo, da costruire: per te ci sarà posto in abbondanza e potrai prenderti cura di te stesso. Fino ad allora, però, ci penserò io a te. D’accordo? Potrai restare nel tuo appartamento, se vuoi: ti passerò io i soldi che ti servono.»

Era una buona proposta. Era un’ottima proposta. Ma perché? Perché voleva aiutarlo così tanto? E sì che doveva averlo deluso, non riuscendo a completare la propria parte nel piano. Gli sembrava strano, assurdo, ma in fondo non più assurdo di tutto ciò che gli stava accadendo. E forse lo voleva aiutare, perché aveva bisogno di lui, bisogno per il piano. Per un’altra parte del piano. Sì, questo gli sembrava più logico.

«Scusa se non ho potuto completare la mia parte,» disse Davide, a capo chino. «So che era molto importante, ma...»

Zeke spazzolò via le scuse, con un gesto della mano destra. «Non pensarci. Capisco i tuoi problemi e ci penserà qualcun altro a quella parte. Non sentirti in colpa, perché non è colpa tua. È successo, e basta. Ci sono altre cose per te, in futuro.»

Davide sorrise triste. «Bel futuro, già...»

«Lo sarà, vedrai. Conoscevo Larisa, come ti ho detto,» continuò Zeke, a voce bassa, «e non voglio che suo figlio abbia problemi. Tuo padre non me lo perdonerebbe. Come ti ho detto, penserò io a tutto. Lo farò per Ercole, vedrai.»

Per qualche secondo Davide dimenticò di respirare. «Mio padre? Cosa c’entra mio padre?» chiese, con un tono che non si poteva definire amichevole.

Uno strano sorriso tese i lineamenti irregolari di Zeke. «Lo conoscevo, sai. Conoscevo molto bene Ercole Cori. Cori con la ci, la kappa è arrivata dopo. Per questo mi fido di te e per questo ti aiuterò. Perché non potrei mai lasciare nella merda il figlio di Ercole. Dovunque sia finito adesso, lui non me lo perdonerebbe mai.»

Suo padre! Che strano sentire il suo nome, dopo tanto tempo, e proprio dalla persona da cui meno se lo sarebbe aspettato. Zeke Boodie, quel tipo che parlava con accento della regione Nordamericana e che si occupava di Isolazionisti della regione Mediterranea: cosa poteva avere avuto a che fare con suo padre, il non compianto Ercole Cori? Perché se ne usciva proprio adesso, quando a pochi metri da loro, sotto un lenzuolo, c’era il cadavere della mamma?

«Non l’ho mai conosciuto, io,» disse Davide, girandosi verso la vetrata. «Era già sparito da qualche parte, quando sono nato. Non si è neppure fatto vedere una volta.»

«Niente di strano, per chi è stato nell’esercito. Nell’esercito e su Madre,» aggiunse Zeke. «Ci siamo stati assieme, in effetti, tanto tempo fa. Ti interessa saperne di più?»

Zeke lo guardava con una vaga curiosità. Davide ricambiò lo sguardo per un momento, poi abbassò gli occhi. Gli interessava saperne di più? Gli interessava sapere qualcosa del padre, che non aveva mai visto? Aveva il sospetto che forse non sarebbe stato un bene saperlo, perché se Zeke era stato davvero suo amico, o suo collega, o qualcosa del genere, allora poteva esserci un altro motivo dietro la sua gentilezza. Potevano aprirsi mille altri mondi, dietro le parole di Zeke, e Davide non era sicuro di volerli scoprire. Perché si era fissato tanto proprio con lui, per esempio? Perché era lui che accompagnava, dopo ogni riunione, e non qualcun altro del gruppo? Perché Davide era migliore del resto del gruppo, certo, o almeno così aveva sempre voluto pensare. Ma...

Scosse la testa. Se, ma, però: servivano a qualcosa? Era solo, sua madre era morta, suo fratello era su un altro pianeta. Se voleva vivere, e non sopravvivere, a qualcuno o qualcosa si doveva pure appoggiare, almeno per un poco. Zeke era lì, gli altri non c’erano. La scelta era molto semplice. A ciò che eventualmente sarebbe successo poi, avrebbe pensato poi. Eventualmente.

«Parlami di mio padre.»

Zeke Boodie gliene parlò, nella sala d’attesa di quell’ospedale, vuota come era vuoto il mondo che appariva adesso fuori dalla vetrata. Gliene parlò a lungo, o almeno più a lungo di quanto Davide si sarebbe aspettato.

Secondo la sua descrizione, Ercole Cori aveva i capelli che avrebbe ereditato Matteo, la statura che avrebbe ereditato Matteo e la muscolatura che non avrebbe ereditato Matteo. Ed era un soldato. Ed era stato su Madre, assieme a Zeke, nel corso della seconda spedizione. La spedizione decisiva, che aveva avuto successo, e che era stata guidata dal Direttore Leonardi in persona. O in mente, se si voleva essere più precisi, dato che soltanto la sua coscienza era partita. Ventuno anni prima.

Erano imbarcati su una delle due navi da guerra di appoggio, quelle che sarebbero rimaste in orbita, a sorvegliare dall’alto il pianeta, ma soprattutto a controllare che nessuna nave si avvicinasse. «Era ossessionato dagli Altri, il Direttore,» gli spiegò Zeke. «E forse aveva ragione, dopotutto. C’erano state segnalazioni di una nave di Agni nel sistema solare di Madre, che non si chiamava Madre, non ancora, ovviamente, e nel corso della missione abbiamo davvero avvistato quella nave. Non ci ha fatto niente, deve aver visto che ci eravamo già agganciati al pianeta ed eravamo pronti a difenderlo, così se n’è andata. A conti fatti, solo una perdita di tempo, per noi.»

Era stato anche qualcosa di più, in realtà, almeno per lui e per Ercole. Era stato il biglietto che aveva regalato loro un viaggio sul pianeta, quando invece l’incarico iniziale era di restare sulla nave e di controllare il cielo: altri avrebbero sorvegliato i pozzi, non loro due. Eppure, la nave di Agni aveva cambiato le cose. Il Direttore Leonardi e il Comandante Hass, i capi di quella spedizione, avevano dichiarato lo stato di guerra, come da manuale, e alcuni uomini di riserva erano stati sbarcati su Madre, per sorvegliare anche le rovine.

«E hanno scelto noi,» disse Zeke. «Non dovevamo scendere, il nostro incarico era a cinquantamila chilometri dalla superficie, eppure siamo scesi lo stesso. È così che vanno le cose, quando sei dentro l’azione: i piani esistono, ma i piani cambiano, crescono, si evolvono. E quando siamo usciti dalla cabina dell’ascensore, quando ho calpestato la terra di Madre e ho respirato la sua aria, quando ho visto le rovine che stavano disseppellendo, allora ho sentito che Madre era diversa. Non era soltanto un pianeta, ma era il futuro. Era il nostro futuro.»

«È per questo che mi vuoi mandare là?» chiese Davide.

«Per questo, ma non solo. Dopo che avremo colpito, la Terra sarà un posto scomodo per te e per altri, almeno per un poco. Cambiare aria sarà più sicuro e Madre è il luogo che ti appartiene. Ancora non lo puoi capire, ma è così, fidati. Lo capirai fra non molto. Ma non è questo il punto, adesso. Il punto è ciò che ci accadde su Madre. Questo cambiò tutto, per noi.»

Li avevano assegnati agli scavi, con l’incarico di sorvegliarli, non lasciare avvicinare nessuno senza un permesso e scortare gli archeologi, quando arrivavano o quando partivano. Misure inutili, dal primo all’ultimo ordine, perché la nave di Agni non sfiorò neppure l’atmosfera di Madre, ma questo era secondario. Erano militari ed eseguivano i comandi. Sorvegliare gli scavi fu un compito facile, soprattutto perché gli unici nemici nel raggio di migliaia di chilometri erano l’aria e la noia. Perché le rovine erano maestose, certo, la testimonianza di una civiltà sconosciuta, scomparsa molto prima che la nostra potesse distinguersi in modo apprezzabile dagli altri animali, ma le rovine erano anche noiose. E quel tratto di pianeta era un letamaio.

«Tutto il giorno in un paesaggio che sembrava un cacatoio per gatti, con un sole che non ti scalda e niente da fare, se non guardarsi in faccia a vicenda. Poco da divertirsi, eh?» commentò Zeke, con una strizzata di occhio.

Poi la missione era finita, o almeno la missione di quelli importanti, dei Direttori e dei Comandanti: la loro nave era ripartita per la Terra, lasciando indietro i militari e una manciata di studiosi, gente che viveva incollata a uno schermo. Dovevano continuare gli scavi e altre ricerche, mentre i militari li avrebbero protetti. Formalmente. In realtà, dovevano sorvegliare Madre e assicurarsi che Agni, o qualche altro mondo coloniale, non facesse brutti scherzi. Avevano sorvegliato, spendendo giorni a mangiare polvere, in attesa del cambio. Zeke ed Ercole erano rimasti sempre agli scavi, fino a che non li erano venuti a chiamare.

«E qui posso dirti solo quello che tuo padre mi ha raccontato, al ritorno. Chiamarono lui e fu lui ad andare, mentre io restavo a fare la balia ai sassi,» spiegò Zeke, sorridendo all’interesse che leggeva sul volto di Davide.

Qualcuno aveva visto del movimento, nel pozzo numero cinque, e i sensori avevano percepito un movimento, così era stata aumentata la guarnigione in quel punto, ma gli altri pozzi erano rimasti a corto di uomini. Non erano abbastanza per sorvegliare sul serio nove pozzi, ognuno del diametro di un chilometro! Così avevano chiamato Ercole Cori, per rafforzare la guardia attorno al pozzo sette.

«C’era da cagarsi addosso, di notte. Così mi ha detto, durante il viaggio di ritorno. E io gli credo.» Zeke fissò il ragazzo, annuendo. «Gli credo. Perché non mi è toccato farci la guardia, questo no, ma li ho visti. Li ho visti da vicino. C’è da cagarsi addosso e sono contento che adesso siano tutti zona militare. Perché ne hanno trovati altri, sai? Altri quattro gruppi di nove, sparsi per il pianeta.»

«Ma cosa sono quei pozzi?»

«Pozzi. Hai presente? Buchi cilindrici, a base circolare, che affondano nella roccia del pianeta. Nove nel punto in cui ci trovavano noi, altri gruppi sempre di nove in altre zone di Madre, per quel che ne so io. Sono enormi, sono bui e vanno giù per chilometri. E in teoria non dovrebbero essere possibili, non con una gravità che è solo di poco inferiore a quella terrestre. Dovrebbero collassare su se stessi. Ma non lo fanno.»

«Ma...»

«Lasciami continuare con la storia, adesso. Ok?» E Davide lo lasciò continuare.

Ercole sorvegliava il suo pozzo, il numero sette, ed era un pozzo tranquillo. Un perfetto cerchio di nero, scavato nella roccia, ma tranquillo. Nessun movimento, nessuno rumore, nessun odore. Solo il numero cinque non era tranquillo, ma bastava per tutti. C’erano sagome che si muovevano, giù nel buio, sagome che potevi scorgere a malapena, come bassorilievi consumati, ma che non si facevano mai vedere. Neanche quando avevano puntato i fari nel pozzo, niente. I fasci di luce scendevano per almeno un chilometro, ma mostravano solo aria, aria e le pareti lisce del pozzo. Ma le cose che si muovevano erano sempre là, appena oltre i limiti del raggio.

«Non era un bel momento, sul pianeta. Pensavamo tutti ai nemici di fuori, ad Agni, ma nessuno si era mai preoccupato dei nemici che potevano esserci dentro. Dalla Terra dicevano di aspettare e di portare pazienza: una nuova nave sarebbe arrivata a breve, a darci il cambio, e altri rinforzi erano in fase di preparazione. E poi eravamo militari, no? Eravamo addestrati. Davvero bastavano ombre a farci paura? Eravamo davvero così fifoni? Ma non c’erano solo ombre, no.»

Zeke si spostò verso la vetrata. Aveva lasciato andare già da tempo le braccia di Davide e adesso lo tratteneva soltanto con la voce, col racconto della loro missione su Madre. Bastava. Davide beveva ogni parola, come se fosse appena uscito da un deserto di silenzio. Ma era giusto così. Non sapeva nulla del padre, nessuno gli aveva mai raccontato di lui, né Matteo né la madre: soltanto vaghi accenni al fatto che a Ercole piacesse viaggiare e cambiare, e adesso una persona riempiva il vuoto, mostrandogli un corpo dietro al nome che conosceva, un volto dietro le anonime fotografie. Il volto del padre. La storia del padre. Tutto procedeva bene, per Zeke. Tutto come da programma.

«Ti ripeto che io non ho visto nulla di tutto ciò, non direttamente. Il mio compito era di sorvegliare gli scavi ed era il compito più noioso che si possa concepire. Ma gli altri parlavano e io ascoltavo. Sia i miei colleghi, sia gli archeologi che lavoravano dove ero io. Parlavano, perché non puoi tacere, quando accadono certe cose. E più di ogni altro parlò Ercole, in seguito. Quando tutto era finito.»

Non c’erano movimenti nel pozzo numero sette, eppure qualcosa ne uscì. Ercole Cori non la vide subito, perché in quel momento era distratto e i suoi occhi si erano rivolti verso il punto dove tutta la folla si raccoglieva. Il pozzo numero cinque, quello coi movimenti. C’erano i militari di guardia, ma anche due o tre studiosi, che i militari scortavano fino ai pressi del bordo. Volevano vedere di persona? Probabilmente sì, o forse si sperava che potessero capirci qualcosa. Difficile, ma non del tutto impossibile. Uno degli studiosi rimasti non era un archeologo, ma un exologo, no? Quelli che studiano gli animali degli altri pianeti e aveva strane idee sulla fauna di Madre. Forse...

Ercole sentì un prurito alla base della nuca. Alzò una mano per toccarsi e qualcosa si mosse, appena prima che le sue dita raggiungessero il collo. Qualcosa che sembrò staccarsi da lui e volare via. Non lo sentì, ma lo vide, quando si girò di scatto. Un insetto, o una roba simile a un insetto. Simile a un tafano, per la precisione, ma più lungo e con sei paia di ali: vibravano senza rumore e lo tenevano in aria, come se fosse un vecchio elicottero, mentre quello schifo lo fissava con due serie di occhietti sfaccettati, come semafori di cristallo. Poi volò via e si tuffò a peso morto nel pozzo.

Avrebbe fatto rapporto, certo, e difficilmente si sarebbe dimenticato la scena, se non fosse stato per il sangue. Perché c’era sangue e lo aveva visto molto bene, su quelle due proboscidi (pungiglioni?), che spuntavano dalla testa dell’insetto. C’era sangue anche sulle sue dita, dopo aver toccato la nuca, là dove l’insetto si doveva essere posato. Solo una traccia, ma c’era. L’aveva morso, punto, o chissà cos’altro ancora. Ebbe appena il tempo di chiamare il suo collega, sull’altro lato del pozzo, prima di svenire, mentre il mondo diventava grigio e gli si affievoliva attorno.

«In effetti, non era sicuro di essere svenuto,» spiegò Zeke. «E non era sicuro neanche del perché. Lo shock anafilattico, forse, o forse la paura, o una reazione allergica. Neppure il medico glielo seppe dire, di preciso: poteva solo escludere il veleno, ed era già qualcosa. Aveva due fori sulla nuca, là dove finiscono i capelli, ed erano anche piuttosto grandi. Come se gli avessero tolto due viti, più o meno. Capisci? Però quell’insetto non gli aveva iniettato nulla, o almeno il medico non trovò nulla nelle analisi del sangue. Ercole si riprese in fretta, ma non gli passò mai la paura. Non si avvicinò più ai pozzi e lo dovettero trasferire di nuovo agli scavi, dove c’ero anch’io. Ma a parte questo, e a parte tutte le analisi del mondo, c’è anche un’altra paura che non gli è mai passata: di essere stato infettato da Madre. Non ha senso, eppure non se l’è mai tolta di testa.»

Davide lo guardava in silenzio. Era pallido, con le labbra pressate, e il suo volto diceva che non gli voleva credere, ma che gli credeva lo stesso. Forse non a tutto, forse non subito, ma gli credeva. E perché mai avrebbe dovuto mentirgli, in fondo? Non è che gli avesse rivelato chissà quale segreto! Era solo un piccolo episodio della vita del padre, quel padre che per lui era stato un nome e una foto, fino ad allora. Adesso, almeno, era anche qualcosa di più. Una piccola storia.

«E poi siete tornati sulla Terra?» gli chiese.

«Poi siamo tornati sulla Terra ed Ercole è rimasto a casa in licenza, per un po’. Deve essere proprio il periodo in cui è nato tuo fratello, più o meno. Diceva di non voler più tornare là fuori, su Madre, e che piuttosto avrebbe lasciato l’esercito. Ma non lo lasciò. Per un altro po’ gli assegnarono soltanto incarichi a terra, niente viaggi e niente spedizioni nello spazio. Alla fine, però, il Comandante Hass decise di tornare su Madre e noi due lo seguimmo. Eravamo nel reparto assegnato a lui, dopotutto: il Comandante Hass, l’attuale Ministro Hass, hai presente? Il ministro della difesa. Lui sì che ne ha fatta di strada, eh? È quello che ti succede, se hai gli amici giusti, e lui ce li aveva. Faceva coppia fissa col Direttore Leonardi e qualsiasi cosa abbiano combinato su Madre, l’hanno combinata insieme, di comune accordo.»

«E siete ripartiti...»

Zeke sorrise. «Siamo ripartiti per Madre, deve essere stato più o meno qualche mese prima che tu nascessi. Per questo non c’era, in quel periodo: era fuori per lavoro.»

Davide sorrise amaro. Ecco perché. Non era un granché di spiegazione, ma almeno era meglio di niente. Suo padre aveva messo di nuovo incinta la mamma e poi via, nello spazio. E magari non aveva mai neanche saputo di essere diventato padre per la seconda volta. Che bella sorpresa, per lui!

«Stavolta, però, avevamo due incarichi diversi,» continuò Zeke. «Io ero nella scorta di Hass e sono rimasto sul pianeta, fino a che ci è rimasto anche lui, poi siamo tornati sulla Terra. A Ercole, invece, era toccato il peggio: era tra quelli che dovevano dare il cambio a una squadra e così sarebbe dovuto rimanere su Madre, per chissà quanto tempo. Un anno, almeno, o forse due. Ma in realtà non è più tornato. Al cambio successivo, lui non c’era e da allora non ho più saputo niente.»

Davide respirò a fondo. «È morto?» O è scappato?, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece. Per qualche motivo, non gli sembrava il caso. Non adesso, almeno.

Zeke Boodie alzò le spalle e scosse la testa. «Non lo so. Può essere vivo, può essere morto, non ne hanno più parlato. Missing in action, se preferisci. Svanito nel nulla, puff! È stato allora che io ho lasciato l’esercito. Avevo un amico, che è partito per la sua missione, e non è più tornato. E nessuno ha voluto dirmi nulla. Non potevo più restare tra loro, tutto qui. Non era più il mio posto.»

E con questo, la storia sembrava finita. Davide aveva atteso, sperando che la risposta alla domanda si sarebbe presentata da sola, ma così non era successo. Doveva chiedere, dunque: chiedere, per tappare il buco rimasto nel racconto di Zeke. Quella cosa che Zeke aveva lasciato in sospeso, per continuare il racconto, e che forse aveva dato per scontata, ma che scontata non era, almeno non per Davide. Lo chiese.

«E quei pozzi? Puoi parlarmene meglio, adesso?»

Zeke ne fu sorpreso. «Davvero non hai mai sentito parlare dei pozzi? Credevo che te ne fossi solo dimenticato, per lo shock e tutto il resto. È probabilmente l’anomalia più famosa di Madre, e forse anche di tutte le colonie. Vuoi dire che li hanno nascosti così bene, sotto un segreto militare, che anche la loro memoria si è persa, in una ventina di anni?»

Davide scrollò le spalle. «Mai sentiti, non so perché. Non mi intendo di queste cose. So solo quello che hai detto tu prima.»

«Non importa, te lo spiegherò io. Si tratta di pozzi, perfettamente cilindrici, con una base rotonda del diametro di un chilometro circa e profondi... mah, non ricordo la cifra esatta, a dire il vero, ma si tratta di diverse centinata di chilometri. Non sappiamo a cosa servano, non sappiamo chi li abbia scavati o perché, non sappiamo nemmeno se siano naturali, oppure artificiali, anche se sembrano un po’ troppo precisi, per essere del tutto naturali. Inoltre, non sappiamo neppure perché la gravità non li abbia ancora fatti collassare, come sarebbe dovuto accadere già da tempo. O almeno,» aggiunse Zeke, «noi persone comuni non lo sappiamo, ma non escludo che i militari e i capi, quelli che hanno preso tutto in custodia, ne sappiano di più. Sai come funzionano, queste cose...»

Davide non sapeva, ma poteva immaginare. «E cosa c’è in fondo ai pozzi?»

«Altro segreto militare. Il comandante Hass e il direttore Leonardi sono scesi in un pozzo, assieme a un paio di altri soldati scelti, ma hanno detto qualcosa? Non a me e non a nessuno di quelli che mi hanno voluto parlare. È dove sono spariti quelli della prima spedizione, secondo le storie, e ti posso dire che anche uno di loro, un segretario o qualcosa del genere, è morto. Era l’aiutante di Leonardi, o il suo schiavo, come preferisci. Ma non è morto nel pozzo. È morto mentre tornavano sulla Terra e si è suicidato. Per qualcosa che ha visto? Per qualcosa che ha fatto? Nessuno lo sa, a parte forse i capi. No, togli il forse: Hass e Leonardi lo sanno di sicuro.»

«Ma voi non sapete niente di più sui pozzi.»

«No, niente di più. Quello che ti ho detto e basta. Sono segreto militare, adesso, per quanto ne so io. Se non l’esistenza dei pozzi, almeno il loro contenuto è segreto militare.»

Davide restò a fissare il vuoto, in silenzio, per un certo periodo. Rifletteva. «Un pozzo misteriosi, da cui è uscito uno strano insetto e ha punto mio padre,» disse infine, a bassa voce.

«Esattamente. E qualunque cosa gli sia successa, io sospetto che quella puntura sia alla base della sua scomparsa. La scomparsa di tuo padre, Ercole Cori. Il mio amico Ercole Cori.»

Per qualche minuto ci fu di nuovo silenzio, nella saletta. Nessun paziente in vista, nessun visitatore a vagare nei corridoi, nessuna infermiera a chiedere loro cosa stessero facendo. L’ospedale poteva essere una casa abbandonata, per quel che ne sapeva Davide. Si sedette cauto e si prese la testa tra le mani, massaggiandola un poco.

«Che cosa vuoi da me, allora?» chiese a Zeke.

«Ho perso un amico che non ho potuto salvare. Ho visto morire sua moglie, poco fa. Adesso resta soltanto il figlio di quell’amico, la mia ultima possibilità. Lascia che io aiuti te, adesso. Lavora con me, come già fece tuo padre, anni fa. Ma stavolta non sarà per l’esercito, per l’Ufficio o per qualche comandante. Stavolta lavoreremo per noi, e per la Terra. Per dare alla Terra un futuro, che non passi attraverso gli Altri. Aiutami a colpirli, a scardinare il governo, e io ti aiuterò ad arrivare su Madre. E chissà, magari potresti scoprire qualcosa su tuo padre, ma è solo una possibilità molto remota, dopo tanti anni. Ma su Madre potrai fare molto di più, perché è là che si gioca il nostro futuro. Su Madre tu sarai il nostro uomo più importante.»

Zeke gli tese una mano, una mano grassoccia e bianca.

«Accetti?»

Davide la fissò, come se non avesse mai visto una mano in tutta la sua vita; la fissò in silenzio, nella pace e nel fresco dell’ospedale. Era solo, non aveva prospettive, non aveva qualcuno vicino a cui appoggiarsi, a cui poter chiedere consiglio. Aveva solo quella mano, tesa davanti a sé, tesa da un vecchio amico di quel padre, che lui non aveva mai conosciuto. La mano tesa dal capo, che aveva invece imparato a conoscere e stimare, negli ultimi mesi. Davide si alzò e la strinse. «Accetto.»

Da quel momento, il suo destino non gli appartenne più.