Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 20

Digerire le novità apprese sulla natura di Lakshmi, almeno nella versione riveduta e corretta che il buon Chakra gli aveva fornito (e sospettava che non fosse del tutto corretta, né del tutto accurata, ma per il momento poteva bastare), fu un processo lungo e non indolore, per Matteo Kori. Durò per tutto il resto dell’autunno, in un’altalena di paranoia e rassegnazione, mentre attorno a lui il pianeta, o almeno la piccola frazione di pianeta su cui lui e i suoi amici avevano dimora, cambiava secondo il tradizionale valzer delle stagioni. Sarebbe stato affascinante da seguire, se non avesse avuto altri pensieri per la testa.

Il verde intenso e monotono degli alberi si era frantumato in un caleidoscopio di tinte, sfumature, riflessi, nella maschera più classica dell’autunno, per virare infine verso un look più spelacchiato e consunto, a mano a mano che la stagione fredda si avvicinava e il mondo si preparava come suo solito ad accoglierla. Non che fosse poi così fredda, almeno per il metro di Matteo, ma era ciò che da quelle parti passava per stagione fredda e così l’avrebbe dovuta accettare.

Pignolerie climatiche a parte, l’esplosione di vita estiva era ormai diventata un ricordo, e questo era un dato oggettivo e indubitabile, assieme al caldo afoso di quel tempo, e questa era certo cosa buona e giusta. Le vie erano ventose, decisamente ventose, ma gli insetti che le avevano infestate nelle due stagioni precedenti erano adesso svaniti, come sempre gli insetti sembrano fare, quando la stagione cambia; parchi e campagne avevano riscoperto il silenzio, almeno per le orecchie di Matteo, e tutte le varie forme di vita sembravano essersi preparate a dormire, o a qualunque altra cosa facessero in inverno, su quel pianeta. Matteo non lo sapeva e non era troppo interessato a scoprirlo. Non adesso.

Alla fine lo digerì. Quell’incubo assurdo di controllo totale, che Chakra aveva delineato con tanto gusto, e probabilmente più di una punta di sadismo, finì incasellato a dovere nelle categorie mentali più appropriate: l’immagine della boccia di vetro abbandonò la morsa, si fece sfocata, vaga, e pian piano scivolò via dalla sua coscienza. Era un mondo assurdo, Lakshmi, e lo era sotto molti aspetti, ma non era un mondo del tutto negativo. Aveva abitudini malsane, regole di difficile comprensione, filosofie allucinate, ma era anche un mondo che ti nutriva, ti accudiva e ti forniva tutto ciò di cui avevi bisogno. Un genitore strano, che ti vizia e ti controlla. Forse non buono, ma non malvagio.

Il Baffo continuava a comparire, più e più volte, nei luoghi e nelle strade che Matteo frequentava, ma anche lui ormai stava diventando una figura sullo sfondo. C’era, sì, ma non faceva nulla e lo si poteva anche dimenticare. Adesso capiva l’indifferenza con cui Kemala lo aveva liquidato, quando lui gli aveva parlato di quell’individuo strano, che lo seguiva. Baffi o trichechi che fossero, erano solo relitti del passato, secondo la definizione di Chakra, e adesso era pronto ad accettarli così anche lui. Forse. A grandi linee. Sapeva tutto sarebbe potuto cambiare in ogni momento, se mai il Baffo avesse deciso di fare qualcosa, ma finché si limitava a guardare... che guardasse pure, no? A sentire Chakra, era in buona compagnia, su quel pianeta di guardoni.

Poteva ignorarlo, sì, perché aveva altro a cui pensare, ormai. La laurea specialistica di Bogdan, per esempio, e la sua imminente partenza per la Terra. Sua di Bogdan, non sua della laurea. E non era il solo a partire. Ci sarebbe poi stata la sessione invernale di esami a cui pensare, in effetti, ma Matteo preferiva evitarlo. Non era stato capace di concentrarsi più di tanto, durante l’autunno, ed era ormai moderatamente convinto che gli esami sarebbero stati una mattanza per lui, un massacro impietoso. Ci avrebbe pensato a suo tempo, premurandosi nel mentre di studiare, ma senza fretta. Le urgenze erano altre.

La questione del Baffo aveva trovato una risposta, per quanto insoddisfacente e, soprattutto, prona a generare ancora più domande di quante lui ne avesse all’inizio. A ogni modo, la figura sospetta di quello strano tizio, che sembrava pedinarlo ovunque, aveva perso l’urgenza iniziale ed era rientrata, da un certo punto di vista, in un quadro più normale degli eventi. Poteva ignorarlo, per adesso, e non ci sarebbero state conseguenze negative. O così diceva Chakra. Ciò che non poteva ignorare, però, era Kemala stessa, causa prima della comparsa del Baffo, nonché di svariati altri disturbi nella sua vita regolare di studente universitario.

Si sarebbe laureata in inverno, così diceva. Dopo la laurea, sarebbe partita per la Terra, così diceva. Dopo essere arrivata sulla Terra, si sarebbe finta terrestre, per imbarcarsi sul Teatro di Oklahoma, qualunque cosa fosse, e puntare verso Madre. O così diceva. E lui, Matteo, l’avrebbe aiutata.

Non era così che aveva immaginato la propria vita universitaria, prima di partire per Lakshmi. Nei suoi pensieri, sarebbe dovuta essere un comodo, pacifico ciclo di lezioni ed esami, nuove lezioni e nuovi esami, fino alla laurea e al successivo ritorno a casa. Ci sarebbero stati amici, ma soprattutto amiche, con cui condividere lezioni ed esami, oltre al tempo libero che, tra una cosa e l’altra, era certo di poter trovare. O di potersi procurare, nel peggiore dei casi. Amici e lezioni, lezioni ed esami e di nuovo amici, e così via, nei secoli dei secoli, amen.

Apprendimento e vita sociale, vita sociale e apprendimento: così aveva immaginato la propria vita universitaria, prima che quella vita cominciasse. Una vita soddisfacente, dal suo punto di vista, e il più possibile in linea coi suoi gusti personali. Era stata davvero così, almeno all’inizio. Ok, meno vivace di quanto avesse sperato, ma soddisfacente, sì. Si poteva accontentare. Si accontentava di poco, in fondo. Poi la vacanza a Bishapur aveva scombinato tutto e scaraventato decine di fialette puzzolenti nel mezzo della festa. Per modo di dire, certo. Così adesso si ritrovava a giocare agli agenti segreti, con una pazza che puntava a infrangere più leggi di quante Matteo ne conoscesse, e intenzionata a farlo col suo aiuto. Pazza affascinante, ok, ma pur sempre pazza.

Era praticamente certo che gli esami invernali sarebbero andati male, con tutte le distrazioni che aveva avuto nel mezzo. E ancora non aveva detto nulla ai suoi amici, anche se, secondo Chakra, era molto probabile che Sharma sapesse già tutto, grazie alla fantastica rete di sorvegliata lakshmita. Il fantastico ovviamente era ironico. Non c’era proprio niente di fantastico, in quella storia.

«Ricordati sempre che vivi in una boccia di vetro trasparente,» aveva detto Chakra, concludendo la spiegazione. «Non è detto che ci sarà sempre qualcuno a guardarti, ma è certo che non avrai posti in cui nasconderti, se mai ne dovessi averne bisogno. Cerca quindi di essere il più noioso possibile, se non vuoi essere guardato, ma ricorda che no avrai mai la certezza di non essere guardato.»

Matteo avrebbe voluto una vita noiosa: una vita noiosa era il suo sogno, inconfessato ma facile da intuire. Laurearsi, tornare sulla Tera, trovare un posto qualsiasi come insegnante, possibilmente con un basso profilo, e vivere come una pianta grassa per il resto dei suoi giorni. Peccato solo che, in apparenza, il resto del mondo non fosse dello stesso parere. Aveva attirato fin troppa attenzione, con quella storia di Kemala, e adesso poteva solo sperare in un ritorno al sano, pacifico anonimato, dopo la laurea di quella tizia. Non chiedeva altro, almeno al momento.

Attorno a lui, il ciclo delle lezioni proseguiva. Corsi, esami, corsi, esami: un samsara scolastico in cui tutti si sentivano imprigionati, ma in cui molti trovavano anche il proprio moksa, la liberazione, quando l’ultimo esame era sostenuto, concluso l’ultimo scampolo della tesi: allora, in un mattino di inverno, la brina avrebbe accompagnato i passi verso l’aula magna, verso la discussione della tesi e ancora oltre, verso l’uscita dal mondo universitario. Fine del ciclo sempiterno, fine di un’epoca per ogni studente.

Alcuni sarebbero tornati indietro a specializzarsi, altri sarebbero rimasti tra le stanze dell’università, come bodhisattva, per ricercare e insegnare ciò che avevano appreso. Altri, la maggioranza, non avrebbero più rivisto quegli edifici, se non per le nostalgiche riunioni che, un giorno, li avrebbero richiamati assieme ai vecchi compagni, per ricordare il passato e avere nuove scuse per ubriacarsi.

Bogdan Stratos era tra coloro che se ne sarebbero andati.

Si era laureato, in un inverno di qualche anno prima, e adesso avrebbe terminato anche il suo corso di specializzazione. A ogni grado in meno sul termometro, la Terra si avvicinava di un poco, per lui. Sprintò attraverso l’autunno, si lanciò a braccia aperte nell’inverno, come un maratoneta che taglia il traguardo; amò il freddo lieve di quelle latitudini e preparò tutti gli effetti personali, per il lungo viaggio di ritorno verso casa. E, tra mille patimenti, concluse la tesi specialistica, a dispetto del suo relatore. Fu una soddisfazione del tutto particolare.

«Ti spiace se ti lascio un po’ di cianfrusaglie?» aveva chiesto a Matteo, in un pomeriggio di inizio inverno. «Non so dove metterle e comunque è tutta roba che ti potrebbe servire. Forse,» aveva poi aggiunto, con più incertezza. «In realtà è che non mi sembra giusto buttare tutto, sai com’è.»

Matteo sapeva. Per quanto ogni cosa, su Lakshmi, sembrasse essere usa e getta, e la semplice idea di possessi personali attirava sguardi strani dagli abitanti, la sua mentalità terrestre opponeva una resistenza quasi invalicabile a quel pensiero. Non gli sembrava giusto gettare, o depositare in un centro di raccolta, come dicevano lì, un oggetto che poteva ancora essere utile. Ok, funzionava così, ma non sembrava giusto. Sembrava uno spreco.

«Sì, capisco,» aveva risposto a Bogdan. «Ci penserò io. Magari ci sarà davvero qualcosa di utile, lì in mezzo.»

«Sei ottimista, ragazzo. Ma ti ringrazio.»

Effettivamente era stato ottimista, come aveva scoperto quella sera, nell’alloggio. Avrebbe dovuto capire subito che le cianfrusaglie di un planetologo sarebbero state pressoché inutili per un letterato, se non come combustibile di emergenza, ma la speranza e la capacità di illudersi sono due difetti strutturali dell’essere umano, forse prodotti dall’evoluzione stessa come forma di estrema difesa. A ogni modo, erano pur sempre ricordi dell’amico, che gli aveva fatto da guida all’arrivo su Lakshmi e da consigliere di emergenza in altre occasioni: per quanto priva di valore pratico, quella roba non sarebbe stata immondizia completa. Grossomodo.

Sharma l’aveva pensata in modo un poco diverso, quella sera: forse perché il concetto di “un po’”, posseduto da Bogdan, era alquanto diverso dal suo, o forse soltanto per una differenza culturale. Sia come sia, si ritrovarono un un armadio ricolmo di quelle che Sharma definiva “cianfrusaglie” e che Matteo etichettava invece come “ricordi”. Ne discussero un poco, con calma, e alla fine Sharma lo lasciò fare, stringendosi nelle spalle. Si trattava chiaramente di una qualche mania terrestre, che lui non avrebbe potuto comprendere.

Più vivace fu la reazione di Chakra, quando lo scoprì, e per una ventina di giorni non si risparmiò le battute sugli usi inenarrabili, che Matteo avrebbe potuto fare con quegli oggetti, dislocandoli in aree più appropriate della propria geografia corporea. In fondo, l’amico gliele aveva lasciate proprio per quello, no? Doveva conoscerlo molto bene... Matteo sopportò, stoico suo malgrado, e alla fine pure quella moda si spense. La normalità fu ripristinata, almeno a grandi linee.

Passarono decisamente meno bene alcuni esami, come Matteo aveva già previsto, ma il fatto che si fosse tutto svolto secondo previsione non ne migliorò l’umore generale. Per una volta, sbagliare il pronostico sarebbe stato molto meglio, anche se l’averlo indovinato lo aiutò a sentirsi di nuovo, e in parte, all’interno della vita regolare e prevedibile che tanto amava. Valeva come bicchiere mezzo pieno, forse. E alla fine della sessione invernale, a specializzazione ormai smaltita, Bogdan ripartì.

Ripartì in un giorno d’inverno moderatamente limpido, a Varshi, ma piuttosto nuvoloso all’imbarco dell’ascensore spaziale, molto più a sud. Era il sessanta di Inverno, quando ormai anche la stagione delle lauree e dei saluti era prossima alla fine, proprio come prossima alla fine era la stagione fredda, o più precisamente fresca, perché in quelle zone sarebbe stato blasfemo parlare di freddo: la neve era qualcosa che nessuno aveva mai visto, non dal vivo, non lì.

Lo avevano accompagnato quasi tutti, più o meno lo stesso gruppo della vacanza a Bishapur, quella vacanza a cui proprio Bogdan non aveva partecipato, nonostante gli inviti. Ma si conoscevano già da prima, dalla serata al centro culturale, così come da svariate altre serate nel corso dell’anno, in locali dove si erano trovati a spizzichi e bocconi, per chiacchierare, bere e rilassarsi. Un cartello, per scherzo, lo salutava con un maiuscolo “Terrestre vai a casa!”, scritto da chissà chi e issato con un certo imbarazzo da Lin Yutang, vittima designata tramite iniquo sorteggio (in quanto gestito da Chakra e quindi probabilmente truccato). Bogdan aveva riso, fingendo di colpirlo con la valigia.

Erano partiti il pomeriggio del cinquantanove, avevano pernottato a Mathurnath, la città alla base dell’ascensore, e avevano festeggiato tutti assieme. Chakra aveva cercato di far bere Matteo, ma con suo grande rammarico non ci era riuscito. «Dovresti collaborare,» lo aveva rimproverato. «Domani il tuo amico se ne tornerà a casa: lascialo partire con un ricordo indimenticabile, dai!»

«E secondo te vedermi intossicato sarebbe un ricordo indimenticabile?»

«Perché non sai quello che hai fatto l’ultima volta!»

Un coro di risate aveva accompagnato quella replica di Chakra, che aveva tinto le guance di Matteo di un interessante tonalità scarlatta, con sfumature color prugna. Ma non aveva bevuto, purtroppo, e così si erano dovuti accontentare di un normale regalo di addio per Bogdan, invece di lasciargli un ricordo che, anche se non proprio fra i suoi migliori, sarebbe rimasto di sicuro tra i più bizzarri e un poco inquietanti. «Sarà per la prossima volta,» aveva detto Bogdan, allargando le braccia.

«Non ci contare,» aveva risposto Matteo.

«Allora sarà per qualche altra volta, sulla Terra, quando anche tu avrai finito.»

«Di questo ne possiamo parlare,» aveva sorriso Matteo, mentre un vago pensiero di come sarebbe potuto essere il suo ritorno a casa gli attraversava la mente. Sarebbe stato piacevole avere un amico come Bogdan, sulla Terra.

E così, tra una risata e l’altra, si fece la mattina del Sessanta. Salirono tutti assieme, con l’ascensore, e tutti assieme scortarono Bogdan attraverso la stazione orbitale. Sopra di loro, oltre la cupola e nel nero dello spazio, la forma di Uma, il satellite maggiore, si disegnava di argento, come un’antica moneta dimenticata lassù da un passante distratto, o come un enorme blocco di roccia su cui la luce del sole si rifletteva. Il secondo satellite, il più piccolo Parvati, era sull’altro lato del pianeta, adesso, invisibile da quella posizione.

Mentre attraversavano l’atrio, Matteo si sorprese a cercare con gli occhi lo spettacolo del Teatro di Oklahoma, quello strano miscuglio di angeli sui trampoli, trombettieri, giocolieri e altre cose che di preciso non ricordava, al momento, e che lo aveva lasciato tanto perplesso sulla Terra, quando non ne sapeva ancora niente. Adesso ne aveva dovuto sapere fin troppo, su richiesta di Kemala, e quella immagine si era fatta più vivida nella memoria, mistificata dal tempo, come un vecchio sogno di cui ancora conservi qualche ricordo, ma che ormai non assomiglia più all’originale.

Non lo trovò, ovviamente. Il Teatro apparteneva alla Terra e i suoi occhi lo potevano solo cercare invano, su quel pianeta così distante da casa: il Teatro era il modo che l’Ufficio aveva inventato, per pubblicizzare la colonia di Madre, e renderla appetibile a una popolazione pigra, che poca voglia aveva di uscire di casa, per lanciarsi in folli avventure spaziali. Una popolazione da scardinare col piede di porco, per strapparla al morbido abbraccio della poltrona preferita. Su Lakshmi, invece, non serviva alcuna pubblicità: le colonie erano già una realtà per la gente, le colonie erano il mondo stesso su cui la gente viveva. No, la pubblicità migliore era proprio sotto la stazione: era il pianeta, che si allargava laggiù e che gli uomini avevano addomesticato, da zero.

O che stavano ancora addomesticando, secondo le parole di Sharma.

Matteo fu sorpreso, nello scoprire che provava sì nostalgia della Terra, e che per molti aspetti vi sarebbe tornato volentieri, anche subito, ma non era una nostalgia così forte, come avrebbe potuto immaginare. C’erano cose spiacevoli, su Lakshmi, e gli ultimi tempi gliene avevano mostrate fin troppe. Eppure... eppure era anche un bel posto, tutto sommato. Agrodolce, ecco: aveva lati che gli facevano arricciare le labbra, come un morso a un limone, e altri che lo rilassavano, lo spingevano a sorridere e pensare di essere nel paradiso terrestre. La pensava così anche Bogdan? La pensavano così anche gli altri immigrati, che erano giunti da vari pianeti per ragioni di studio, o altro? Era una domanda che avrebbe dovuto fare, forse, ma di cui non aveva mai avvertito l’urgenza. Adesso sì che l’avvertiva, ma decisamente troppo tardi. Almeno per chiedere a Bogdan, ecco.

La Terra. Trovarsi lì, in una stazione orbitale, a breve distanza da una nave passeggeri che, nel giro di due ore, sarebbe partita proprio per la Terra, lo costrinse quasi con la forza a rivedere la propria posizione verso il pianeta natale e il pianeta che lo ospitava. La Terra era il suo mondo, sì, ed era il luogo dove abitava la sua famiglia: il luogo dove un giorno sarebbe tornato, da laureato. Eppure, era anche un pianeta così remoto, così strano... un pianeta che, per qualche motivo, sentiva attorno a sé come una maglia troppo stretta, una maglia di quando aveva cinque, sei anni, in cui non sarebbe più riuscito a entrare. Una maglia che un tempo gli andava bene, prima che lui crescesse.

Lakshmi... no, non era probabilmente il migliore dei mondi possibili, non con quella strana politica di osservazione completa, totale, di chiunque, quella politica per cui ogni abitante può spiare ogni altro abitante. È possibile concepire qualcosa di più stupido, di più assurdo? Sì, ne era quasi sicuro, c’è sempre spazio per qualcosa di più stupido, ma al momento non riusciva a dire cosa. Eppure era un mondo accogliente, che si prendeva cura di te, che ti forniva tutto il necessario per vivere: una madre, comprensiva e amorevole, ma anche un poco paranoica, che ti controlla in ogni momento. Per il tuo bene, certo. Sempre per il tuo bene. Una madre che non ti lascia respirare, per il tuo bene. Come era stata la sua, quando era bambino.

Dove stava la sua fedeltà? Quale dei due mondi avrebbe scelto, se fosse stato costretto a scegliere? Quale amava di più? Il pianeta natale o il pianeta ospite? Quello su cui era nato, oppure quello su cui si trovava adesso? Ma una voce interruppe le sue pigre e inutili riflessioni.

«Beh, che hai? Pentito di non aver bevuto?»

Chakra lo fissava con la sua migliore espressione da schiaffi, sfiorandosi il pizzetto con una mano. Alla sua destra c’era una ragazza, probabilmente una delle due compagne di corso che aveva avuto vicino anche al mare, o forse una nuova. Matteo non le avrebbe mai riconosciute o distinte.

«Stavo pensando,» gli rispose. «Ogni tanto capita anche a me.»

«Invero strana è la vita,» disse Chakra, sorridendo.

«Senti un po’, ma sempre con questa storia del bere, tu? Non dovrebbe essere contro il tuo principio di responsabilità, farmi bere fino a intossicarmi?»

Chakra allargò le braccia. «Soltanto se ti costringessi a bere con la forza. Se però io ti invito e tu bevi di tua spontanea volontà, allora la responsabilità è soltanto tua, no? Non ricordi la lezione? E poi,» aggiunse strizzandogli l’occhio, «non ho mai detto di essere un cittadino responsabile, io. Che cosa te lo ha fatto pensare?»

Matteo si astenne dal commentare. Davanti a loro, Bogdan guidava il gruppo, parlando di chissà che cosa con Indira e Sharma. Indira non era stata molto comunicativa in quei giorni, notò Matteo, né lo era quella mattina. Sembrava persa in un mondo tutto suo, per ragioni che non aveva reso pubbliche a loro, o almeno non a lui: camminava piano, spesso a testa bassa, e un paio di volte si era girata verso la cupola della stazione, muovendo le labbra come a parlare tra sé.

Misteri. Ne aveva sempre uno, quella ragazza, e Matteo non aveva ancora capito il perché, anche se per oggi un sospetto lo aveva. D’altra parte, però, i misteri di Indira non erano la sua priorità, non adesso. Aveva cose più serie a cui pensare. Controllò l’orario, vide che aveva tempo e annuì.

«Due ore alla partenza, dunque?» chiese, a nessuno in particolare.

«Due ore, sì,» gli rispose Lin Yutang, che oggi aveva deciso di coprire i suoi capelli neri, e la radura che si allargava al loro centro, con una bizzarra cuffia viola. Soffriva molto il freddo, o così aveva detto durante il viaggio in treno, anche se l’inverno di Lakshmi era freddo quanto il novembre dove abitava Matteo, sulla Terra. E lo chiamano inverno, aveva pensato lui. Mollaccioni.

«Ma l’imbarco quando è? Prima, no?»

Lin Yutang scosse la testa. «Non ne ho idea, ma credo di sì.»

«È mezz’ora prima della partenza,» gli rispose Bogdan stesso, girandosi verso di loro e alzando la voce, per farsi sentire sopra il brusio del gruppo e degli altri viaggiatori, che affollavano la stazione e i suoi passaggi. Molta più gente di quanta ne avesse vista Matteo sulla Terra, il che era normale: Lakshmi era un mondo di coloni, un mondo in cui viaggiare nello spazio apparteneva alla tradizione e alla cultura locale. Non come sulla Terra, dove soltanto pochi si fidavano di una nave.

«Un’ora e mezza e poi ci saremo liberati di te, insomma,» riassunse Chakra.

«Esattamente,» rispose Bogdan. «Ma mi raccomando, non far bere troppo il mio collega terrestre, che tanto non regge neanche una piuma.»

Matteo sopportò in silenzio le risate, notandole appena. Stava rivivendo l’arrivo su Lakshmi, nella primavera precedente, confrontando quanto le cose fossero cambiate. Quasi un anno lakshmita era trascorso, ossia circa trecento giorni terrestri, qualcosa più qualcosa meno, eppure gli sembrava una vita intera, tante esperienze aveva avuto nel mezzo. Come mi sentirò fra tre anni, quando toccherà a me partire?, si chiese. E come saremo noi, fra tre anni?

Si fermarono davanti ai cancelli di imbarco, che soltanto Bogdan Stratos avrebbe potuto superare, di tutti loro, perché soltanto lui si sarebbe imbarcato per la Terra. Ed era una nave passeggeri autentica, stavolta, non le stanzette ricavate in una nave da carico, per arrotondare le entrate: se il viaggio per il colloquio all’Ufficio si era svolto in economia, il ritorno da nuovo dipendente dell’Ufficio stesso sarebbe stato il suo trionfo personale. E per il trionfo sembrava aver scelto il lusso.

«Ti tratti bene, eh?» gli disse Matteo, osservando l’impiegato fermo al cancello. Assomigliava più a un maggiordomo, come abbigliamento, e forse anche in questo si voleva offrire ai clienti un gusto un po’ retro, quel sapore che era abbinato alla Terra. Ai clienti lakshmiti, quantomeno.

«Eh, già! Niente stive pidocchiose per il mio ritorno a casa,» rispose Bogdan. «Solo il meglio, per il planetologo dell’Ufficio.» Rise, gonfiando il petto in una parodia di soldato sull’attenti. «Scherzi a parte, il biglietto lo ha pagato l’Ufficio, non io. Non sapevo neanche che tipo di nave aspettarmi, in effetti. Direi però che mi è andata abbastanza bene e lo considererò un buon segno per la mia nuova attività. Per il resto, staremo a vedere.»

«Sai già cosa farai di preciso?» chiese Sharma.

Bogdan alzò le spalle. «Lo schiavo del professor Vihersalo, almeno all’inizio. È il planetologo capo e io sarò al suo servizio, il che significa che dovrò fare il lavoro sporco e lui si prenderà i meriti. La solita storia, insomma, quello che succede a tutti i nuovi arrivati, in qualsiasi campo, ma aspetterò di avere almeno cominciato, prima di lamentarmene.»

«Come la metterai con la quarantena, per chi arriva da Lakshmi?» intervenne Indira. Era alla destra di Sharma, a braccia incrociate e faccia pensierosa. Non si era ancora lanciata nelle sue classiche stoccatine velenose, o battute di dubbio umorismo, il che era piuttosto insolito, per lei.

«Già, la quarantena,» borbottò Matteo. Ricordava la scena di Kemala furente, quando aveva portato la notizia. Negli ultimi giorni si era placata, segno che doveva aver studiato qualcosa in merito, di certo qualcosa che lui preferiva non sapere. I suoi occhi scivolarono a controllare l’orario, come se stesse aspettando qualcosa. E infatti la stava aspettando, ma era sempre un altro discorso.

«È una misura di sicurezza che si sono inventati sulla Terra, per una qualche storia sugli insetti di Madre o qualcosa del genere. Non è molto chiaro neanche a me,» rispose Bogdan, con una faccia infastidita. «Pare che gli archeologi lakshmiti, su Madre, abbiano portato qualcosa che agli insetti del posto non è piaciuto molto. Qualche germe, forse. Dovresti chiedere al Ministro dell’Ambiente, è lui che se n’è uscito con questa trovata della quarantena. Serve a “tutelare il patrimonio naturale di Madre”, come ha dichiarato, e devo ammettere che è una preoccupazione molto nobile, dopo che il patrimonio naturale di Madre è stato cancellato per terraformare il pianeta e impiantarci la nostra flora e la nostra fauna, al grido di “crescete e moltiplicatevi!”. Una pagliacciata, insomma.»

«Gli archeologi lakshmiti su Madre,» disse Sharma. «Ma un terrestre che da Lakshmi raggiunge la Terra, come è il tuo caso, non dovrebbe esserne toccato, dunque, se il problema riguarda soltanto il pianeta Madre. Oppure questo comporterà qualcosa anche per voi?»

Bogdan sospirò. «Non ci faranno niente, vedrai. È solo un pro forma, una delle tante buffonate che piacciono al nostro governo. Ci faranno uscire da una galleria speciale, arrivati alla stazione, e poi disinfetteranno con cura l’ascensore, dopo che saremo scesi sul pianeta. Al massimo, se proprio ne avranno voglia, ci scorteranno per un tratto con un qualche mezzo di trasporto riservato, sempre per fare scena. Quando non ci sarà più nessuno a guardarci, un calcio nel sedere e ognuno per sé. Ecco come sarà la quarantena, sulla Terra,» concluse. Aveva risposto a Sharma, ma si era rivolto a Indira, a rassicurarla per interposta persona. Perché dopotutto era lei che aveva sollevato la questione ed era lei che sembrava preoccupata. Indira si rilassò un poco, dopo aver ascoltato il discorso, ma non molto. Restava una certa rigidità di fondo, nei suoi gesti.

«Tornerai a fare un salto da queste parti, magari quando si laurea il tuo compagno?» chiese Sharma, per cambiare argomento.

Bogdan allargò le braccia. «Chi vivrà, vedrà. Non so ancora cosa mi faranno fare, all’Ufficio, né il modo in cui sarà organizzata la mia giornata. Se avrò tempo e soldi, verrò. Altrimenti, mi racconterà lui come lo avrete trattato. Spero molto male,» e strizzò l’occhio. «A ogni modo, farò il possibile per esserci, fra tre anni. Tre anni di Lakshmi, ovviamente, che sarebbero più o meno... beh, due anni e mezzo sulla Terra. Grossomodo. Ma vi farò sapere, le comunicazioni interplanetarie funzionano e non credo che all’Ufficio avrò problemi a spedire un messaggio o due, ogni tanto.»

«Vedremo,» disse Indira, con un mezzo sorriso.

Parlarono ancora, mentre il tempo scorreva e altri passeggeri si avvicinavano all’imbarco, da soli o con un seguito di amici a salutarli. Tre erano studenti terrestri, che come Bogdan si erano laureati e adesso tornavano a casa: non li conoscevano, ma Matteo era moderatamente convinto di averne già visto almeno uno al centro culturale, forse in una serata, o forse ad ascoltare le notizie dalla Terra, nei pomeriggi infiniti del Muro. Se era davvero lui, allora doveva essersi laureato in un qualche tipo di ingegneria. Ma forse non era lui.

C’era anche un gruppetto di passeggeri normali, non studenti, vestiti con un completo professionale ed elegante, che li etichettava subito come persone in viaggio di affari. Due uomini erano di sicuro lakshmiti, così come una donna, ma altre due donne dovevano essere terrestri, che parlottavano con due uomini ugualmente terrestri. Sposati? Compagni? Probabilmente no, pensava Matteo: c’era una dose eccessiva di distacco nei loro gesti, il che li doveva rendere colleghi di lavoro, o semplici conoscenti. In totale, non sembravano molti a dover partire per la Terra, che probabilmente non era proprio la meta turistica più ricercata. Ma ci sarebbe stato un altro passeggero, a breve. Controllò di nuovo l’orario e si masticò nervoso l’interno di una guancia.

Quando scattò la mezz’ora, Bogdan raccolse il proprio bagaglio a mano, con gli effetti personali che gli sarebbero serviti durante il viaggio. «Penso proprio che sia tempo di andare,» disse. «È stato un piacere vedervi tutti qui e festeggiare con voi, anche se il mio compatriota non mi ha concesso il piacere di ammirarlo intossicato, ma adesso sarà bene salutarvi, se non voglio perdere il volo.»

«Male che vada, un posto sulle panchine di Varshi lo troverai sempre. Basta chiedere,» gli rispose Chakra e il resto del gruppo lo accompagnò con una risata. Fu breve. L’ambiente tornò serio e un poco solenne, quando tutti si alzarono e si prepararono a salutarlo per davvero. Sarebbe partito, ora, e molti di loro non lo avrebbero mai più rivisto di persona, con ogni probabilità. E anche se questo non avrebbe cambiato le loro vite, restava pur sempre un momento simbolico, nel suo piccolo.

Con la valigia di nuovo accanto a un piede, e il cancello dell’imbarco che si apriva dietro di lui, per far salire i primi passeggeri, Bogdan Stratos abbracciò i compagni a uno a uno, partendo da Indira e finendo con Indira. Un’usanza che non apparteneva né alla Terra, né a Lakshmi, ma forse a Bogdan soltanto; nessuno se ne lamentò, ma qualcuno si lasciò sfuggire una lacrima, tra quelli che avevano imparato a conoscerlo meglio, in quelle stagioni.

«Beh, statemi bene,» disse alla fine. «E se qualcuno di voi dovesse passare dalla Terra, per qualsiasi ragione, avete il mio contatto: fatevi sentire e io vi dimostrerò che le nostre bevande non sono così tossiche come le vostre. Non tutte, almeno. Matteo ve lo potrà testimoniare.»

Con un sorriso e un cenno della mano, Bogdan infilò il cancello, passando accanto al tizio vestito da maggiordomo. Ancora qualche passo e sparì per sempre dalla vita di molti di coloro che lo avevano salutato. Il suo nome lo avrebbero sentito ancora, ma soltanto pochi lo avrebbero rivisto di persona. Tra i pochi c’era anche Matteo, che guardava l’orario e aspettava, mentre gli altri cominciavano già a disperdersi attorno a lui. Era in ritardo, e lo sapeva. Tempo di chiudere, ormai.

«Andate pure avanti, poi vi raggiungo. Voglio controllare un paio di cose, già che sono qui. Non ho voglia di farmi troppo spesso queste sei ore di viaggio, sapete.»

Così aveva spiegato Matteo ai compagni che si avviavano già verso l’ascensore, dopo l’imbarco di Bogdan. Strano ma vero, per una volta lo avevano ascoltato, senza fare domande, senza commenti stupidi, senza niente. Probabilmente avevano altro per la testa, al momento, ma Matteo non se n’era lamentato. Ottimo, anzi. Se avevano altro per la testa, non avrebbero pensato ai fatti suoi.

«Cerca di non perderti,» aveva risposto Chakra, più calmo del solito. Non ci aveva messo neppure le sue solite sghignazzate, o allusioni contorte.

«Non mi perderò, mamma,» lo aveva salutato Matteo. Aveva seguito i compagni con lo sguardo, giù lungo il corridoio, e aveva finalmente respirato, quando erano spariti dietro l’angolo. Andati! Poco tempo gli rimaneva, ormai, ma quel poco sarebbe bastato. O almeno sperava. C’era un’altra persona che sarebbe partita per la Terra, quel giorno, ed era il momento di incontrarla. E chiudere con quella storia, per tornare a essere un normale studente universitario. Se possibile.

Non aveva capito perché non volesse farsi vedere dagli altri, che neppure la conoscevano di faccia (a meno che non avessero seguito davvero a fondo le mirabolanti avventure di Matteo, con quello strambo sistema di spionaggio collettivo lakshmita), ma durante il viaggio aveva elaborato un tipo di spiegazione: il viaggio doveva restare il più possibile segreto, visto ciò che aveva in programma di fare sulla Terra. Di conseguenza, meno studenti la vedevano e meglio era. Suonava plausibile, come teoria. Inoltre, non poteva escludere che avesse deciso di viaggiare in incognito. Anche questo era plausibile, con una come lei.

Se davvero voleva essere in incognito, però, di sicuro non aveva avuto molto successo, almeno non con lui, perché Matteo riconobbe subito la sagoma alta di Kemala Kexin, quando gli si avvicinò. In pugno aveva anche lei una valigia, il bagaglio per il viaggio, ed era meglio non sapere cosa potesse averci nascosto: oggetti assurdi, se era convinta di spacciarsi da terrestre, ma almeno non doveva essere qualcosa di pericoloso. Non l’avrebbero fatta passare, in quel caso.

«Ce ne hanno messo quei tuoi amici ad andarsene, eh?» gli disse lei, fermandosi vicino al cancello. «Mi toccherà fare le corse, adesso, grazie a te.»

Matteo alzò le spalle, imbarazzato. «Lo sai anche tu come vanno queste cose, no? Saluti, abbracci, baci, addii: è sempre una roba lunga, specie se si va su un altro pianeta.» Pensò al fratello, per la prima volta da qualche tempo, e pensò a come si erano salutati, alla stazione orbitale terrestre. Non proprio come era andata con Bogdan, in effetti. Erano stati parecchio freddi, a confronto.

«E infatti non ho voluto nessuno, io, come vedi,» rispose Kemala, muovendo il braccio a indicare lo spazio vuoto attorno a sé. «Anche perché non è che possa proprio vantarmi del viaggio.»

«Perché hai chiamato me, allora?»

«Ultime raccomandazioni, prima della partenza. Sei un terrestre, nel caso te lo fossi scordato, e tra un paio di settimane avrò terrestri dappertutto. Sarà bene farmi un ripasso finale.» Posò la valigia e si massaggiò le tempie. Sembrava stanca, o stressata. Nulla di sorprendente.

«Sicura di farcela?» le chiese. «Anche per la storia della quarantena, per chi arriva da Lakshmi, sai com’è. Non hai più detto nulla, in proposito...»

«Non ho più detto nulla, perché non c’è da preoccuparsi. È stretta sulla tratta Terra-Madre, mentre tra Lakshmi e Madre i contatti sono proprio sospesi, ma sulla tratta Terra-Lakshmi le misure sono il minimo sindacale. Giusto per fingere che esista una epidemia vera, o problemi di contaminazioni ambientali, o quello che vuoi. No, non è quello a preoccuparmi. Potrebbe essere più difficile la parte dopo, ma arrivare sulla Terra sarà una passeggiata. Figurativamente, ovvio.»

«E allora qual è il problema?» Matteo si grattava la testa, dove i capelli ramati erano ormai cresciuti ben più di quanto non avessero fatto durante gli ultimi dieci anni sulla Terra. Era davvero tempo di tagliarli, ma rimandava sempre e poi si dimenticava.

«La vita comune. Fammi un veloce ripasso di tutte le cose che ti sono sembrate strane al tuo arrivo da noi e dimmi com’è una giornata-tipo sulla Terra. So che ne abbiamo già parlato, ma mi serve una rinfrescata, prima di partire. Per sentirmi più tranquilla, sai com’è.» Si masticava il labbro inferiore e spostava il peso da una gamba all’altra. Impazienza, nervosismo, o forse entrambe le cose, senza escludere l’eventualità che dovesse andare in bagno. Una spiegazione valeva l’altra.

Matteo sospirò. Occhiata rapida all’orario: forse ce l’avrebbe fatta. Forse. Ricominciò per la decima o millesima volta l’elenco delle differenze che aveva trovato tra la Terra e Lakshmi, ora in versione accelerata e sintetica. Le abitudini della gente, il modo di salutare, cibi e bevande, le regole base del vivere sociale e più o meno tutto quello che gli veniva in mente, al momento. Non sapeva come se la sarebbe cavata Kemala, in un mondo dove bisogna pagare per tutto, ed era sicuro che l’avrebbero arrestata per furto nel giro di una settimana al massimo, magari dopo essere uscita da un ristorante senza passare alla cassa, pensando di essere ancora su Lakshmi. Era davvero pazza, quella tipa.

Doveva riconoscere, però, che aveva fatto un buon lavoro, per mimetizzarsi. Soprattutto per quanto riguardava le scelte di colori, che su Lakshmi erano semplicemente orrende, agli occhi di terrestri privi di disturbi mentali. Guardandola di sfuggita, poteva davvero essere scambiata per una normale donna terrestre, cosa che invece non si sarebbe potuto dire della maggioranza dei lakshmiti visti fino a quel momento: avevano “colono” stampato sulla fronte, in corpo 70. Probabilmente qualcuno si sarebbe interrogato sui suoi antenati, perché non erano lineamenti comuni sulla Terra, ma nel complesso Matteo riteneva che fosse accettabile.

Accettabile nella regione nordamericana, o in quelle asiatiche, aggiunse fra sé, dopo una riflessione. Lì si potevano trovare le mescolanze più strane e lì, con un poco di fortuna, un colono lakshmita si sarebbe potuto mimetizzare. Meglio lasciare perdere Mediterraneo e Nordeuropa, però: una faccia come la sua sarebbe sembrata troppo anomala, da quelle parti.

«Seriamente, quante possibilità mi dai?» gli chiese Kemala, all’improvviso, mentre ancora le stava elencando le varie cose a cui stare attenta.

Matteo scrollò le spalle. «Non sarà facile, ma diciamo che potresti avere un cinquanta per cento di possibilità, se ti ricordi tutto,» le rispose, guardando un punto alla destra dei suoi piedi.

«Pensi che andrà a finire male.»

Cercò una risposta che suonasse al tempo sincera e plausibile, ma non la trovò. Arrossì, passandosi la mano davanti alla bocca. «Penso che stai facendo una stupidata, ma con un po’ di fortuna potresti anche saltarci fuori intera,» disse alla fine.

«Lo so, è una pazzia, ma non sono pazza, credimi. Posso essere ossessionata, ma non sono pazza. È solo che non ho altra scelta. Ascolta!»

Kemala lo prese per le braccia e lo spinse indietro, un poco più lontano dal cancello di imbarco. Le restavano ancora dieci minuti scarsi, ma dieci minuti bastavano. Forse. Altrimenti, li avrebbe fatti bastare lei. «Ascolta!» ripeté, guardandolo negli occhi.

Matteo aveva qualche difficoltà ad ascoltarla, in effetti, ma soprattutto difficoltà a concentrarsi. Che cosa le era venuto in mente, adesso? Che cosa voleva fargli? Anche senza tacchi, e adesso non aveva tacchi, Kemala era una ragazza alta, più alta di lui, ed era anche piuttosto forte, almeno a giudicare da come gli stava strizzando i bicipiti. Non era proprio doloroso, ma lo poteva diventare: senza le maniche lunghe, forse, gli avrebbe lasciato segni rossi sulla pelle. Forse non era pazza, ma adesso lo sembrava. A parte gli occhi nocciola, che si ostinavano a rimanere fissi nei suoi. Lì non c’era pazzia, ma decisione e anche una spruzzata di paura.

«Pensi che potrebbe succedermi qualcosa, se scoprissero che sono lakshmita?» gli chiese. «Quando sarò partita col Teatro, dico.»

Matteo cercò di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. «Sì,» rispose. Adesso cominciava a sentirsi il personaggio di un film, magari dell’orrore, alle prese con lo scienziato pazzo di turno, che sbraita di non essere pazzo, mentre descrive la sua ultima invenzione malata. Ottimo.

«Bene! Sono ossessionata, ma non pazza. Non parto alla cieca. Capisci? Ho fatto dei preparativi, prima del viaggio. Faccio sempre preparativi, ormai dovresti saperlo.»

«Che preparativi?» chiese Matteo. Avrebbe preferito non saperlo.

«Misure di sicurezza. Nel caso volessero arrestarmi, o farmi qualcosa. Non so, magari anche farmi sparire, perché no? Potrebbero pensare che io sia una ragazza stupida, in cerca di avventure, e che nessuno si accorgerà se non tornerò indietro. Così non ci sarebbero problemi diplomatici con Lakshmi, capisci? Sono cose che succedono, ogni tanto.»

E sono anche cose a cui Matteo non aveva pensato, prima di allora. Adesso che le sentiva, però, gli si aprivano nella mente svariati futuri possibili, uno più negativo dell’altro. Perché si era infilato in questa storia? Perché non l’aveva semplicemente salutata, in quel locale a Bishapur, per poi uscire e raggiungere i compagni? Si sarebbe risparmiato un sacco di guai. Anzi, un cargo di guai, secondo la parlata di Chakra. Invece...

Ma conosceva la risposta ed era poco edificante, per lui. Il perché era quel campo gravitazionale che aveva catturato i suoi occhi, nel locale: quel campo gravitazionale che funzionava benissimo con un bikini, ma che perdeva gran parte della sua forza con una camicia abbottonata fino al collo, più un maglione, più una giacca, più una sciarpa, e chissà quanti altri strati intermedi di stoffa, per opporsi al presunto freddo. Adesso esercitava la stessa attrazione gravitazione di un asteroide, su di lui. Ma adesso era anche troppo tardi.

«È per questo che mi sono preparata,» stava continuando Kemala, «e lo racconterò anche a te. Una sicurezza in più, mettiamola così.» Sorrise. «Conosci Choi Jaewon? No, non la conosci, per forza. È la mia relatrice, il docente con cui ho fatto la tesi di laurea. A proposito, indovina l’argomento? La pietra di Agni e le affinità con le rovine di Madre. Non l’avresti mai detto, eh? A ogni modo, ne ho parlato anche con lei e lei mi ha risposto che sono pazza. Naturale. Ma non si è opposta. Capisci? Sa della mia ossessione e non si è opposta. È piuttosto pazza anche lei, a modo suo.»

Chissà come sarebbe finita, se si fosse opposta, pensò Matteo. Non sapeva dove volesse arrivare lei, con quel discorso, ma sapeva che lo avrebbe trascinato in mezzo ancora di più, come se già non ci fosse dentro fino al collo. E non indaghiamo sul tipo di materiale in cui era immerso, grazie tante. E cos’era poi la pietra di Agni, fra parentesi?

«È lei che mi ha aiutata in tutte le richieste di pass, quelle richieste che il tuo governo ha rifiutato, e sa tutto ciò che voglio fare. Dovevo dirglielo, capisco? Deve esserci qualcuno, qui su Lakshmi, che conosce me e che conosce quello che voglio fare. Qualcuno che conti abbastanza e che possa farsi ascoltare anche da altri, se le cose si dovessero mettere male. Choi Jaewon può farlo. Sia perché ha alle spalle l’università di Varshi, sia anche perché è membro di peso nella Società Interplanetaria di Archeologia. Forse non ti sembrerà molto, lo so, ma ti assicuro che lo è, soprattutto per un mondo come Madre, che è fondato sull’archeologia. Capisci?»

Matteo annuì. Sì, forse non era poi pazza come sembrava. O meglio, era pazza, ma almeno aveva un briciolo di senso pratico ad appoggiare la sua pazzia. Agiva da folle, ma pianificava ogni azione in modo razionale e lucido. Poteva essere molto pericolosa, in altri termini.

«Quando sarò sulla Terra, cercherò di tenermi in contatto con lei. Non so come siano i vostri mezzi di comunicazione, ma ci saranno almeno luoghi da cui poter spedire messaggi a pagamento, no? Su altri mondi, dico. Sì, bene,» continuò, vedendo Matteo annuire, «allora è un problema in meno che dovrò affrontare. Dicevo, mi terrò in contatto con lei fino a quando non partirò per Madre. Se mi dovesse succedere qualcosa, se mi dovessero arrestare, per esempio, Choi Jaewon potrà agire, per fare pressioni sul governo attraverso l’università e la Società e chiedere il mio rilascio, o almeno il mio trasferimento su Lakshmi. Capisci? Se invece mi bloccheranno su Madre, ancora meglio: là ci saranno anche più appoggi e poi avrò comunque raggiunto il mio obbiettivo, vedi. Sarò su Madre.»

Matteo arricciò il naso. «Se proprio sicura che funzionerà? Perché la tua amica, la tua relatrice, ti potrà aiutare solo dopo che ti sarà successo qualcosa. E se fosse, uhm, troppo tardi?»

«Ho preso la mia decisione e andrò fino in fondo,» gli rispose lei. «Succeda quel che succeda. Non sono così sprovveduta, te l’ho detto, e neanche stupida. Ho fatto tutto ciò che potevo, per stare sul sicuro e ridurre i rischi, ma i rischi ci saranno sempre. Voglio partire come clandestina verso un pianeta vietato, no? Credi forse che lo potrei fare senza rischi? No, ma sono pronta ad affrontarli. Il contatto con Choi Jaewon mi servirà per i problemi diplomatici, quelli che io non saprei superare da sola, perché ci sono di mezzo rapporti tra pianeti. Coi problemi normali mi arrangio io. Ce la farò, vedrai.»

Quello che spaventò davvero Matteo, e che avrebbe ricordato a lungo dopo quell’incontro, furono gli occhi di Kemala, ciò che lesse in quegli occhi. Non scherzava. Ed era spaventata, sì, ma non solo. Fosse stata solo paura, Matteo l’avrebbe capita. Il fatto è che era anche felice. Si stava gettando nel mezzo di una follia, le poteva succedere di tutto, ma era felice. Questo non lo poteva capire, non lui. Pazzia, fu il solo modo in cui poteva tradurlo.

«Se ne sei convinta tu...» le rispose, incapace di nascondere il dubbio.

«Ne sono convinta!» Lo scrollò per le braccia. Adesso sì che sarebbero rimasti i segni. «Vedrai che ce la farò. Se riesco, cercherò di contattare anche te, dalla Terra, così ti terrò aggiornato. E adesso augurami buon viaggio, che se non scappo subito, la nave se ne va senza di me.»

«Buon viaggio,» fu tutto ciò che le poté dire, ancora confuso da quella storia. Sembrava molto meglio assecondarla, per adesso, almeno, finché non gli avesse lasciato andare le braccia.

«Bene, grazie! Ci vedremo su Madre, se mai passerai di là. Oppure sulla Terra, o da qualche parte, prima o poi.» Gli lasciò finalmente andare le braccia, raccolse la valigia e un attimo dopo correva attraverso il cancello d’imbarco, sparendo nella galleria che portava alla nave. Ci vollero quasi due minuti, prima che Matteo avesse capito cosa fosse successo, e forse neppure allora lo capì davvero. Sapeva soltanto che Kemala Kexin era andata, verso la Terra e verso un progetto che l’avrebbe di sicuro precipitata in un oceano di materiale organico di scarto, altrimenti detto “merda”. Ed era lui che ce l’aveva spinta, in un qualche modo. Una parte della responsabilità era sua, come confermava la presenza del Baffo, nelle vie di Varshi. Cosa ne avrebbe avuto in cambio?

Meglio non pensarci più. In fondo, era lei che aveva deciso di andare; lui le aveva soltanto dato una mano, un piccolo aiuto, che avrebbe potuto trovare anche altrove. Non era colpa sua. No. Neanche un poco. Era stato vittima delle circostanze e aveva solo fatto ciò che riteneva giusto. Anzi, meglio ancora, aveva fatto ciò che gli era stato ordinato di fare. Dunque, era innocente.

Caso chiuso, meglio dimenticare tutto. Probabilmente non avrebbe più rivisto neppure il Baffo e si sarebbe potuto concentrare soltanto sugli studi, da adesso fino alla fine del suo corso di laurea. Una situazione da cui avrebbe tratto solo vantaggi, no? E la pazza era andata, il che era ancora meglio.

E così l’innocente Matteo Kori si incamminò verso l’ascensore, scuotendo ancora un poco la testa, ma libero ormai dai sensi di colpa, per qualcosa su cui non aveva avuto controllo. I suoi compagni erano già scesi e lo aspettavano di certo nell’albergo di Mathurnath, la città ai piedi dell’ascensore, dove avevano alloggiato e festeggiato la notte precedente. Là li avrebbe trovati e là, magari, ci sarebbe stato spazio per una seconda festa, oppure si sarebbero accontentati di due passi per la città, e il mattino dopo altre sei ore di viaggio, per tornare a Varshi. Fine dell’avventura, bentornata sana routine quotidiana.

Il nuovo anno era alle porte, il suo secondo anno sul pianeta. Che cosa gli avrebbe portato di bello, quella volta? Sarebbe stato migliore del primo anno, più tranquillo, più sereno: di questo era certo. Come sarebbe potuto andare peggio, in fondo?